Riflessioni critiche sul passaggio alle Regioni dell’Istruzione Professionale
Raffaele Ciarapica - 15-03-2002
...ovvero...
A chi giova la scomparsa dell’Istruzione Professionale?


Il passaggio dell’Istruzione Professionale alle Regioni sembra non interessare concretamente nessuno: una parte consistente del Sistema scolastico nazionale (il 25% dell’utenza nell’ambito della S.S.S.) sta per essere dirottata dallo Stato alle Regioni senza un serio dibattito sul senso e la portata dell’operazione, sui possibili vantaggi e svantaggi, senza un benchè minimo bilancio o una valutazione sul complesso, critico e cruciale ruolo svolto nella sua continua evoluzione da tale segmento di istruzione e formazione.
Non interessa conoscere quale contributo culturale, sociale e professionale fornisce l’ Istruzione Professionale nel panorama nazionale? Quale impatto culturale, sociale e professionale può avere il suo passaggio alle Regioni?
Il passaggio dell’Istruzione Professionale alle Regioni è davvero così ininfluente, indifferente e poco significativo per il Sistema Paese, tanto da non meritare almeno un’analisi attenta sul rapporto costi / benefici? Ha senso separare la formazione dall’istruzione e viceversa?
Proverò a sostenere l’estrema gravità di questa operazione, che sconta il suo apparire ormai un luogo così comune da non meritare approfondimenti di ordine politico, economico e socio – culturale né da parte di chi sembra interessato a cambiamenti rapidi e profondi del Sistema Scolastico senza soppesarne con la dovuta prudenza i possibili effetti né da chi, pur dichiarandosi da sempre attento alle politiche sociali, non ha finora percepito il pericolo del drammatico arretramento che ne conseguirà non solo sul piano dei diritti di cittadinanza di una consistente fetta giovanile ma anche sul versante della competitività e della complessiva “civiltà democratica” del Paese.
L’attuale dibattito, tutto centrato sulla precocità della scelta tra sistema dell’istruzione liceale e formazione professionale, è fuorviante: se non viene messo in discussione il passaggio alle Regioni dell’Istruzione Professionale, e attualmente non viene messo in discussione pur essendo l’unico modo per evitarla, ha senso gridare alla scelta anticipata? O vogliamo anche impedire agli studenti licenziati dalla Scuola Media l’iscrizione a questo segmento formativo? (Forse, magari a livello inconscio, si dà già per scontata la sua scomparsa; in ogni caso l’attuale dibattito dimostra come nessuno sostanzialmente creda che l’abbinamento in un unico sistema dell’ “istruzione professionale” alla “formazione professionale” , mentre “svaluta” la prima, valorizzi quest’ultima)

Io sostengo che:
1. si tratta di un’operazione senza ritorno tanto grave e pericolosa quanto non seria (data l’ assenza di adeguate analisi, ipotetici modelli e scopi ben definiti)
2. l’ “istruzione professionale” in quanto tale scomparirà: una volta unita in un unico sistema con la “formazione professionale” regionale non sopravviverà perché perderà inevitabilmente tutte le peculiarità che ne fanno un’ insostituibile cerniera tra i due sistemi che devono e possono integrarsi al meglio rimanendo distinti. Non ci si può illudere che le Regioni terranno in piedi distintamente i due sistemi (con quali risorse, e perché?)
3. non giova a nessuno


Bisogna innanzitutto considerare il ruolo che da sempre svolge l’Istruzione Professionale, con crescente impegno ed efficacia nell’ultimo decennio, nel confrontarsi con una domanda formativa estremamente complessa, su più fronti e a diversi livelli.

