ALBANIA - In motocicletta in cerca di aquile
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ALBANIA
In motocicletta in cerca di aquile
Sulle orme di Easy Rider e della Poderosa del Che, un viaggio nella storia balcanica e nell'adolescenza d'Europa, attraverso il paese più polveroso e scassato dei nostri dintorni
TOMMASO DI FRANCESCO



Perché si rimane attaccati ai Balcani? Perché è una parte di mondo che più corrisponde a noi, alla nostra vita instabile e dolorosamente scissa. Se in Asia ci sentiamo bambini persi, per le contrade balcaniche a venire a galla è l'irrisolta questione della residua adolescenza che non si decide ancora alla maturità e scherza con il sangue e con il fuoco. Dopo tanti e lunghi attraversamenti nelle guerre balcaniche, alla fine questa è la conclusione. I Balcani siamo noi. Naturalmente per questa ricerca di se stessi basta decidere il viaggio, il giorno, la compagnia. E partire. E' quello che ha fatto Maurizio Crema che, mettendo insieme Easy rider e la Poderosa del Che, ha voluto attraversare in motocicletta il più polveroso e scassato dei paesi del sud est europeo, l'Albania. Raccontando tutto questo in un agile libretto quasi da tour operator, «Viaggio ai confini dell'Occidente. In moto sulle strade dell'Albania» (Edicicloeditore, pp.120, 12 euro). Perché proprio l'Albania? Lo spiega subito il moto-autore: «...perché in Albania l'immediato è ancora arretrato, il sogno non è ancora virtuale». Insomma, se il tempo del mondo è diseguale perché non cercare di ritrovare se stessi nei destini di un paese « in ritardo» altrettanto indeciso ed eterodiretto? Conosco due persone che hanno tentato lo stesso itinerario. Chi scrive, arrivato per caso nel 1978 in Albania, cercò di fare il giro di Tirana con una bicicletta cinese Shanghai che aveva una dinamo che illuminava un paese, ma venne fermato poco dopo dalla polizia nel tentativo di passare davanti alla sede del governo e al blok, il quartiere del regime. E Tito Sansa, allora inviato de La Stampa, che nel 1990, davanti alle prime timide aperture, decise di fare il giro dell'Albania in macchina, per ritrovarsela smontata e rubacchiata a metà tour. Tutte false partenze.



False partenze

E allora, pronti via, Albania aspettaci. L'autore si sente tanto «Ernesto nei Diari», ma la moto, una Yamaha 550XT del 1983, non va e il ginocchio è scardinato per spingere la pedivella. Bisognava partire in tanti in bella compagnia: niente, alla fine si sono defilati. Poi doveva venire una donna e alla fine è venuta, ma... «L'assetto: moto mezza arrugginita e rombante, due specchietti sempre ballonzolanti, serbatoio pieno di benzina verde, zaini in spalla....». Sbagliato l'attracco, i traghetti per l'Albania partono dal porto vecchio di Venezia, la moto fatica a raggiungere la vera partenza. Coda di albanesi a prendere i biglietti: «Andate a Durazzo? In moto? Con quella?». I sorrisi profetici dicono che non abbiamo di fronte né Caronte né Ronzinante, ma uno che si è da tempo perso. E che viene anche subito abbandonato. Sì, perché all'arrivo la Yamaha decide, con un annuncio che veniva da lontano, di non scoppiettare più, di non muoversi e di rimanere lì e morirci, a Durazzo. Poi, la donna che aveva deciso di partire con lui, torna all'improvviso in Italia dal suo amore. E' stata una falsa partenza. L'unica certezza è d'aver messo piede in Albania e di essere quasi costretti a raggiungere Valona. In autobus, in taxi, come capita.

«Anch'io presi d'assalto la stazione di polizia e iniziai a sparare col kalashnikov: lo facevano tutti, dovevo difendere la mia famiglia, la mia casa. E poi ero più giovane, avevo quindici anni, ora ne ho ventuno e lavoro in Italia, non lo farei mai», racconta a Valona Bashkim, che pure ammette di tenere nascosto il suo fucile a casa. Valona la città dell'odissea dei disperati in fuga dalla guerra civile, la città insorse contro la frode di governo rappresentata dalle Piramidi finanziarie. Era al potere Sali Berisha. Fu cacciato dalla rivolta popolare, in questi giorni è tornato in sella a Tirana, ha vinto le elezioni. Allora la gente in fuga sui gommoni vendeva la propria vita ai mafiosi approfittatori per arrivare su sponde sicure. Altro che viaggio in moto. E invece trovava la marina da guerra italiana che speronava le carrette piene di profughi per salvare l'Italia dall'«invasione». Una di queste, la Kater I Rades, colò a picco. Abbiamo ammazzato 108 persone, donne e bambini. Una fossa comune in mare della quale nessuno parla più e per la quale nessuno ha mai pagato. Ora i signori dei gommoni si sono riciclati in albergatori e manager turistici. Ma si sono riciclati davvero?

