IL MEDIATORE CULTURALE: COME COSTRUIRE UN PONTE TRA DUE CULTURE
Condividi questo articolo


IL MEDIATORE CULTURALE:
COME COSTRUIRE UN PONTE TRA DUE CULTURE


 


L’IMMIGRAZIONE: ANALISI DEL CONTESTO


 


I fenomeni migratori sono il prodotto di un mercato globale che non ha solo portato alla caduta di barriere culturali, ma ha anche accentuato le disuguaglianze economiche, rendendo macroscopico il divario tra nord e sud del mondo, che si trova a partecipare all’economia globale, con le sue risorse naturali e con una forza lavoro inesauribile e a costi bassissimi. Diventa inevitabile che, in uno scenario in cui nessuna regione rimane estranea all’attrazione del mercato mondiale con  i suoi simboli e le  sue lusinghe ma in cui le opportunità globali non si muovono verso i poveri, siano i poveri a muoversi verso esse, fuggendo dai vincoli e dall’incertezza di aree marginali e progressivamente immiserite. Diversi sono i progetti e le condizioni di partenza e di ritorno. Si può migrare per sfuggire a una guerra civile o a una carestia, per mantenere chi è rimasto a casa con un lavoro precario e stagionale, per costruirsi una casa o un futuro nel proprio paese, ma anche per aumentare le proprie opportunità o il proprio reddito. Per questo contrariamente agli stereotipi correnti, non emigrano solo i poverissimi e i non istruiti, ma spesso i laureati, i tecnici e gli studenti. Le migrazioni non sono invasioni di masse omogenee e culturalmente caratterizzate, ma piuttosto trasferimenti non necessariamente definitivi. di una pluralità diversificata di individui, legati a progettualità e ad aspettative differenziate.  Osservando i dati del dossier statistico della Caritas 2004, la situazione di ineguale sviluppo economico della società mondiale come prima causa dell’immigrazione appare drammaticamente reale. I 6,3 miliardi di persone della terra non hanno tutti la stessa dignità: il 60% della ricchezza mondiale è detenuto dall’America e dall’Europa, che sono solo un quarto della popolazione mondiale. Il reddito medio annuale per abitante del pianeta è di 8.200 dollari ma questo è solo virtuale perché scende alla metà per i paesi in via di sviluppo ed oscilla tra i 36.239 dollari dell’America Settentrionale e i 938 dell’Africa Orientale. Se si guarda all’economia globale dal punto di vista della gente, il suo più grande fallimento consiste nell’incapacità di creare lavoro sufficiente nei luoghi in cui le persone vivono. Una delle maggiori risorse di questi stessi paesi è costituita dagli stessi risparmi degli immigrati che nel 2003 hanno costituito la prima fonte del loro finanziamento (pari a 9,3 miliardi di dollari). Già nel corso degli anni 90 era giusto affermare che l’immigrazione tra quote programmate e consistenti regolarizzazioni, andava aumentando secondo un ritmo vivace: tra il censimento del 1991 e quello del 2001 la presenza è triplicata, passando da 356.000 a più di un milione di presenze. Successivamente l’andamento è diventato molto sostenuto e, tra il 2000 e 600mila presenze regolari. I primi tre gruppi nazionali (Romania, Marocco, Albania) ciascuno con circa 230/240 mila soggiornanti registrati, hanno rafforzato la loro consistenza. Al quarto posto per numero di soggiornanti balza l’Ucraina (113.000) e quinta è la Cina (100.000). Nella fascia tra le 70 e la 60.000 presenze troviamo Filippine, Polonia, e Tunisia, mentre nutrito è il gruppo di paesi con 40.000 presenze (Stati Uniti, Senegal, India, Perù, Ecuador, Serbia, Egitto, Sri Lanka). Per quanto riguarda i continenti si impone la presenza europea con quasi la metà del totale (47,9 di cui solo il 7% costituito da cittadini comunitari) seguita dall’Africa