Sul versante dell’ orientamento e della formazione professionale
l’I.P. prepara operatori qualificati, quadri e tecnici intermedi con competenze tecnico – operative immediatamente spendibili grazie alla sistematica frequentazione di laboratori e situazioni operative (uso intensivo e diffuso delle nuove tecnologie, simulazioni e prolungati stage aziendali), arricchita e sostanziata da una cultura generale e scientifica sufficientemente ampia da consentire l’auspicata integrazione tra “sapere e saper fare”.
La caratteristica saliente che connota lo studente formato da un I.P. è la sua disponibilità, psicologica e professionale, ad affrontare il mondo del lavoro con spirito attivo e propositivo, consapevole delle responsabilità da assumere e della complessità dei problemi da affrontare ma con un atteggiamento aperto alle novità e pronto a spendersi e mettersi in gioco.
Il livello di preparazione degli allievi è ovviamente molto differenziato e variegato; si riesce comunque, fornendo diverse qualifiche e diplomi, a formare operatori e tecnici con profili professionali di vario livello molto vicini alla domanda reale proveniente del tessuto produttivo e dei servizi. La capacità dell’Istruzione Professionale di interpretare ed incrociare i fabbisogni formativi, individuali e collettivi, è testimoniata da numerosissime ricerche di settore commissionate da Associazioni Industriali ed Artigiane, da CCIAA, dall’ ISFOL …oltre che dal fatto incontrovertibile dell’immediato inserimento lavorativo dei diplomati, almeno nel centro e nord Italia dove molto spesso non si riesce ad evadere la richiesta proveniente dal territorio. Tale capacità di inserimento viene oggi esaltata dal percorso specificatamente professionalizzante sviluppato nella cosiddetta “Terza Area” dell’ I.P., unica nel panorama scolastico nazionale, all’interno del quale tutti gli studenti del quarto e quinto anno possono acquisire una qualifica di II livello riconosciuta dalla Regione partecipando a moduli didattici tenuti da esperti esterni e impegnandosi in prolungati stage aziendali (almeno 240 ore nel biennio finale): in tale ambito imparano a conoscere determinati contesti lavorativi, si confrontano con la complessità delle strutture organizzative e le difficoltà del collaborare con gli altri, e al contempo si fanno conoscere ed apprezzare, oltre che formare, da parte dei futuri datori di lavoro.
Tale impostazione realizza a tutti gli effetti la tanto fin qui auspicata integrazione tra istruzione e formazione professionale, spesso con ottimi per quanto poco conosciuti risultati, riuscendo a dare concreta dignità culturale al mondo del lavoro e valorizzando la dimensione lavorativa come cruciale momento formativo.
Essa è perfettamente in linea con quanto invocato nel famoso “Libro Bianco su istruzione e formazione” prodotto dalla Commissione Europea (presieduta da Edith Cresson) nel 1996 e intitolato “insegnare e apprendere – verso la società conoscitiva”; in esso, a fronte della constatazione dei profondi cambiamenti in corso che hanno modificato e trasformano continuamente le caratteristiche del lavoro e l’organizzazione della produzione, venivano indicate due risposte fondamentali alle quali si chiedeva a tutti i sistemi formativi di uniformarsi:
1) “rivalutare la cultura generale”, come passaggio obbligato e requisito essenziale e “primo fattore di adattamento all’economia e all’occupazione”
2) “sviluppare l’attitudine all’occupazione” con percorsi flessibili, ricchi di opportunità: esperienze lavorative, mobilità, formazione continua, ricorso ai nuovi strumenti tecnologici.
E’ peraltro in sintonia totale anche con quanto da tempo viene prescritto e sostenuto dalle associazioni imprenditoriali per la riforma del sistema formativo: necessità di acquisire competenze non solo tecnico – operative, rapidamente obsolescenti, ma innestate su una solida cultura di base e polivalenti, importanza cruciale di una formazione umana piena che predisponga al cambiamento, all’assunzione di responsabilità e alla partecipazione attiva in un contesto sociale e produttivo sempre più dinamico e competitivo che presuppone nuovi modelli di vita, di cultura, di lavoro (a meno che tali caposaldi siano improvvisamente passati di moda ,e venga ritenuto invece opportuno avviare una fetta molto consistente di giovani verso un mercato del lavoro di tipo solo esecutivo e a bassa qualificazione, senza una seria protezione individuale e sociale, quali che siano i costi individuali, sociali e di sistema. In tal caso il dibattito andrebbe spostato sul modello di economia, e quindi di società, che viene proposto, e sarebbe più urgente che mai).

