Marie Rose Moro - I principi della clinica transculturale. Il decentramento
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SEMINARIO INTRODUTTIVO ALLA CLINICA TRANSCULTURALE
Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano
- settembre 2000 -

Il decentramento

Marie Rose Moro
Psicoterapeuta, Responsabile Servizio di psicopatologia del bambino e dell'adolescente dell'Ospedale
Avicenne di Bobigny (Università Parigi 13)





L'ultimo processo di cui parlerò è la capacità di decentrarsi. Il decentramento è fondamentale per poter operare in ambito transculturale, tanto più se si opera in una situazione migratoria. Non si tratta di dare l'illusione al paziente di essere dei guaritori e di farlo sentire come se fosse al suo paese. Il paziente non si trova di fronte a un guaritore, non è nel suo paese, non è in una situazione conosciuta, ma in un ambito spostato rispetto a tutto ciò, che però gli lascia lo spazio necessario per dire quello che deve dire.

La posizione interiore del terapeuta dipenderà da questi due livelli: il livello culturale e quello psicologico. Voglio tornare ancora sul livello psicologico. Voi sapete che in psicanalisi si parla di controtransfert, ossia della reazione profonda, consapevole ma più spesso inconscia, che si ha rispetto alla storia del paziente, e rispetto al modo in cui il paziente stesso ci vede. Effettivamente, quando si è nella posizione di accogliere la persona e di fornirle delle terapie, si hanno delle reazioni rispetto all'altro, delle risposte affettive e culturali; si hanno molte reazioni che appartengono alla sfera psicologica e al piano culturale. Bisogna essere consapevoli, consci delle proprie reazioni, essere in grado di analizzarle, fare in modo che non impediscano al paziente di dire ciò che deve dire ed essere come deve essere. È questa la cosa più difficile: questo livello di presa di coscienza, non scontato, delle proprie reazioni, che non devono essere negate, ma analizzate e successivamente modificate.

Per chiarezza vorrei fare degli esempi su questi tre diversi livelli.

Il primo livello è quello dell’avere delle reazioni. A livello culturale, le reazioni alla diversità culturale possono essere molteplici. Io ritengo di non essere in grado di analizzarle tutte perché davvero, se dovessimo metterci ad analizzare le reazioni di ognuno di noi in situazioni di alterità culturale, ci renderemmo conto che le reazioni sono tantissime. In ogni caso possiamo evidenziarne alcune.

Una reazione tipicamente negativa è il rifiuto. Ci sono vari livelli di rifiuto: c'è il rifiuto che conduce al razzismo e poi ci sono dei rifiuti molto più sottili, che sono magari semplicemente il fatto di non poter pensare una determinata cosa che appartiene all'altro; quindi un rifiuto, ma un rifiuto molto più sfumato.

Vorrei darvi alcuni esempi di situazioni di rifiuto che io o la mia équipe abbiamo vissuto direttamente. Qualche anno fa al Centro di consultazione seguivamo una mamma e la sua bambina. La donna veniva accompagnata dal marito e dal figlio maggiore, che aveva venticinque anni ed era molto attaccato alla madre. Era una famiglia kabil, dell’Algeria. Il primo impatto era stato abbastanza difficile, perché la famiglia ci era stata indirizzata per sospetti di maltrattamento della bambina da parte del fratello maggiore. In realtà, nel corso della consultazione, questo sospetto si è rivelato infondato.  Ci era stato detto che il fratello maggiore trattava male la piccolina e la picchiava violentemente se non eseguiva i suoi ordini. La bambina, nata molto dopo il fratello maggiore e un’altra sorella, creava un sacco di problemi alla madre. La madre era molto depressa, non stava bene, e sosteneva che questa bambina la affaticava molto e la sentiva come un peso. Abbiamo iniziato la consultazione con un quadro di questo tipo.