con quasi un quarto (23,5%) ciò conferma la tendenza della politica migratoria italiana a coltivare una dimensione euro-mediterranea. La difficoltà dell’integrazione di questi uomini e queste donne venute da lontano è sicuramente complicata da un fattore importante: il nuovo scenario mondiale. Lo scenario moderno è caratterizzato non solo da disordini e squilibri economici, ma anche e soprattutto da disordini sociali e culturali. Sembra infatti che la società, la politica, la convivenza fra diversità, vadano sempre più verso il disordine sia politico, con il crollo di vecchi giganti del potere, la scomparsa di vecchie statualità e la comparsa di micro-nazioni, ma anche e soprattutto, disordine culturale. L’afflusso costante di immigrati, provenienti in buona parte dai paesi interessati dal crollo del bipolarismo e dall’avanzamento dei conflitti bellici, porta ad un incontro/scontro tra identità etniche, culturali ma anche sociali ed economiche. Questi processi migratori modificano inevitabilmente anche l’organizzazione sociale e culturale dei luoghi, soprattutto nelle grandi città, dove la globalizzazione genera spazi contraddittori caratterizzati da differenziazioni interne, continui sconfinamenti e nuove conflittualità. I giornali attestano la persistenza di atti di violenza riconducibili a intolleranza razziale nei confronti di cittadini stranieri. Nel corso di cinque anni pur essendo diminuita in termini assoluti i casi di violenza (spesso rivolta a donne singole, per lo più da parte di sfruttatori o anche a minori) sono tuttavia aumentati quelli dichiaratamente razzisti (50 su 236 nel 2002 pari al 21% del totale) che sfociano nella morte dell’aggredito. Tra le città monitorate, Roma detiene il tasso più alto di aggressioni a sfondo razzistico mentre più tolleranti risultano, tra le grandi province, Napoli e tra i piccoli capoluoghi, Ancona, Pesaro e Avellino. Un'altra indagine (condotta su un campione di giovani tra i 14 e i 18 anni) mostra come il pregiudizio razziale in Italia sia più marcato verso musulmani, ebrei e immigrati extracomunitari e a livello territoriale più presente in regioni del nord come Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Quasi il 50% del campione intervistato ritiene che gli immigrati debbano tornarsene a casa loro soprattutto perché avverte la paura dell’accerchiamento o teme la perdita della propria identità e delle proprie tradizioni, mentre diminuita risulta la preoccupazione che gli stranieri tolgano lavoro agli italiani.[1] In realtà grazie anche a norme sui permessi di soggiorno e di lavoro progressivamente sempre più restrittive e difensive, è come se la gran parte degli stranieri presenti sul nostro territorio fossero avvolti da una membrana di invisibilità: persone che vivono lavorano, fanno progetti stringono relazioni, ma che rischiano di diventare non persone. “Il contrasto tra la loro visibilità esterna, ingombrante perturbante diventa istituzionalmente  l’effetto di ciò che il nostro mondo proietta sulla membrana della loro invisibilità giuridica e concreta e in essi vediamo i criminali, i poveri, i clandestini, gli abusivi in sintesi gli estranei che pretendono di vivere fra di noi o di prendere il nostro posto.”[2] Molto spesso l’immigrato è richiesto ma non benvenuto: l’utilità e la convenienza della sua presenza economica entra in contraddizione con la sua inaccettabilità sociale di residente sul territorio. Nei conflitti sociali e politici che inevitabilmente scaturiscono da questa contraddizione, più che la disponibilità a integrarsi dei nuovi arrivati il nodo sembra essere la disponibilità a integrarli da parte della società di accoglienza.


