Due linee per la valutazione, vediamo qual è la migliore.
Giancarlo Righini - 18-04-2005
Riporto il contributo del prof Benedetto Vertecchi, che mi ha fatto capire molto di più il disegno della Riforma Moratti in tema di valutazione scolastica, e soprattutto quali saranno le proposte da fare nei collegi docenti per tracciare una rotta sicura in questo difficile ma necessario aspetto del lavoro docente.

Spero che questo contributo possa essere utile anche a molti altri insegnanti che stanno cercando di capire cosa fare in mezzo a tanta confusione generata dalla Riforma Moratti:

Benedetto Vertecchi
Due linee per la valutazione. E un presupposto per entrambe


Per quanto possa sembrare che quella di valutare il funzionamento del sistema scolastico sia un'esigenza generalmente avvertita, non sempre si colgono le differenze tra i due modi in cui tale attività può essere svolta. Né si colgono le implicazioni sottese all'una o all'altra soluzione. Un primo modo consiste nel rilevare che cosa appare in un momento determinato al fine di esprimere un giudizio (positivo o negativo che sia); l'altro modo considera l'analisi di ciò che appare una condizione per assumere decisioni idonee ad orientare il corso successivo degli eventi in una direzione desiderata. Quando queste due interpretazioni si manifestano a livello locale, qualificano in un senso o nell'altro le pratiche valutative delle scuole e dei singoli insegnanti. Quando si manifestano a livello dell'intero sistema scolastico, danno luogo ad atteggiamenti sanzionatori (se prevale l'esigenza di esprimere un giudizio), o di revisione costruttiva delle scelte, se l'interesse è quello di raggiungere determinati traguardi considerati necessari.
Un'ulteriore distinzione deve essere operata in relazione al tempo nel quale le informazioni necessarie alla valutazione sono state assunte. Se tali informazioni hanno origine in un tempo determinato e circoscritto, la valutazione assume caratteristiche sincroniche; se, invece, si tiene conto di un quadro evolutivo la valutazione ha caratteristiche diacroniche.
Va notato anche che spesso l'enfasi posta sulla valutazione si collega alla percezione di uno stato di crisi. Se vi fosse una generale soddisfazione nei confronti del funzionamento del sistema scolastico (lo stesso può dirsi delle università) l'attività valutativa resterebbe per lo più implicita (com'è quella consistente nell'esprimere soddisfazione), senza richiedere la definizione di particolari metodologie volte ad evidenziare questo o quell'aspetto o a misurare i valori che presenta questa o quella variabile. Il quadro si complica se si percepisce che qualcosa non corrisponde alle attese. Diventa allora una questione di razionalità rendere espliciti gli elementi del giudizio. Ma tutto ciò può risolversi in una sorta di cultura della crisi, sostanzialmente sterile, o in una revisione critica dei modelli e delle scelte che si ritengono non più rispondenti alle condizioni in cui si svolge l'attività educativa.
Le scelte in materia valutativa effettuate dal governo della Destra hanno l'intento di esprimere giudizi, e prevedono che i dati siano raccolti in un breve lasso di tempo (si tratta dunque di valutazioni sincroniche). Ovviamente, ogni scelta valutativa deriva da un modello interpretativo dell'attività educativa della scuola. Tale modello comprende un'ipotesi circa le relazioni che si stabiliscono nel processo tra le variabili che concorrono a determinarlo. Il modello è più o meno complesso in relazione alle variabili che si prendono in considerazione. In ogni caso, perché un modello abbia una sua coerenza, bisogna che comprenda variabili cui si attribuisce la capacità di incidere sull'andamento dei fenomeni (indipendenti) e variabili capaci di riflettere i risultati che si sono ottenuti (dipendenti). Le scelte della Destra sembrano ridurre, di volta in volta, le variabili indipendenti alle sole caratteristiche personali dei soggetti coinvolti nell'aspetto dell'educazione cui il giudizio si riferisce. Così, per esempio, se si valutano i risultati conseguiti dagli allievi, contano le loro caratteristiche personali, intellettuali e affettive; se si considerano i risultati di una classe o di una scuola, il giudizio ricade sul docente o sui docenti cui si devono le pratiche organizzative e didattiche alle quali i risultati stessi possono essere riferiti. Si tratta di un modello molto povero, che esaspera la chiave di lettura sincronica delle informazioni. Se si seguisse una chiave diacronica, si potrebbe giungere a conclusioni anche molto diverse: alla fine di un certo tratto del percorso educativo (sui risultati del quale si è esercitata una varia incidenza sia di fattori sociali e culturali di contesto, sia di fattori riferibili all'attività didattica) corrispondono risultati da considerarsi variabili dipendenti per ciò che riguarda il tempo che precede, ma indipendenti per il tempo che segue.