In situazioni di sospetto di maltrattamento, di maltrattamento non accertato, faccio molta attenzione a quello che dico, non lascio che all'interno della consultazione si instauri un clima sbagliato. Poiché penso che non si possa fare una consultazione psicoterapeutica se non si mettono le cose in chiaro dall’inizio, ho detto a un certo punto che, fra i motivi che avevano portato a questa consultazione, c’era anche un sospetto di maltrattamento del fratello maggiore nei confronti della sorellina. A quel punto il fratello ha detto: «Era ora che qualcuno lo dicesse chiaramente, so che si è parlato di questo». Il marito si è arrabbiato e la discussione non è stata semplice, da questa è emerso che il fratello, per difendere la madre, costringeva la bambina a comportarsi bene, ma non si erano verificati episodi di maltrattamento. Il fatto che lui urlasse e si arrabbiasse con la bambina non significava che la picchiasse.

L’uomo, che era vissuto in Francia e che probabilmente era stato maltrattato dalle istituzioni, quando si adirava diceva delle cose molto maschiliste e inveiva contro le donne: «Sì, perché voi donne non riuscite a sopportare niente». Affermazioni del genere sono molto forti. Il mio gruppo è misto ma, poiché sono io che lo dirigo (anche se non dirigo tutti i gruppi di consultazione e i gruppi sono tra loro molto diversi), questo dà l’impressione di una predominanza femminile, e a questo l’uomo aveva probabilmente reagito. Erano presenti diverse beurettes, maghrebine di seconda generazione, che sopportavano con grande fatica queste sue invettive contro le donne. Mi rendevo conto che dovevo trattenere il gruppo, soprattutto le terapeute maghrebine, e intervenire per ammortizzare i loro interventi che non erano, per così dire, sufficientemente morbidi.


Nella veste di terapeuta principale posso ripetere e parzialmente modificare le rappresentazioni dei co-terapeuti e in questo mio lavoro di mediazione cercavo di ammorbidirle. Il paziente capiva bene il francese, capiva bene la situazione, capiva qual era la distanza tra quello che veniva detto dalle mie co-terapeute e quello che dicevo io. C'era una differenza, una discrepanza, comunque normale, in una tecnica di gruppo.

Dopo la prima consultazione si è parlato del caso e i miei psicologi mi hanno detto: «Sì, ma quest’uomo è insopportabile, continua a provocare». La situazione era palesemente difficile, abbiamo cercato di lavorare e capire perché reagisse così.

La situazione è andata progressivamente migliorando, e siamo arrivati a un punto in cui la situazione sembrava essersi sbloccata, eravamo piuttosto contenti di come procedeva e, in occasione della terza consultazione, il ragazzo, che svolgeva il ruolo autoritario del padre, è arrivato e ha detto: «Adesso mia madre parla, sta bene, la bambina si comporta bene, presto smetteremo con questo lavoro. Ho avuto un'ottima idea: ho deciso di sposarmi, mia madre mi ha proposto una giovane donna del nostro paese, tradizionale, come si deve, la porterò qui e lei aiuterà mia madre. Il problema è risolto». A questo punto sono comparse le stesse reazioni della prima consultazione e non si capiva bene che cosa stesse succedendo. Insisto su questo: credo che non si capissero, non fossero in accordo sugli aspetti tradizionali, ma nessuno deve intervenire su delle scelte sessuali, culturali.

La situazione era decisamente complessa, si aveva la sensazione che l’uomo ritenesse questa scelta una forma di autoterapia, che si fosse sostituito a noi; noi non gli avevamo chiesto di trovare una soluzione al problema di sua madre, quindi ci trovavamo di fronte a una situazione di rifiuto del gruppo, di una soluzione culturale, se vogliamo. Quello che è certo, è che non si può negare il fatto che si abbiano reazioni di questo genere. Quando si hanno delle reazioni, anche il silenzio, il tacere del tutto significa un completo rifiuto. Non si può adottare una soluzione neutra, bisogna adottare una soluzione che sia una posizione che contiene, per così dire, e che impedisce insieme di irrigidirsi. È a questo che bisogna arrivare.

