Com’è facile, nel clima commosso e fittizio di un’”unità nazionale” che non esiste, o nell’aspirazione ad una “memoria condivisa” che non è condivisa, dimenticare l’esistenza, nella nostra serva Italia come suppongo in qualunque Paese, di un “ventre molle”, di un lato oscuro della “Gente” con cui, nonostante le molte riflessioni sulla “banalità del male”, stentiamo a fare i conti.
Come fare i conti, del resto, con quella massa di pulsioni oscure, impermeabili a qualsiasi opera civilizzatrice del linguaggio, che esplodeva nei pogrom, e che riaffiora fragilmente mascherata nella barbarie delle platee televisive lobotomizzate, nell’edonismo totalitario della “telecrazia”... Siamo ancora la stessa razza delle antiche plebi spettatrici di circhi sanguinolenti...
Cronaca di ieri mattina, lunedì 7 marzo 2005, in una scuola superiore della Bassa Padana. Cerco di parlare, e di far parlare i miei alunni, di questa vicenda terribile che è la morte di Nicola Calipari. Qualcuno, perfino, non ne sapeva ancora niente (alla faccia della “società trasparente” teorizzata da Gianni Vattimo!). Un silenzio forse ostile, comunque opaco. (Eppure come sono loquaci, questi “giovani” che non sono né la meglio né la peggio gioventù, nelle trasmissioni delle Tv di regime che li allevano nell’idolatria dei propri ombelichi...).
Dico che proporrò alla Preside di far osservare un minuto di silenzio in tutta la scuola, in concomitanza dei funerali di Stato, per onorare la memoria di questa persona che è veramente “una bella persona” (altro che Mike Tyson, caro Bonolis!); e chiedo che cosa ne pensano. Qualcuno timidamente azzarda che non capisce che cosa ci sia di eroico nella sua morte, che ha semplicemente “fatto il suo lavoro”. Qualcun altro finalmente dice quel che pensa: che “è colpa” di Giuliana Sgrena quel che è successo, che la giornalista (e gli altri come lei) “mettono in pericolo” la vita dei poliziotti che devono poi andare a recuperarli, che lei è andata in Iraq “per i suoi interessi”, e che “sta speculando” politicamente sulla vicenda. Sottolineo che le parole virgolettate le ho realmente sentite pronunciare stamattina da alcuni miei alunni. (Sì, non molti, ma neanche pochi – e sempre troppi, comunque – le condividono, almeno credo).
E poi penso che il mio scandalo, la mia indignazione – per quanto cerchi di dominarli contestualizzandoli (sono ragazzi, non leggono nessun giornale, tranne – quando “va bene” – la Gazzetta dello Sport, le Tv di regime sono quello che sono) – sono residui di “anima bella”, tracce superstiti di moralismo (perché in questo Paese cinico e idolatrico questa è l’accusa ricorrente per chi crede ancora al rispetto delle regole, e magari a un minimo senso di umanità: “moralismo”).
Ma almeno non stupiamoci che passino nell’indifferenza generale proposte di concedere la pensione di guerra agli aguzzini di Salò (e perché non qualche monumento?), o che fogliacci basso-intestinali aggrediscano con becera violenza le “vispe Terese” e i “bamba”, o che ci sia questa sistematica prostituzione del linguaggio per cui i più loschi interessi privati vengano spacciati per “il Bene” contro il Male (ah, buon vecchio Tacito, torna e sostituisci a “pace” “democrazia”, il nuovo nome con cui si ribattezzano i deserti e i cimiteri di bambini sventrati dalle cluster bomb!).
No, non stupiamoci, la narcotizzazione di massa sta semplicemente facendo il suo corso, e a volte il legno storto dell’umanità vira decisamente verso la marcescenza, quando gli ultracorpi sono arrivati al potere...
ll popolo!
E' ancora quello dei circhi,
affamato di carne umana e di fango,
nostalgico di un'ulteriore
prima orda.
Basta servirgli tette e culi, al popolo,
e ne acclama l'impresario.
Basta fargli spiare dal buco della serratura,
al popolo,
se di cibo è già sazio.
Non conosce che una legge di picche,
e il macellaio è tenero con i suoi bambini,
e i cani, che non badano
alla provenienza degli ossi.
Il popolo piomba i vagoni.
Non sopporta la peccatrice stirpe degli uomini,
il popolo,
e uscito dal mercato delle vacche,
senza lavarsi le mani
assiepa le chiese,
distratto,
e infierisce sui vinti,
leccando tutto il leccabile,
dei vincitori.