Nell'attività valutativa che investe i sistemi scolastici, alle diverse interpretazioni corrispondono specifiche metodologie e tecniche di rilevazione. La principale differenza, sul piano metodologico, consiste nel rilevare le informazioni sull'universo (ossia su tutte le scuole, tutti gli allievi, tutti gli insegnanti), oppure su un campione. Si comprende che da un punto di vista tecnico le due soluzioni differiscono sostanzialmente per complicazione organizzativa e per costo, enormemente maggiori se si procede sull'universo, seguendo una logica censimentaria. Va notato, tuttavia, che i dati che si ottengono da rilevazioni censimentaria sono effettivamente utili solo se si intende esprimere giudizi che investano singolarmente questo o quel soggetto (allievo, scuola o insegnante che sia). Informazioni non meno attendibili (ma con costi enormemente inferiori) possono essere raccolte per via campionaria, se ciò che interessa è cogliere le tendenze che si manifestano circa questo o quell'aspetto dell'attività educativa. Se la valutazione ha lo scopo di assumere decisioni necessarie per orientare il funzionamento del sistema scolastico non ha alcuna utilità identificare i soggetti cui i dati si riferiscono, mentre sono assai più importanti la tempestività e le condizioni delle rilevazioni.
Che si tratti di rilevazioni censimentarie o campionarie, vale comunque un presupposto, quello dell'osservanza rigorosa dei requisiti formali capaci di assicurare la validità e l'attendibilità dei dati. Ciò vuol dire che gli strumentari debbono essere messi a punto attraverso procedure complesse, che prevedano:
- il disegno delle prove, con il dettaglio delle prestazioni da sollecitare in funzione dei traguardi che si vogliono accertare;
- l'elaborazione delle prove grezze, sulle quale occorre richiamare l'attenzione critica di specialisti nelle diverse aree culturali al fine di stabilirne la validità;
- la prova sul campo (try out), volta ad accertare le caratteristiche, di formulazione e metriche) di ciascuna prova o parte di essa;
- la rettifica, che consiste nell'espungere gli elementi di prova che non abbiano presentato le caratteristiche desiderate, o nel modificarne la formulazione;
- la prova finale sul campo (dry run), che ha lo scopo di accertare la presenza di tutte le caratteristiche desiderate, oltre che di consentire la messa a punto di modelli statistici per l'interpretazione dei dati.
È evidente che tutte queste operazioni richiedono tempo, e soprattutto richiedono che si disponga di una organizzazione tecnico-scientifica capace di provvedere adeguatamente ad esse. Non è eccessivo affermare che la messa a punto di uno strumentario che risponda alle caratteristiche menzionate richiede circa un anno di lavoro. Non si ha notizia che in Italia siano in corso progetti volti alla produzione di strumentari valutativi che rispondano alle specifiche indicate.
In Italia, dopo il 2001 il governo ha deciso di procedere sull'universo. Finora, si sono ottenuti dati che presentano scarsa o nessuna utilità, per l'inattendibilità degli strumenti e delle procedure seguite. Si è, inoltre fortemente deteriorato il rapporto di fiducia con le scuole, dal momento che esse sono chiamate a collaborare ad operazioni che possono avere conseguenze negative per il loro funzionamento ulteriore. Se consideriamo quanto accade in altri paesi, osserviamo che la via censimentaria è seguita nel Regno Unito, e quella campionaria in Francia. Nel Regno Unito si è assistito negli ultimi anni al moltiplicarsi delle rilevazioni, che si sono affiancate a periodiche visite ispettive delle scuole. Queste ultime finiscono per orientare la loro attività verso gli aspetti che sanno essere oggetto di rilevazioni, tramite prove oggettive o rapporti ispettivi, trascurando aspetti, pure importanti, dell'attività educativa che non si traducono in prestazioni codificabili o in procedure predefinibili. In Francia si preferisce avere un rapporto collaborativo con le scuole. Queste ultime non debbono considerare con ansia la valutazione, ma essere consapevoli dei vantaggi che possono derivare dall'emergere delle loro esigenze, in termini di migliore programmazione degli interventi, di più equa ripartizione delle risorse, di impostazione di programmi di ricerca e di sperimentazione volti alla soluzione di problemi specifici.