Nel corso della consultazione, una delle ragazze beurettes ha cominciato a tossire e non riusciva neanche più a seguire quello che l'uomo stava dicendo, ho dovuto invitarla a uscire per bere un bicchiere d'acqua. Il gruppo era stato colpito su due livelli diversi: da un lato non riuscivamo a pensare e dall'altra non riuscivamo a capire che cosa stesse succedendo. Quando abbiamo preso atto delle nostre reazioni, anche a livello collettivo, siamo riusciti ad adottare una posizione diciamo «intermedia»: da una parte abbiamo lasciato spiegare al ragazzo le sue ragioni, dall’altra abbiamo cercato di capire perché fosse così importante per lui fare piacere a sua madre.

Lui ci ha raccontato una storia, una sorta di segreto famigliare: il padre era venuto in Francia molto prima della moglie, e aveva convissuto con una donna francese, con la quale aveva avuto un figlio, all’insaputa della famiglia. Quando la famiglia della moglie era venuta a saperlo, aveva fatto in modo che la moglie raggiungesse il marito, che aveva allora abbandonato la donna francese e il suo bambino. L'arrivo di questa donna algerina in Francia aveva avuto luogo in circostanze molto difficili, circondate da un segreto doloroso. La situazione non era stata gestita bene e la donna era stata malissimo e aveva sofferto molto. Il figlio maggiore, che al tempo aveva tre anni, aveva vissuto questo periodo doloroso con la madre e aveva sentito, io credo, la necessità di assumere il ruolo del padre.  Da questo era nato un attaccamento molto forte, che spiegava perché il figlio fosse disposto a fare qualsiasi cosa per aiutare la madre.

Ritengo che sia stato molto importante per lui poter spiegare questo, poter parlare con il padre, e in un certo qual modo ricondurre il padre alla sua posizione paterna. Questo ha permesso, anche molto tempo dopo, che il padre separasse in modo non traumatico il figlio dalla madre. Quindi è stato un processo molto interessante e in questo modo abbiamo potuto continuare il nostro lavoro.

Bisogna riconoscere, però, che c’è stata questa reazione iniziale di rifiuto, che queste reazioni si manifestano e sono difficili da analizzare e da accettare, in questo è di aiuto il gruppo.

Si possono verificare reazioni di rifiuto anche molto più violente. Un caso di cui vi posso parlare, molto attinente al campo materno-infantile, riguarda il numero di figli. Su questo sento continuamente i commenti dei medici che mi inviano le pazienti. Se una donna, che ha già sette figli, si sente sterile perché vuole averne ancora, questo irrita i medici. Il commento che fanno è questo: «Ne ha sette, che cos'altro vuole?» Ecco, questa è una reazione tipica. Tutti noi, se vogliamo, possiamo riunirci nelle nostre associazioni e lottare perché le donne abbiano meno figli, ma questo non deve influenzare le nostre pratiche terapeutiche, si deve mantenere questa distinzione, anche se è estremamente difficile.

In Francia, sono stati denunciati casi di donne con prole numerosa, a cui sono state legate le tube, senza la loro approvazione. In un caso, mi è capitato di richiedere la cartella clinica di una donna che era stata sterilizzata a sua insaputa e che continuava a rivolgersi ai guaritori per avere altri figli. Si tratta di pratiche di una violenza intollerabile. Immagino che tutti diranno: «No, qui non succede, non lo farei mai», ma è fondamentale analizzare le nostre posizioni. È vero che a volte in nome dei buoni sentimenti si hanno delle reazioni strane; non parlo solo degli aspetti etici, ma anche di quelli culturali.

In sostanza, quello che voglio dire è che il rifiuto si esprime con atti violenti, ma anche con atteggiamenti più velati.

Gli americani hanno studiato queste problematiche: c’è una tendenza a diagnosticare con eccessiva leggerezza la psicosi presso le donne e gli uomini migranti. Si verificano, per esempio, casi di depressione caratterizzati da atteggiamenti di estraneità che tendono a nascondere quello che c'è dietro e si interpretano come psicosi, oppure si interpretano rappresentazioni culturali come forme di delirio. Questo è successo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia. Non ho studi italiani, quindi
non so come sia la situazione qui, però penso che la situazione non sia diversa. Ci sono molti studi di questo genere e uno degli elementi che rende difficile la diagnosi è proprio la nostra reazione, il fatto che noi non siamo in grado di superare la sensazione di alterità, di consentire un racconto, di andare al di là della sensazione di estraneità, per cui la bizzarria diventa subito psicosi. Esistono logiche culturali diverse, è difficile riconoscere il rifiuto all'interno di sé; ma il concetto di base credo che non sia difficile da capire.