Libera sempre Barabba.
Non vedi?
E' sempre lei,
l'antica bestia,
l'antica plebe sanguinolenta,
oggi opulenta,
è il popolo che piomba i vagoni,
o volta la faccia.
E' la Gente!
Il regime dei furbi,
con ricchi giri di nani e di troie,
con un nano maligno per capo,
e sgherri feroci
e platee ben addestrate,
e il loro volto è il ventre pasciuto,
la loro pelle levigata è una squama,
ed ognuno ha il suo pacchetto
la domenica mattina,
dai giovani, che estraggono
monete e mostri
dal coccolato ombelico,
alle vecchine, tra prodigi,
che muniscono di eterne fascine.
Il popolo!
Il popolo d'Italia!
Da altra lista - 08-03-2005
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In ogni giovane apatico si nasconde un combattente.
Francesco Alberoni - Corriere della Sera 7/3/05
A volte mi cadono le braccia. Ancora vent’anni fa era possibile elencare moltissimi filosofi, storici, sociologi, psicologi che i giovani leggevano con avidità considerandoli dei maestri. Faccio i primi nomi che mi vengono in mente: Levi-Strauss, Lacan, Foucault, Barthes, Braudel, Habermas, Jonas, Berlin. Prendete ora qualsiasi giovane e domandategli quali autori legge abitualmente considerandoli dei maestri. Spesso non ne nominano nemmeno uno. Hanno magari letto le Barzellette di Totti e Il codice da Vinci senza naturalmente aver capito che è un mostruoso imbroglio storico. Ma non possono averlo capito perché non sanno più la storia. Girano il mondo e non sanno localizzare su una carta geografica dove sono gli Stati. Navigano in Internet ma, poiché su Internet ci sono solo frammenti, fanno un minestrone di frammenti che non riescono a ordinare. Molti non leggono più i giornali.
Hanno paura della matematica. Tanti arrivano all’università senza saper non solo scrivere, ma nemmeno parlare. E non imparano a farlo neanche lì, perché quasi dappertutto stanno scomparendo gli esami orali, dove discuti con lo studente, gli chiedi di argomentare. Si dedicano alla chiacchierologia ed evitano le materie scientifiche. Li vedi nei banchi apatici, svogliati, sembrano privi di vita, di passioni. Evitano lo sforzo, evitano le sfide, non sono abituati a combattere, cedono alle prime difficoltà. A volte mi cadono le braccia. E come a me a tanti professori.
Ed è giusto dirle queste cose, non si possono solo fare elogi ai giovani, ripetere demagogicamente che sono la speranza del futuro. Lo sono se si svegliano. Lo sono se qualcuno riesce a risvegliare in loro la voglia di sapere, di capire, di inventare, di lavorare. Ed è facilissimo farlo.
Sì, è facilissimo. Prendete un gruppo di giovani svogliati che sembrano zombie e chiamateli a lavorare con voi su un progetto. Un progetto alto, ambizioso, un progetto difficile in cui c’è da faticare duro. E mettetevi a farlo con loro, in mezzo a loro, con energia, con entusiasmo, coinvolgendoli, dando loro incarichi e responsabilità. Lasciateli sbagliare ma che capiscano lo sbaglio fatto. Siate esigenti, molto esigenti perché devono sentire la durezza del compito e imparare a resistere, a non guardare all’orario, alla fatica ma solo alla meta. Finche non imparano che devono essere esigenti con se stessi. Stimolateli, rimproverateli, elogiateli, gridate, applaudite, festeggiate finché non diventate un gruppo dedicato alla meta.
Allora vedrete fiorire delle meraviglie.
Perché non sono i giovani che sono apatici, morti, ignoranti, pigri, siamo noi che non abbiamo capito che l’essere umano è, nel profondo, un combattente, che ha al suo interno una spinta irrefrenabile a salire in alto. È questa che bisogna risvegliare. Ma non la si risveglia con il «poverino, poverino» e con la pigrizia. E la si uccide con l’indifferenza.
La si risveglia solo additando una meta e dimostrando, con il tuo esempio, che ci credi e che sei pronto a batterti insieme a loro per raggiungerla.
Come hanno sempre fatto i grandi educatori, i grandi scienziati, i grandi generali. Cesare dormiva su un lettuccio da campo fra i suoi soldati e si lanciava nella battaglia con loro. E vincevano sempre.
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