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 Corrado Truffi    - 18-04-2005
( mi riferisco anche all'intervento del 8 aprile di Mauceri sullo stesso tema. Sono un genitore e non un docente, quindi il mio punto di vista è da "esterno").

Nella scuola di mio figlio (199 circolo di Roma) un improvvisato comitato di genitori è riuscito a bloccare le prove "obbligatorie", ma la cosa sinceramente non mi ha fatto piacere. Pur avendo letto quanto dice Vertecchi, sono quanto meno perplesso, e vorrei opinioni e chiarimenti in proposito, anche in relazione alle differenze fra questa valutazione INVALSI e l'indagine Pisa.

Da un lato, posso ammettere che la logica di queste prove INVALSI sia troppo schematica (giudizio in sé piuttosto che valutazione per retroagire) e organizzativamente faraonica (perchè tutto l'universo quando a fini di valutazione basta un buon campione? non è che dietro c'è l'ansia di classificare e sanzionare le singole scuole?).

Dall'altro, ho provato un immediato fastidio per la prontezza ideologica con la quale il "comitato" di cui sopra - e i simili comitati in giro per l'Italia - ha rifiutato per principio qualsiasi idea di valutazione - a scatola chiusa, come se valutare sia male sempre, come se la conoscenza non fosse comunque utile.

Per la verità, leggendo i manuali INVASI non mi è sembrato che l'intenzione sia così inquisitoria. Lo scopo di conoscenza statistica della realtà, tramite opportune stratificazioni per scuole e luoghi, mi sembra degno in ogni caso di essere perseguito, anche (e soprattutto) in una logica virtuosa. Il "comitato" della mia scuola sostiene che dietro l'angolo della valutazione vi sarebbe la sanzione economica. A me sembra - sarò ingenuo! - che a fronte di una valutazione minore della media in una scuola dell'obbligo, la risposta sia una maggiore dotazione di risorse, volta a compensare lo svantaggio, secondo il noto principio che fare parti uguali fra disuguali non è equo...

E per finire. Non vorrei che la tendenza a criticare qualunque cosa faccia la Moratti (certamente il peggior ministro dell'Istruzione da moltissimi anni a questa parte) finisca per portare ad un annebbiamento dello spirito critico su ciò che non va nella scuola - ciò che non andava anche prima.

E, fra ciò che non va, personalmente ci metto anche la irresponsabilità di parte degli insegnanti e, in generale, la sistematica paura (o rifiuto) a farsi giudicare/valutare. Paura di farsi valutare che può avere buonissimi motivi, ma finisce con il far perdere credibilità agli stessi insegnanti.

Tra l'altro, mi sembra di vedere nell'atteggiamento di molti - oltre alla paura di vedersi giudicati - una deprimente paura della statistica che, da statistico, mi lascia allibito...