All'estremo opposto, sta il fascino verso ciò che è esotico, verso la differenza, una sorta di benevolenza assoluta che fa in modo che non si vedano più le cose con la dovuta distanza, che tutto ci appaia bellissimo, meraviglioso. Si è affascinati dalla differenza, è come se si partisse per un viaggio, in questa differenza non si riescono più a vedere gli aspetti soggettivi, il caso particolare, la sofferenza o il disagio individuale. Anche il fatto di rimanere affascinati, di subire il fascino degli elementi culturali è una reazione naturale. Vorrei dire che il fascino è qualcosa di più facile da gestire che il rifiuto, perché il fascino rientra in una dimensione positiva, è più facile da riconoscere, da trasformare, permette di creare un legame. Non bisogna, però, esagerare; un pericolo quando si è affascinati e si lavora con qualcuno che non lo è, è quello di non essere presi sul serio. Per cui a mio parere non si tratta comunque di una buona reazione ed è necessario lavorarci.

Un metodo per uscire da una eccessiva fascinazione è quello di rimanere molto tecnici, quindi è importante la formazione, la capacità di stilare una diagnosi, di cercare di definire quello che è culturale e quello che è psicologico. Il fascino impedisce spesso di distinguere questi due elementi.

Quando io osservo le mie reazioni nei confronti delle diverse culture, con cui mi capita di lavorare, spesso devo dire che si tratta più di rifiuto che di fascino, ciò non toglie che si debba prendere in considerazione anche questo aspetto.

Ovviamente, tra questi due poli esiste una vasta gamma di reazioni. Ci sono due aspetti in particolare sui quali bisogna insistere. Il primo è la nostra difficoltà a decentrarci e su questo vorrei darvi alcuni esempi. Anch'io ho delle difficoltà, parlo delle mie perché sono quelle che conosco meglio. Mi ricordo il caso di una madre, proveniente dall'Africa Occidentale con una bambina di tre, quattro mesi, credo che fosse la quinta figlia, l’unica che viveva con la madre a Parigi, tre bambine erano morte di malattia al paese e una era rimasta in Africa. La bambina aveva problemi di crescita, era molto triste e spenta e faticava a bere il latte. Le assistenti del consultorio pediatrico ritenevano che questa bambina avesse delle difficoltà con la madre, e con l’accordo della donna l’hanno accompagnata alla consultazione.

Durante il primo incontro abbiamo usato un interprete, io ho chiesto alla madre da dove venisse, ma la donna non aveva molta voglia di parlare, di presentarsi, non ascoltava le presentazioni degli altri terapeuti; si sentiva che non era interessata a quello che stava succedendo, allora le ho detto: «Signora, mi sembra che non sia interessata. Non ha voglia di parlare?» Lei mi ha risposto: «No, non ho voglia; in realtà vorrei che voi prendeste questa bambina in carico e che la cresceste». Noi siamo rimasti molto stupiti dal fatto che una madre facesse una richiesta del genere, tanto più che non c'era nessuna ragione particolare per farlo. Non capivo che cosa inducesse questa madre a non voler tenere con sé l’unica figlia che le era rimasta.

Abbiamo cominciato a discutere, e ci siamo resi conto che in realtà niente la interessava sul serio; per cui ho pensato che bisognava adottare un approccio più culturale. Le ho chiesto il nome della bambina, la bambina ne aveva sette, di cui uno segreto. Ha cominciato a ripetere i nomi, tutti, ovviamente tranne quello segreto, e ha cominciato a parlare del significato di ogni nome e a mostrare un certo interesse. Poi improvvisamente mi sono resa conto che non le avevo chiesto il significato del primo nome, Gemà, e glie l'ho chiesto, la donna mi ha detto di non saperlo, non era come gli altri il nome di un antenato, non era il nome di nessuno. Allora le ho detto: «È un nome che lei le ha dato perché è un'abitudine quella di dare un altro nome in più, uno supplementare, un soprannome». La donna ha risposto: «No, assolutamente no, non è un soprannome».