E proprio a Valona avviene il miracolo. «Hai rotto la moto? Ti presto per una settimana la mia». Semplice e abbondante, una Honda 600XL rossa, viene imprestata al nostro Marco Polo da tal Cristiano, capo missione Onu a Valona. Ecco l'ultima vera ricchezza dell'Albania (e del Kosovo): qui negli ultimi 7 anni sono stati inviati dalla comunità internazionale più aiuti che in tutta l'Africa. Dove sono andati a finire? A chi?

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Tra moschee, bunker. E buche

Si parte verso Berat. Senza casco: il miracolo del prestito non lo contemplava. Gran viale, primo incrocio, precedenze inesistenti, periferie, strade da rally con buche da bombardamento. Che importa, Itaca è il viaggio fatto per scoprire Itaca. Null'altro. Allora con l'Honda si lascia la meravigliosa laguna di Narat e il suo monastero ortodosso e poi ci inerpica su per colline e montagne, con i bunker di cemento che Enver Hoxha pensava a difesa di un attacco militare da est e da ovest. Il motonauta passa Apollonia, greca e romana - qui Ottaviano seppe della morte di Cesare e iniziò la conquista del mondo allora conosciuto; passa Fier con le Mercedes scure dei contrabbandieri, e s'inerpica verso l'alta Berat, costruita a piedi del monte Tomori, col ponte antico di Kurd Pascià a sette arcate e la celletta chiusa da inferriate che, secondo la leggenda - tipica in tutti i Balcani - del «sacrificio edilizio», serviva per rinchiudere una fanciulla fatta morire di fame per placare gli spiriti maligni durante la costruzione.


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Onufri, per favore, vogliamo vedere Onufri. Ma la piccola Chiesa bizantina è eternamente chiusa. Dentro alcuni tesori dipinti con il famoso «rosso di Onufri», il pittore di icone del XVI secolo che gli albanesi dicono albanese, i serbi dicono serbo, è russo per i russi e greco per i greci. Come la danza che nei matrimoni balcanici vi invitano a ballare: uno guida con un fazzoletto, alterna saltelli e tutti in litania insieme. Se la litigano: è turca, serba, greca, albanese, bosniaca. Come il caffè. Eguale dovunque ma pure assolutamente diverso e separato, da giurarci e da farci una guerra, naturalmente.




Lasciamola alla fine Berat, e le strade dove il nostro Caronte motorizzato viene raggiunto da una canzone di Rita Pavone. Ecco il passato che ritorna.

Prima, seconda, terza, prima, seconda. Frizione, freno motore in discesa, freno posteriore, pochissimo quello anteriore per non scivolare, l'Hondina va che è una bellezza. Abbigliamento da spiaggia: jeans, camicetta, scarpe da ginnastica. Verso Argirocastro. Se Berat era alta, questa è turrita e bianca di pietra, con i muri a secco di selce levigata. Patrimonio dell'Unesco dovrebbe essere da tempo, ma il riconoscimento non arriva mai. Dentro il castello si può ancora vedere un aereo a reazione americano abbattuto nei paraggi nei primi anni Cinquanta, quando dalla vicina Grecia la Nato cercava di spiare il «bastione stalinista» Albania, che aveva rotto con il filooccidentale Tito e si avviava a rompere con l'Urss negli anni `60, e avrebbe poi rotto anche con la Cina nel `78. La Grecia resta a un tiro di schioppo, l'area è borderline: qui passava e passa tutto il contrabbando della regione, qui si aggirano Mercedes color sabbia, e sulle montagne la polizia - anche italiana - cerca piantagioni di cannabis.



Da Enea, senza casco

«Senza casco lancio la moto al massimo di resistenza della mandibola, saranno centotrenta... ma non rischio più di tanto, la strada è tutta dritta e quasi vuota». Siamo a sud, l'estremo sud quasi greco e ortodosso. Dritti si andrebbe in Grecia, a Ioannina, ultimo avamposto del nazionalismo della Grande Albania. Ecco Saranda.

