Gli albanesi in Italia: un affresco tra dolore e voglia di rivincita
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Gli albanesi in Italia: un affresco tra dolore e voglia di rivincita


di Irida Cami



Non è facile fare il ritratto di qualcuno che si ama. Mi diceva sempre così mio padre pittore ogni volta che mi metteva in posa. Mi spiegava che il mio viso per lui non era semplicemente un viso, ma un puzzle di ricordi e di nostalgie. Ogni linea era un abbraccio, ogni ombra era il soffio del tempo passato insieme. E io bambina lo ascoltavo meravigliata, senza afferrare fino in fondo le sue parole.


Nel tentativo di comporre in parole un ritratto della comunità albanese in Italia, mi tornano in mente le parole di mio padre. I pensieri mi volano sparsi in questi 14 anni, da quando abbiamo conosciuto l’Italia. L’Italia vera, non quella catodica, ma quella fatta di carne, di sole, di spalle voltate e sorrisi accoglienti.


Un comico albanese soleva dire negli anni ’80 che se mai i confini dell’Albania fossero stati aperti, lui non avrebbe fatto altro che salire su un albero per non essere calpestato dalla folla. Successe proprio questo. In decine di migliaia raggiunsero l’Italia con navi cariche di smarrimento e meraviglia, di eccitazione e trepidazione. Ogni puntino di quella folla scura, ogni pixel delle foto che la ritraevano, aveva un sogno: quello italiano. Se scattassimo oggi la foto della comunità albanese in Italia vedremmo un mosaico composto da quei puntini, ora colorati e in movimento.


Visto da lontano è un ritratto gigante. I capelli leggeri nel vento, scuri come gli abiti delle nonne che ogni volta, inghiottendo le lacrime, ci accompagnano nei porti e negli aeroporti dopo le vacanze estive. La fronte alta, piena di rughe e sudore, cotta dal sole delle campagne italiane dove si lavora. Gli occhi profondi. Pozzi di dolore senza fondo delle ragazze sfruttate nei marciapiedi, di quelle rapite e annientate per un pugno di soldi. Gli occhi dei bambini, figli di quei ragazzi che arrivarono nel 1991 e che portano nomi particolari, studiati per essere letti nello stesso modo sia in italiano che in albanese, così i nonni in Albania li chiameranno senza storpiare i loro nomi.


Lo sguardo della mia gente, con un pizzico di sfida agli angoli e una immensa voglia di rivincita. Gli zigomi alti delle donne che ogni giorno si occupano degli anziani italiani, che li curano e li coccolano facendogli tornare la voglia di vivere. La curva aquilina del naso sfiorata dalla luce dei set cinematografici. La bocca che lambisce le note di Verdi e Puccini negli scintillanti teatri dell’opera. La voce rauca di un profugo che racconta la sua traversata notturna in gommone. Il collo lungo delle studentesse chine sui libri e sugli appunti presi in fretta nei lunghi pomeriggi universitari.


Le spalle larghe degli uomini e dei ragazzi che faticano come mai avrebbero pensato, quelli che vedono il sole nascere mentre stanno al lavoro e che non riescono mai a vederlo tramontare chiusi nei bar davanti a una birra. Le braccia lunghe e perfide dei rapinatori, dei malviventi e degli spacciatori. Le mani delicate delle infermiere e dei medici che ad ogni passo negli ospedali italiani pensano a quelli disastrati in Albania. I palmi distrutti dalla calce dei muratori, carpentieri e piastrellisti che ogni mattina aspettano sulla strada con la speranza di essere caricati su un pulmino che li porterà a lavorare.


Le dita dei pittori che accarezzano le tele con la nostalgia di casa, dei violinisti che suonano a Sanremo, degli artigiani scutarini che fanno le più belle maschere del Carnevale di Venezia. I muscoli torniti dei ballerini, velati dalle luci pastello degli studi televisivi e dei set fotografici. Le gambe stanche di quelli che passano le giornate nelle file in questura in attesa di un documento. I piedi forti dei calciatori che ad ogni tiro fanno sussultare mezza Albania.


Comporre un ritratto degli albanesi in Italia è come sorvolare un immenso affresco  senza linee di confine e costellato di chiaroscuri.


Irida Cami


 



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