Si sentiva che questa domanda la disturbava, che la metteva in imbarazzo il fatto che io insistessi su questo punto, quando generalmente parlare dei nomi non porta questo tipo di reazione. Non riuscivo a capire che cosa stesse accadendo e ho lasciato perdere. A questo punto il mio traduttore ha detto: «Io so che cosa significa, ma non voglio dirlo». Anche il traduttore, che comunque era un eccellente interprete, mi ha detto che non aveva intenzione di dirmi il significato del nome di questa bambina. A questo punto mi sono sentita circondata da tutte le parti, mi sono resa conto che c'era un problema, perché il traduttore non intendeva dirmi che cosa volesse dire la madre. Allora mi sono arrabbiata con l'interprete e lui mi ha risposto: «Va bene, d'accordo, non te lo voglio dire, quindi smettiamola di litigare davanti alla paziente». Abbiamo terminato la consultazione discutendo cose che naturalmente avevano meno interesse del nome della bambina e alla fine dell'incontro le ho detto: «Signora, torni a vedermi». E lei mi ha risposto: «Sì, sì, torno sicuramente». «Per favore, quando tornerà mi piacerebbe che lei mi dicesse qual è il nome della bambina». Lei ha replicato: «Sì, sì, va bene, quando tornerò,
sognerò e poi le farò sapere». Il traduttore mi ha detto successivamente che non mi poteva dire che cosa significava quel nome perché non aveva l'autorizzazione della signora; lei non l'aveva detto apertamente, ma il traduttore aveva percepito che non aveva diritto di dirmi questa cosa. Siccome non aveva diritto di dirmelo durante la consultazione, io non ho voluto saperlo neppure dopo, perché non mi serve nulla sapere delle cose dopo, al di fuori della consultazione, se non le posso utilizzare. Per cui ho detto: «No, va bene, d'accordo, vediamo».

La donna è ritornata un mese dopo, più o meno, mi ha raccontato un sogno, abbiamo fatto delle interpretazioni di questo sogno e dopo mi ha detto: «In realtà, adesso vi posso dire che cosa significa il nome di mia figlia: vuol dire ‘pattumiera’». A questo punto io le ho detto: «Questo è un nome che lei le ha dato per proteggerla». Lei mi dice: «Sì, certo. È un nome che io le ho dato per proteggerla». E lì abbiamo cominciato veramente con la consultazione. È evidente che lei non aveva voluto dirmelo per paura che io non capissi che questo nome era stato scelto perché i djinn non si interessassero alla bambina e non la facessero morire. Il mio traduttore sapeva che avrei capito ma, pur sapendolo, non ha potuto dirlo nel corso della prima consultazione, perché il rapporto terapeutico non era ancora sufficientemente stabilito. La signora non aveva fiducia in me e il mio traduttore non voleva tradire la fiducia della signora; quindi c'era una ragione per questo tipo di reazione.

Tutto questo per dirvi che la conoscenza culturale è utile per decentrarsi, ci aiuta a conoscere bene quale possa essere il modo per proteggere i bambini, questo vale in moltissimi paesi, in Maghreb, in Africa ecc. Quello che si tende a fare in questi paesi è dare dei nomi non umani ai bambini, perché gli spiriti non vengano ad attaccarli e non li facciano morire. Quindi, di fronte a una cosa di questo tipo, bisogna prendere le distanze, non bisogna avere una reazione che raffronti quello che fa un altro con quello che faremmo noi. Dare un nome del genere non significa volere la morte di un bambino; qualcuno si potrebbe chiedere come si sentirà da grande, con un nome così brutto. Questa è una domanda che riguarda noi, ma non è una reazione che ci permette di capire quello che succede tra la madre e il bambino.