 


COSTRUIRE UN PONTE TRA CULTURE


Una soluzione per attenuare il crescente disordine sociale risiede nella capacità di  trovare un punto di incontro e scegliere una via di mezzo o favorire compromessi; è creare ponti e tessere reti di relazioni o individuare significati intermedi e condivisi. La mediazione così concepita rappresenta così l’impegno razionale a contenere le risposte immediate e reattive e a trasformarle in momenti di costruzione e di crescita. Sul piano dell’agire le mediazione è la prassi ternaria, discorsiva, conciliatoria, assertiva che mira a contrastare le interazioni potenzialmente o concretamente conflittuali permeate dalla logica vincitori e vinti che in realtà è un gioco a somma zero[3]. Quanto più le relazioni sociali e interpersonali si moltiplicano e si complicano, tanto più la mediazione sembra progressivamente necessaria e inevitabile. Il conflitto che rimane sempre sullo sfondo anche quando non si manifesta, è il complesso problema culturale della convivenza e del confronto fra diversi sistemi semantici, punti di vista e progetti di vita che si concretizza specificatamente nelle forme del conflitto politico, sociale ed economico. Una delle ragioni del permanere e dell’accentuarsi di questo conflitto è da individuare nella contraddizione fra un mondo che si unifica e una incapacità di pensare queste trasformazioni.  La paure dello straniero e della sua contaminazione culturale è un modo per dare visibilità a in mondo globalizzato più difficile da capire e concettualizzare e rende esplicito la realtà di culture nazionali create artificialmente (solo da un paio di secoli). Le paure aumentano con il dilagare di guerre e disastri naturali  e dall’aumento di una mobilità generale che non dà più protezione. Il diverso considerato un tempo interlocutore del divino, grazie alla razionalità e al metodo della ricerca diventa il nemico l’altro da se. La paura del nemico nasce in epoca di crisi ed è la paura che elementi estranei si infiltrino inducendo un cambiamento che coglierebbe impreparati i protagonisti dello stesso.


Il tentativo di tenere a distanza l’altro, il diverso, l’estraneo, lo straniero, la decisione di ignorare o negare il bisogno di comunicazione e di incontro, non è l’unica risposta concepibile ma sicuramente la più prevedibile di fronte all’incertezza esistenziale che si radica nell’attuale fragilità e provvisorietà dei legami sociali. Quanto più ci si sente esposta al rischio di infiltrazione e di contagio da parte di elementi estranei, tanto più la vita dell’individuo e della società tende a chiudersi all’interno dei propri confini e delle proprie pratiche immunitarie. Emblematici a tal proposito i sostenitori dell’identità etnica e della sua preservazione, come della purezza e dell’isolamento comunitari espressione più radicale della paura della contaminazione sociale e culturale e del bisogno insoddisfatto di sicurezza individuale. L’idea di eticità rimanda infatti a una sorta di vincolo preordinato e indissolubile che precede qualsiasi altra contrattazione e frena ogni intervento sulla sua frammentaria ma rassicurante funzione di nicchia omogenea e naturale. In realtà la cultura o l’etnicità  riconosciuta ai migranti è soprattutto quella che deriva da un processo di costruzione e di eticchettamento operato dalle società di immigrazione che trasformano gli stranieri in etnie, comunità e subculture per acquisire maggiore capacità di identificazione, controllo e marginalizzazione di ciascuno come oggetto di contrattazione o sfruttamento. Fra tutte le componenti del profondo conflitto sociale che è sotteso al bisogno di mediazione culturale nei processi di accoglienza, integrazione inserimento nei servizi degli adulti e dei bambini quest’ultima rappresenta il rischio più sottile: la nozione di multiculturalismo. questa può contribuire ad avvalorare il falso presupposto che i migranti costituiscano frammenti di culture diverse e immutabili a cristallizzare la loro differenza a perpetuare e approfondire il naturale solco fra noi e loro. Con il risultato che i migranti vengono ricacciati nei loro contenitori culturali o religiosi percepiti come o una minaccia all’integrità delle società che li ospitano o come una temporanea risorsa da rispedire al mittente quando non è più necessaria.