 Giancarlo Righini    - 19-04-2005
Leggendo il commento di Corrado Truffi, che contiene molte verità, sulle quali vale la pena di tornare, mi ha colpito l'affermazione circa la paura della statistica che prende molti insegnanti.
La vera avversione in realtà non è contro la statistica ma contro la falsa statistica, come quella che sta dietro a queste Prove Invalsi, come anche lo stesso Vertecchi denuncia, forse tra le righe, quando dice che per fare un buon lavoro occorre minimo un anno di preparazione, mentre i tecnici dell'Invalsi hanno avuto solo due mesi a disposizione.

Per maggiori approfondimenti ci si può riferire a questo lavoro, pubblicato anche da Fuoriregistro, a cui nessuno finora si è degnato di dare una risposa.


https://www.didaweb.net/fuoriregistro/documenti/luc.pdf
VALIDITA’ E AFFIDABILITA’ DELLE PRATICHE VALUTATIVE:A PROPOSITO DEL PROGETTO PILOTA 2


 Anna Pizzuti    - 20-04-2005
Invio questo articolo tratto da www.lavoce.info come contributo alla discussione sulla statistica. Lo invio, in particolare, per un passaggio. Esattamente questo: per non parlare della recente inclusione dell’Istat nel sistema dello spoils system che lo fa diventare attinente anche al problema dell’Invalsi. Che è pura e semplice emanazione del ministero, quindi, oltre a tutti gli altri difetti ampiamente denunciati su Fuoriregistro e non solo, contiene anche quello di essere piegato, come sempre più appare l’Istat, a logiche che con la statistica intesa come scienza, nulla hanno a che fare. Figurarsi con la valutazione degli apprendimenti, siano essi conoscenze o “competenze

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La statistica e la democrazia