L'esempio che ho citato è un esempio di tipo intellettuale, in quanto mostra come si realizza la comprensione. Ma la questione del decentramento si pone anche per questioni molto concrete, corporee. Citerò un altro esempio che riguarda l'allattamento. Nel reparto maternità in cui lavoro, di fianco al Centro di consultazione c'è l'aeroporto di Roissy, e in questo aeroporto arrivano regolarmente ragazze incinte che provengono dai paesi in guerra e sono caricate sugli aerei. In questo caso, era ricoverata una giovane del Congo, arrivata in Francia con un biglietto di andata semplice e documenti falsi. Quando la polizia l'ha trovata, è stata costretta a portarla al reparto maternità. La donna congolese era in prossimità del parto, parlava un po' il francese, proveniva da Brazzaville, mi ha spiegato che era stata messa sull'aereo da persone che volevano proteggerla. Il bambino che teneva in grembo era il risultato di una violenza sessuale che la donna aveva subito, ma lei voleva comunque tenere il bambino. L'assistente sociale che l'ha accolta nel reparto maternità, quando la donna aveva affermato che il bambino era figlio di uno stupro, le ha detto: «Sa, se vuole può fare un parto anonimo senza riconoscere il bambino, che sarà dato in adozione». La donna non capiva, diceva: «Ma io non voglio avere un parto anonimo», e infatti non l'ha fatto; ha dato il nome al bambino e ha spiegato che voleva allattarlo perché, dandogli il suo latte, avrebbe potuto umanizzarlo, trasformarlo in suo figlio.

Solo bevendo sufficiente latte dalla madre, il bambino sarebbe appartenuto a lei, questo latte poteva in un certo senso trasformare la natura del bambino. La donna raccontava tutto questo con molta emozione. Non bisogna dimenticare che il bambino era nato da uno stupro di guerra, quindi un fatto orrendo, uno stupro collettivo, un trauma tremendo per questa donna. Quello che le era stato detto (può avere un parto anonimo) era una semplice informazione, ma, nel contesto specifico, era stata una violenza per lei; si tratta di sapere come agire: bisogna dare informazioni al paziente, ma bisogna anche sapere che le informazioni non sono neutre. Lo stesso può avvenire quando si parla di un aborto terapeutico. Le informazioni, quindi, devono essere date in un modo culturalmente accettabile e per fare questo bisogna stabilire un rapporto con la donna. Se si ha un rapporto con la donna, poi si può affrontare con lei la questione del futuro del bambino.

Ci sono donne che avrebbero potuto dare in adozione il bambino, questo sarebbe potuto accadere, ma c’era una componente culturale e una componente psicologica che non sono state prese nella dovuta considerazione. Bisogna creare un quadro per poter effettuare lo scambio, prima di poter dare informazioni anche banali. Questa non era una situazione semplice, in realtà, l'assistente sociale era una brava ragazza, che mi ha detto: «Mi sono resa conto di avere sbagliato perché, quando ho dato questa informazione alla donna, lei si è accovacciata per terra, era spaventatissima, ho avuto come la sensazione che rivivesse l'esperienza dello stupro; una reazione molto violenta e al momento non riuscivo a capire perché».

Se avessimo aspettato di aver ricostruito la sua storia e capito la situazione della donna, avremmo potuto dare l'informazione in modo migliore, anche le informazioni che lei non richiedeva, come quella
dell'adozione, dell'abbandono del bambino. Si tratta di situazioni estremamente concrete quelle di cui parliamo, non semplici, situazione che riguardano tutti i professionisti.


Potremmo citare anche altri esempi che riguardano, per esempio, la posizione del parto, questioni che riguardano gli elementi pratici del parto vero e proprio. Facciamo fatica a immaginarci quali siano le ripercussioni, per esempio della posizione nella quale partorire o della presenza dei mariti in sala parto.

Un altro esempio che volevo citare a proposito del decentramento riguarda la nominazione. In Francia bisogna dare un nome al bambino entro tre giorni dalla nascita; affinché assuma uno status civile, bisogna dichiarare all'anagrafe entro tre giorni come si chiama il bambino. Se non lo si fa entro questi termini si finisce in tribunale e diventa un processo molto complicato. Questo lasso di tempo è molto breve per donne che per ragioni culturali danno il nome al bambino tenendo in considerazione diversi elementi, per esempio ciò che le persone del paese dicono, l'interpretazione di sogni, o altri elementi.