La mediazione diventa così una modalità necessaria per favorire l’incontro e disinnescare i fattori che rischiano di trasformare invece l’innesto di elementi fautori di cambiamento in scontro di civiltà. Il mediatore dovrà saper rappresentare la cultura minoritaria facendola entrare in relazione con quella maggioritaria e assumendosi la responsabilità di far interagire due sistemi, per valorizzarne i punti di forza e creare un sistema di reciprocità e di scambio fra le diverse regole di vita e di organizzazione sociale. Se mediare significa avvicinare, facilitare il contatto, incoraggiare e sostenere l’interazione e lo scambio, in sintesi il compito del mediatore è da un lato quello di agevolare l’accesso e l’uso da parte degli immigrati di servizi, luoghi e risorse comuni a tutti i cittadini, dall’alt6ro quello di favorire il riconoscimento, da parte del paese di accoglienza, dei bisogni delle specificità e delle differenze culturali linguistiche e religiose di cui sono portatori i singoli gruppi di immigrati. Affinando le proprie competenze potrà esplicitare i diversi significati che le situazioni assumono per soggetti posti in condizioni e culture diverse, ma anche rivelando con appropriate traduzioni l’essenziale omogeneità delle situazioni dell’esistenza. Il mediatore svolgerà il difficile compito di creare ponti e legami tra soggetti diversi svelando e rendendo trasparenti le differenze e le somiglianze e tentando di riparare o almeno di attenuare le asimmetrie e le differenze rispetto alla risorse ma anche le dissonanze nelle rappresentazioni delle diversità e nella comunicazione interculturale. Per fare ciò il mediatore deve essere in grado di superare la propria cultura creando in se stesso, un ibrido coerente ed equilibrato,  il cui fondamento sarà la concezione universalistica che ogni cultura è solo un tassello, un riflesso, una parte di una  molto più grande.


Nonostante ne sia stata delineata l’importanza e la funzionalità nel favorire ed accompagnare i processi di cambiamento legati al fenomeno immigrazione, il mediatore culturale è però una figura professionale ancora indefinita. La normativa nazionale soltanto di recente ne ha riconosciuto l’esistenza e la funzione. E’ infatti solo con la legge del 6 Marzo 1998 n. 40, Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, che si fa riferimento esplicito al mediatore culturale, definendone il ruolo attivo nell’integrazione sociale delle minoranze. Mentre aumenta progressivamente in diversi settori la richiesta di mediatori nei servizi pubblici come facilitatori delle relazioni fra le istituzioni e le comunità minoritarie e immigrate,  manca un atteggiamento definitivo e condiviso circa il profilo professionale, i bisogni formativi e gli stessi compiti che questi esperti della mediazione sociale e culturale, dovrebbero svolgere all’interno o a fianco di questi servizi.


 


COMPETENZE


 In mancanza di una concreata definizione di una definizione più precisa della figura professionale del mediatore si può tracciare invece una mappa di quelle necessarie competenze in grado di favorire e agevolare il suo ruolo di ponte fra culture. Il mediatore in sostanza darà importanza non solo a competenze teoriche ma sarà in grado di:


1.      sperimentare su se stesso interazioni dotate di senso e di significati condivisi e la capacità di individuare in queste relazioni gli spazi intermedi per la costruzione di passaggi di senso capaci di mettere in luce gli universali su cui si fondano i confronti e i legami tra gli apparenti particolarismi.


2.      La capacità di osservare la realtà come risultato di una costruzione sociale[4] e di intervenire per modificarla, implica lo sviluppo di una competenza fondamentale per il mediatore: quella di prendere le distanze dai processi di reificazione su cui si basano gli stereotipi e le credenze comuni, per poterli osservare e criticare pur mantenendo un contatto empatico con i soggetti che ne sono portatori e che li rendono visibili.


3.      Sarà in grado di ripensare le condizioni e le modalità che consentono l’avvicinamento all’altro, al diverso da noi e costruire una relazione concreta con la differenza e rendere questa alterità plausibile ai nostri occhi cercando di smontare l’immagine inquietante e mostruosa dell’altro e il desiderio di omologarlo di cancellarne la differenze, di renderlo identico a noi. considerazioni emerse.