Di Enrico Giovannini

Può un sistema economico funzionare senza sapere se l’inflazione annua è pari al 2 o al 10 per cento? Può una società compiere scelte importanti per il proprio futuro senza sapere se l’economia che la sostiene è in declino strutturale o vive una difficoltà temporanea? Può, infine, un processo democratico essere considerato tale se le decisioni di voto sono prese sulla base di percezioni e non dei risultati effettivi dell’azione di governo?
Un gap conoscitivo
Queste domande sono tutt`altro che retoriche per chi guardi al caso italiano, soprattutto a confronto con quello di altri grandi paesi industrializzati. Spesso, infatti, si ha la sensazione che il dibattito politico italiano sia del tutto sganciato dalla realtà e che la stessa definizione di realtà sia l’ultimo dei problemi. Secondo alcuni, l’informazione pubblica appare asservita alla visione idilliaca presentata dal Governo, mentre secondo altri, quella proposta dall’opposizione tende a ingigantire i problemi per controbilanciare la prima. Il risultato finale è che la statistica, sviluppata per andare oltre la capacità degli individui di osservare e quantificare la realtà circostante, è messa sotto accusa, i suoi risultati sono ritenuti inferiori alle "percezioni", spesso amplificate dai media e dagli opinion leader per finalità puramente politiche, e giudicati attendibili o falsi in base alle convenienze della propria parte politica.
La società italiana sembra così soffrire di un crescente gap conoscitivo sulle proprie caratteristiche economiche, sociali e ambientali. Nel passato, erano le crisi valutarie a rendere evidenti i problemi strutturali dell’economia italiana. Oggi, grazie all’euro, non è più così, ma proprio per questo il paese deve imparare a leggere la propria realtà nel confronto internazionale, spesso fatta di differenze espresse in termini di "decimali", ma non per questo trascurabili. Vivere nella società dell’informazione vuol dire saperne gestire la complessità e trasformare tale informazione in vantaggio competitivo. Ed è qui che il discorso sulla qualità della statistica pubblica diviene cruciale per lo sviluppo del paese.
Una scienza sottovalutata
L’Italia investe per la statistica ufficiale molto meno degli altri grandi paesi, sia in termini pro-capite, sia rispetto al Pil. L’approccio estremamente innovativo sul piano organizzativo e istituzionale contenuto nella legge statistica del 1989 è stato parzialmente vanificato proprio a causa della mancanza di adeguati investimenti, per non parlare della recente inclusione dell’Istat nel sistema dello spoils system. D’altra parte, la statistica pubblica non è certo percepita dalla maggioranza dei cittadini e da molti politici come uno dei pilastri istituzionali di un paese moderno. Né all’Istat (o alla commissione di garanzia dell’informazione statistica istituita presso la presidenza del Consiglio) viene riconosciuta una funzione istituzionale paragonabile a quella della Banca d’Italia o di "authority" di settore. Purtroppo, va detto che la situazione italiana non è un caso isolato, almeno nel panorama europeo. Nonostante i grandi progressi effettuati, anche grazie a Eurostat, nell’armonizzazione delle statistiche europee, non si è voluta (o saputa) cogliere l’occasione della nuova Costituzione europea per creare un sistema statistico europeo, sulla falsariga del sistema europeo delle banche centrali. E intanto, gli istituti di statistica di alcuni paesi soffrono di tagli di bilancio o di attacchi alla loro indipendenza. Ben diversa è la situazione nel Regno Unito o in altri paesi dell’Ocse di stampo anglosassone (Canada, Stati Uniti, Australia), dove non solo gli investimenti pubblici sono nettamente superiori, ma il ruolo svolto dall’informazione statistica "ufficiale" nel dibattito culturale e politico è centrale e l’indipendenza degli istituti di statistica è difesa in modo bipartisan.
Una proposta "moderna" di governo passa anche per un impegno culturale a valutare la realtà con obiettività e a farsi valutare dai cittadini sulla base di dati di fatto (non a caso la corsa verso l’Unione monetaria fu compresa da tutti perché l’obiettivo era chiaro e quantificato in pochi, ancorché criticabili, indicatori). Dal punto di vista statistico, l’Italia non ha nulla da invidiare in termini di capacità tecniche e di capitale umano ad altri grandi paesi industrializzati. Questa ricchezza rappresenta la condizione necessaria, ma non sufficiente, per far fare alla statistica pubblica un salto di qualità. Serve, in primo luogo, un riconoscimento della sua funzione pubblica, al quale devono far seguito investimenti adeguati e comportamenti rispettosi dell’indipendenza scientifica degli enti che producono statistiche ufficiali da parte della politica, dei media e degli altri attori sociali, pur senza rinunciare al diritto di critica fondato su considerazioni tecnicamente valide.
Chi siamo e dove andiamo
Un serio ripensamento dell’assetto istituzionale del Sistema statistico nazionale alla luce delle modificazioni della società e della politica sarebbe decisamente auspicabile, magari a partire dai principi posti alla base della statistica comunitaria e contenuti nella nuova Costituzione europea. Un rafforzamento esplicito dell’autonomia dell’Istat, degli altri grandi enti produttori di statistiche pubbliche e delle istituzioni poste a garanzia della qualità dell’informazione statistica contribuirebbe a tale risultato. Infine, sarebbe altrettanto auspicabile l’avvio di un progetto volto a costruire "key indicators" della società italiana, per aiutare il paese a valutare dove si trova e a capire dove vuole andare. (1)
La disponibilità di "indicatori chiave" - economici, sociali e ambientali - viene considerata da alcuni come uno degli strumenti fondamentali di un sistema politico bipolare, nel quale i cittadini vengono informati adeguatamente sugli avanzamenti conseguiti nei diversi campi attraverso la diffusione di statistiche ufficiali di elevata qualità, il cui valore informativo sia condiviso da tutte le componenti sociali. Iniziative di questo tipo sono state lanciate con successo in Australia, Irlanda, Regno Unito, Stati Uniti.
(1) Per esempi di questo tipo si veda www.oecd.org/oecdworldforum.