Bisogna aspettare che qualcuno, in genere un uomo o un'autorità della famiglia, scelga il nome, ci sono diverse condizioni che devono essere rispettate. Alcune donne mandano la cassetta al paese e, prima che ritorni, passa del tempo, e nel frattempo bisogna dare un nome al bambino. Regolarmente accade che, allo scadere dei tre giorni, questi bambini non hanno ancora il nome e l'équipe vede questo in modo molto negativo. Dal nostro punto di vista lo possiamo capire, perché noi pensiamo al nome del bambino ancora prima che nasca e poi sappiamo perfettamente che bisogna attribuire il nome entro tre giorni. Altri cercheranno di adattarsi alla situazione perché vivono in Francia. Ma nel caso di bambini particolari, bambini molto preziosi, a cui bisogna assolutamente dare un buon nome, il nome giusto perché li si vuole proteggere, capita regolarmente che allo scadere del terzo giorno non si sappia ancora il nome.

Noi spesso diamo delle interpretazioni psicologiche di qualcosa che è prettamente culturale, perché ci vuole tempo per dare un nome al bambino. Questo è un caso in cui bisogna decentrarsi, bisogna capire che cosa significa per la donna non dare il nome al bambino, qual è la logica culturale; poi, passeremo all'analisi della logica psicologica.

Al quadro della logica culturale si può ascrivere, per esempio, l'attesa da parte della donna che il saggio del suo paese riunisca tutte le interpretazioni delle persone vicine alla famiglia e scelga infine un nome adeguato; oppure che ci sia un'interpretazione dei sogni della madre, da cui si possa desumere il nome. Una logica culturale piuttosto semplice, ma bisogna capirla. Una volta che si è compresa questa logica, la negoziazione risulta più semplice; la maggior parte dei bambini immigrati riceverà un nome entro tre giorni, il nome anagrafico che viene dato in ospedale, ma in seguito gli verrà attribuito anche un nome tradizionale; a casa verranno chiamati con il nome tradizionale e a scuola con il nome anagrafico. Quando le maestre scoprono che i bambini hanno due nomi diversi hanno strane reazioni. Cito questo esempio perché è piuttosto semplice; non è così difficile capire la logica dell'attribuzione dei nomi prima di dare un'interpretazione negativa del rapporto famigliabambino, madre-bambino. È importante entrare in questa logica.

C'è un altro esempio, forse un po' buffo: una bambina, la cui famiglia era dell'Africa Centrale, di Gibuti, era con me in psicoterapia individuale perché aveva delle fobie, delle paure. A un certo punto stava meglio, lavoravamo soprattutto sui disegni, sui racconti, le favole, le storie e aveva superato quasi tutte le sue fobie, compresa quella della scuola, che era un grosso problema. La bambina si era sviluppata, era sempre più felice, sempre più carina, si occupava di se stessa, avevo proprio la sensazione che fossimo giunti alla fine della terapia. Un bel giorno la vedo giungere alla nostra seduta del mercoledì piuttosto triste; la vedo nella sala d'attesa che mi aspetta e non appena mi vede, praticamente quasi mi si getta fra le braccia. Le chiedo: «Ma che cosa succede?» e lei mi risponde: «Ho paura, sono molto triste, infelice». Quando le chiedo che cosa le sia accaduto, si mette a piangere e mi racconta che a scuola, il giorno della festa della mamma, i bambini avevano fatto un disegno per la mamma, e lei (che disegnava benissimo, aveva talento, era proprio brava a dipingere e disegnare) aveva fatto due disegni: nel primo, dedicato alla sua prima mamma, aveva scritto: «Per la mia mamma a cui voglio tanto bene», un disegno di una bella signora africana con una bella pettinatura, tanti bei colori; poi aveva fatto un disegno per la sua seconda mamma, scrivendo: «Per la mia mamma a cui voglio tanto bene», un altro bel disegno. Quindi due bei disegni per le sue due mamme. Effettivamente, aveva una madre biologica e aveva una seconda mamma, la seconda moglie del padre, a cui voleva molto bene, perché era molto più giovane della mamma vera e si occupava molto di lei. Spesso le mogli più giovani si occupano molto dei bambini, e i bambini più piccoli sono molto vicini alle seconde mogli. Questo è uno schema classico in Africa; la bambina sapeva benissimo chi fosse sua madre e andava perfettamente d'accordo con lei; però adorava anche la seconda mamma e c'era una grande tenerezza tra loro. La maestra vede questi due bellissimi disegni, si arrabbia, e le dice: «Insomma di mamma ce n'è una sola! Bisogna scegliere», e questa piccola, che oltre tutto soffriva di fobie e che voleva far piacere alla maestra, si è ritrovata in una situazione
insostenibile, era stata obbligata a dire che la sua mamma biologica era la sua vera mamma, mentre la sua seconda mamma, la mamma affettiva, non era una vera e propria mamma. La piccola evidentemente ha capito perfettamente che i francesi hanno una mamma sola ed è una cosa che non dimenticherà. «Ho ben presente che i francesi hanno una sola mamma» mi dice, «ma ti rendi conto che cosa avrebbe pensato la mia seconda mamma se avesse sentito quello che ha detto la maestra?»