«Il gioco è sempre il solito, scala prima, seconda, terza, pochissima quarta, la quinta te la scordi anche perché appena inizi a scendere devi controllare chi arriva per non smaltarti contro un cofano o giù da un burrone che ogni tanto si apre alla tua destra con squarci di assoluta bellezza e crudezza...». Sorprende su questa strada di camminare con a fianco il fiume Bistrica, color blu acceso, tra il giallo dei sassi della scalcinata e minima massicciata. E infatti qui c'è Syri Kalter (Occhio Azzurro), nella boscaglia una delle sorgenti del fiume. Le spiagge sono ancora incontaminate, circondate dai bunker. Qui nel 1997, quando l'Albania era un'emergenza da prima pagina, Saranda fu la culla della rivolta popolare contro le Piramidi finanziarie. Una culla bastarda, visto che il giornalista che con fatica ci arrivava per raccontare i moti «insurrezionali», scopriva alla fine che il capo militare della rivolta era, tranquillamente, un rappresentante nel sud proprio delle infami Piramidi. Bingo a Saranda. Qui in un deposito militare giaceva, alla rinfusa insieme a kalashnikov e pistole militari cinesi sequestrate dai rivoltosi ai soldati albanesi, un pezzo da museo: una vecchia Ural militare anni Cinquanta con sidecar, rombante e funzionante per le staffette della caserma.


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Ma Saranda è soprattutto uno scrigno archeologico e paesaggistico. Con il lago e l'antica città greca di Butrinto, da dove secondo la leggenda e la poesia di Virgilio Enea, qui approdato in fuga da Troia, sarebbe salpato per arrivare sulle coste del Lazio. Una torre veneziana domina gli antichi manufatti e all'improvviso vi appare la porta di Micene. Ma non era a Micene? Tra le costruzioni e le rovine, su un architrave la meraviglia di un leone alato in bassorilievo. E' Micene, a portata di moto.





Rozafat e l'ultimo dei Marubi

«E' sempre la solita canzone, prima seconda, terza, scala, freno motore, dischi, geme il pistone, la catena sferraglia a seguire salti e strappi...». Ora stiamo riattraversando l'Albania, verso il ginepraio di Valona. Su, su verso nord, verso Lezhe, sede della tomba dell'eroe albanese Scanderbeg (la sua biografia dice, incredibilmente, che era di madre serba). Su, su, fino a Scutari che vi accoglie con il castello di Rozafat, con la sua mitologia del «sacrificio edilizio»: una donna vi era stata seppellita a metà per invogliarsi la sorte durante la costruzione, l'altra metà continuò ad allattare - acqua biancastra vi scorre ancora attraversando canali di pietra pomice. Scutari con in piazza ancora il monumento ai comandanti partigiani che combatterono il nazifascismo, ma la più reazionaria di tutta l'Albania. Alex Langer, osservatore a Tirana durante le prime elezioni del 1992, vi si precipitava ogni volta che c'erano gravi violenze. E' stata poi nel 1998 e 1999 uno dei retroterra logistici della guerriglia dell'Uck e della guerra della Nato contro la Jugoslavia. Anche Scutari ha due magnifici gioielli, il primo è il lago, non profondo, pescoso, con le case dei pescatori quasi dentro l'acqua, e che raggiunge la frontiera con il Montenegro a Honi Hoti. L'altro è nascosto in una palazzina anonima, d'impronta balcanica, vicino all'ex bazar - era il più grande dei Balcani ma venne raso al suolo dai bombardamenti tedeschi. E' il museo fotografico dei Marubi, una raccolta di centomila fotografie scattate da Pietro Marubi e dai suoi discendenti. Pietro Marubi, piacentino e garibaldino qui rifugiatosi nel lontano 1850, prese il nome di Pjeter, si fece balcanico e qui morì. Il museo è appena vedibile, vi mostrano due stanze, di foto bellissime, militari italiani ma anche tanti banditi e zingari. L'intera collezione non la può vedere nessuno. Gli attuali custodi lamentano che questo giacimento multietnico che non ha eguali rischia di scomparire senza mezzi e cure adeguate.


Ritratto di due albanesi



«Prima, seconda, terza, quarta, scordatevi la quinta...». Era vera l'Albania che abbiamo visto? Era più vera di Fatos Nano e Sali Berisha. Ma è vera l'Albania dei «bar berlusconi», o quella che abbiamo fatto approdare subito al Grande Fratello del XX secolo con l'invio di cento militari nella guerra americana in Iraq? E' realissima. Come il traffico di Tirana (fondata come «piccola Tehran»), clonato a quello delle ore di punta delle metropoli occidentali. Allora conviene finire questo viaggio alla ricerca degli anni Cinquanta perduti nei Kino Studios, la Cinecittà di Tirana, la nuova Albafilm, che propongono la finzione come unica risorsa del paese. Mentre il mago dei rumori fa apparire un mare, poi un tuono, un galoppo, la pioggia. Che sinfonia, che viaggio. Nessuno ci tolga mai l'Albania e gli albanesi. E' Maurizio Crema stesso a ricordarci i versi di Costantino Kavafis: «E adesso senza barbari/ cosa sarà di noi./ Era una soluzione quella gente».



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