4.       capacità di analisi antropologica. Questa capacità non si limiterà tanto allo studio delle principali teorie antropologiche ma sarà mirato ad acquisire la capacità di osservare ed analizzare il modo in cui i modelli culturali dell’uomo moderno sono utilizzati per gli scopi che egli considera come primari. Questi possono portare alla divisione, alla sopraffazione o all’interazione cumulativa. Il concetto più importante che sarà applicato dal mediatore sarà il concetto chiave della scuola di Chicago ossia la schismogenesi. Questo termine indica i processi di differenziazione nelle norme culturali del comportamento individuale.Grazie ad un’analisi del genere applicata al contesto dell’immigrazione, quindi sul come e sul perché le civiltà entrano in contatto, il mediatore culturale potrebbe essere in grado di modificare un contatto distorto e nocivo.


5.      Un nuovo tipo di apprendimento imparando a comprendere le novità della società post-moderna che ospita i fenomeni migratori e a valutare se i singoli comportamenti sono adeguati al contesto è una questione di apprendimento superiore. Ossia la capacità di unire il conosciuto con lo sconosciuto, di acquisire un saper fare, di riconoscere non soltanto ciò che era già noto ma ricongiungere il riconoscimento con la scoperta. Nel cercare  di destrutturare la propria cultura (intesa come modo di osservare e interpretare la realtà sulla base di valori propri o trasmessi), il mediatore deve cercare di superare il proprio etnocentrismo e assumere un atteggiamento di relatività culturale. Per fare ciò dovrà reimparare a conoscere la propria cultura e reindividuare le cornici culturali per l’osservazione di dinamiche interculturali  al fine di comprendere e accattare le differenze.Ciò comporterà un analisi degli orientamenti valoriali che sono alla base di attitudini credenze e opinioni e come la propensione a preferire una scelta ad un'altra ( rapporto tra individuo e natura, tra l’uomo e il tempo


6.      capacità comunicativa La comunicazione fa parte del processo di apprendimento e presuppone uno scambio continuo di informazioni tra noi e l’esterno. Se questo flusso è disturbato i comportamenti e gli apprendimenti della persona saranno altresì disturbati e presenteranno patologie più o meno gravi. Se il mediatore culturale riesce a far propria una diversa  definizione della comunicazione, concependola come una differenza che genera una differenza,[5] passa da una comunicazione incentrata sulla relazione/integrazione piuttosto che sulla divisione/opposizione. Questo passaggio favorisce la consapevolezza della necessità di un cambiamento radicale del modo di vivere e di rapportarsi all’esterno e delle regole che ci siamo dati per vivere. comporta la conoscenza e la capacità di controllo su se stessi, sui propri gesti e modi di comunicare, sulla rappresentazioni che si hanno degli altri, ma anche la capacità di ricavare risorse e progetti dai punti critici della relazione per costruire nuovi contesti di empatia e comunicazione.


 


Per questo il mediatore dà molta importanza a:


 


ü      Parole e significati


ü      Gesti e linguaggi non verbali


ü      Punti di vista differenti


ü      Storie personali appartenenze e riferimenti culturali soggettivi


ü      Smettere di cercare il controllo degli altri e cercare un miglioramento della partecipazione collettiva


ü      Smettere con l’abitudine alla manipolazione unilaterale degli altri e creare modelli sociali di co-evoluzione


ü      Smettere di trattare gli altri come macchine e cercare relazioni spontanee


ü       


 


7.      educazione alla convivalità della differenze: sarà un percorso molto importante in cui si effettuerà:


 


·       revisione critica dei saperi insegnati nelle scuole. Ad esempio nella storia scoperta/conquista dell’America, rilettura critica delle civiltà del mediterraneo(Braudel) studi sulla subalternità.


·       confronto tra culture: orale/tradizione scritta, incontro e scontro di valori, valorizzazione della lingua e della cultura di origine,


·       Sperimentazione della migrazione come viaggio dentro di se


·       Attività interculturali comuni: attività di conoscenza reciproca anche attraverso il ricorso a linguaggi verbali e non verbali (teatro, musica, disegno, drammatizzazione ) lettura di libri bilingue, confronti culturali per analogie e differenze.