Questo non ha avuto effetti gravi sulla mia paziente, che si è resa conto che il tutto derivava da una differenza culturale; ciononostante è stata una situazione sorprendente e oltretutto è stata provocata da una maestra, un'istitutrice che conosco bene perché lavora in una scuola vicina all'ospedale, una ragazza piuttosto aperta e comprensiva, che si occupa molto bene dei bambini, ma che è rimasta scioccata dall’atteggiamento della bambina e non ha potuto fare a meno di reagire riaffermando: «Di mamma ce ne è una sola». Invece no, se ne possono avere diverse, soprattutto in certi luoghi, le mamme sono una categoria: sono altre donne della stessa età della mamma che si trovano in condizioni tali da poter essere mamme. Quindi, il concetto di madre, padre, cugini, sono categorie variabili a seconda dei posti. A volte noi ci perdiamo in questi meandri e tracciamo degli alberi genealogici, qualcosa che si impara a fare nell'antropologia, ma che è molto importante anche nella clinica, perché spesso ci si perde in tutti queste relazioni e legami. Costruiamo degli alberi genealogici attraverso dei racconti, questo non è molto preciso, ma permette di avere comunque un'immagine della famiglia.

Per tornare alla storia delle due madri, la maestra è tornata a consultarmi per un altro bambino e io le ho chiesto: «Perché hai reagito in questo modo quando la piccola ha fatto due disegni per la festa della mamma?» e la maestra si è detta molto dispiaciuta di avere reagito in quel modo. La bambina andava molto meglio da un punto di vista scolastico e la maestra aveva la sensazione che la sua convinzione di avere due madri avrebbe potuto contribuire a una confusione d'identità e di posizionamento della bambina in seno alla famiglia: aveva trasformato in psicologico un elemento che era prettamente culturale. Mi ha detto: «Mi sono resa conto di avere detto una sciocchezza però era troppo tardi; l'ho fatto perché in un certo senso avevo paura che questo potesse generare confusione nella bambina». Questo è un esempio tipico che spiega come sia necessario decentrarsi e applicare il metodo complementarista, perché non c'è motivo di aver paura e di spaventarsi di fronte a situazioni come questa, se si conosce il funzionamento dei sistemi di poligamia.

Questo riguarda anche la situazione dei bambini in Francia che hanno due nomi, uno a scuola e uno a casa; in genere questa situazione non crea problemi ai bambini. Capita, infatti, molto frequentemente in diversi paesi dell'Africa Occidentale o in Maghreb che i bambini abbiano nomi diversi; i genitori trovano che sia normale, i bambini sono abituati; ma in altre situazioni dove entrano in gioco elementi supplementari si possono creare delle disfunzioni. Abbiamo trattato un caso in cui la disfunzione è stata generata proprio da questa situazione, questo può capitare, ma non è perché ci sono due nomi che necessariamente nascono problemi di costruzione dell'identità. La questione dei nomi è, a mio avviso, molto importante, ma non bisogna semplificare eccessivamente la situazione.


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