 


Queste competenze acquisite sono di enorme importanza in quanto permettono di cambiare la prospettiva personale del mediatore fornendogli un diverso approccio alla realtà,  che gli consente una sorta di ristrutturazione psico-sociale. In possesso di questo  nuovo senso della realtà il mediatore saprà analizzare ed osservare in un ottica diversa:


 


1.      La normativa che regola le condizioni di soggiorno accoglienza e permanenza nei vari paesi


2.      I diversi progetti migratori i periodi di permanenza, le situazioni e la condizioni relative, con particolare riguardo alla tipologia degli utenti con cui ci si rapporta e il tipo di bisogno che esprimono


3.      L’immigrazione studiata nei suoi vari aspetti psicologici, individuali, esistenziali, sociologici, statistico-demografico


4.      L’organizzazione e le risorse del sistema welfare con particolare riguardo alle caratteristiche e le funzioni delle strutture nelle quali avviene la mediazione.


5.      Il rapporto tra laicità e stato nelle diverse culture in particolare l’analisi tra fondamentalismi e democrazie.


6.      La questione femminile  con particolare riguardo alle zone mediterranee.


7.      Approccio alle diversità culturali: in particolare l’analisi sulle principali religioni e la cultura da essi portata


8.      Il sistema internazionale della cooperazione economica e culturale.


 


In sostanza al centro di ogni conoscenza di ogni competenza tecnica o pratica dovrà porsi la persona umana ponendola in grado di  sviluppare comportamenti, atteggiamenti e una comunicazione che traduca in pratica i principi della interculturalità nei rapporti con il prossimo. Smontando i meccanismi della frustrazione, del controllo degli altri, dell’aggressività si cercherà di intraprendere un percorso educativo che riesca a comprendere i bisogni, le emozioni e le infinite alterità dell’altro


 


Questo punto riveste una notevole importanza perché è proprio la concezione dell’uomo a favorire o frenare il processo di integrazione. Non solo, ma la definizione che noi diamo di essere umano, educa anche il futuro mediatore culturale. Se un uomo da credito a opinioni infondate circa la sua natura e quella dell’altro, sarà inevitabilmente spinto a mettere in atto, comportamenti immorali e patologici. Fa parte della natura umana apprendere non solo dettaglia anche filosofie inconsce, diventare ciò che si finge di essere, assumere la forma e le caratteristiche che la nostra cultura ci impone. I miti, le filosofie, le costruzioni sociali in cui la nostra vita è immersa, acquistano credibilità mano mano che diventano parte di noi. E’ verso questi miti, verso queste attribuzioni di significato, che siamo responsabili poiché questi forgiano il nostro futuro.


  


 


 







[1] Caritas migrantes Immigrazione dossier statistico 2004



[2] Giovanna Beccatelli Guerrieri “Mediare culture” Carocci editore 2003 p.p.48



[3] J.Von Neumann e O.Morgenstern , Theory of games and economic behavior, Princeton University Press, Princeton, 1944



[4] La costruzione sociale delle realtà è  prodotta dall’agire umano attraverso la produzione di senso e la definizione di valori. La mediazione definisce lo spazio e le forme di comunicazione attraverso cui interagiscono i soggetti producendo gli oggetti  materiali e simbolici che costituiscono la realtà, ed è quindi nel suo ambito che la realtà diviene e si trasforma continuamente



[5] Grtegory Bateson Dove gli angeli esitano 1987 p.p. 102-103


 


 

alessandra micheli
email:alessandramicheli@virgilio.it

Condividi questo articolo

in a scuola: Nell'abisso di un mondo che non sa ancora leggere - di NADINE GORDIMERFormazione e immigrazione - di Massimiliano FiorucciIL MEDIATORE CULTURALE: COME COSTRUIRE UN PONTE TRA DUE CULTURELA scuola interculturale - Seminario a Modena  


Copyright © 2002-2011 DIDAweb - Tutti i diritti riservati