Qualcuno potrebbe sostenere che tale specifico ruolo, se e in quanto egregiamente svolto fino ad ora dall’istruzione professionale di stato, potrebbe innervare e “informare” di sé la formazione professionale regionale. A mio parere non esistono non dico le garanzie ma le benchè minime condizioni perché questo possa avvenire, almeno in un arco temporale di breve termine: le Regioni non hanno, allo stato attuale, né le strutture di supporto né la necessaria impostazione e tradizione: è ben diverso organizzare (o autorizzare allo scopo altre agenzie formative, come si fa attualmente) percorsi di formazione specifica centrata su obiettivi concreti ed immediati rispetto alla strutturazione di curricoli lunghi ed estremamente complessi e volti a cogliere numerosi obiettivi non sempre immediatamente paganti. Ma soprattutto le Regioni non hanno le risorse per tenere in piedi una struttura scolastica somigliante a quella che attualmente caratterizza l’istruzione professionale.
Tutto lascia pensare (assenza completa di un dibattito specifico, scarso interesse da parte delle Regioni, finora non coinvolte in questa operazione, fin qui del tutto improvvisata) che finirà inevitabilmente con la formazione professionale che ingloberà l’istruzione professionale e non viceversa, con conseguente perdita totale della sua preziosa identità attuale e dell’essenziale contributo formativo specifico da essa fornito.

Dunque, a chi giova
abbassare il livello di preparazione di una larga fascia giovanile, proprio quella, tra l’altro, che oltre ad averne più bisogno sta sostanzialmente dimostrando di essere disposta a percorrere tale cammino formativo?
Non certo al mondo dell’impresa; tantomeno all’Italia, quinta o sesta potenza capitalistica mondiale, condannata ad impegnarsi in una competizione produttiva ad altissimo livello, in cui il fattore cruciale è inevitabilmente quello della cultura complessiva (a meno che non si intenda competere ad un livello più basso, che implicherebbe, e presupporrebbe un consistente arretramento complessivo della società italiana).
Non giova certo alle Regioni: addossare loro un fardello di enorme complessità su innumerevoli fronti senza averne strutture, competenze specifiche e risorse rischia di travolgerne le strutture organizzative e progettuali, costringendole con ogni probabilità ad una necessaria “semplificazione” e omogeneizzazione alle strutture esistenti e distogliendole dal compito, necessario e ormai improcrastinabile, di una riforma “alta” del sistema della Formazione Professionale.
L’istruzione e la formazione professionale di base, per risaputi e ormai scontati concetti e precetti pedagogici, non possono essere separate artificiosamente: la prima, centrata sul pieno sviluppo della personalità umana, sociale e affettiva di ciascuno, attiene alla costruzione del “cittadino” e alla sua identità culturale; come tale costituisce la necessaria premessa per la formazione professionale, che attiene al “lavoratore”, che rappresenta solo una delle molteplici dimensioni della persona, per quanto fondamentale e centrale nella vita di ognuno.
La formazione professionale “di fascia bassa”, in quanto attività formativa autonoma di competenza regionale, ha sempre meno ragioni di esistere: la formazione per specifiche e non particolarmente complesse mansioni è opportuno svolgerla direttamente nei luoghi di lavoro e nell’ambito dell’apprendistato.
Le Regioni hanno invece tutto l’interesse a centrare il loro intervento nella progettazione e organizzazione di segmenti formativi alti, nel postdiploma, nella formazione tecnica superiore, e quindi nell’integrarsi e fornire un contributo essenziale al sistema statale. Solo una logica devastante e miope di competizione (contrapposizione?) tra Regioni e Stato Centrale può ritenere utile e privilegiare una separazione netta tra i due sistemi formativi (mi sfuggono completamente gli eventuali vantaggi di tale impostazione).

Sul fronte socio – culturale
va poi considerato il non meno cruciale ruolo di sostegno e riequilibrio culturale e sociale che di fatto l’Istruzione Professionale assolve nei confronti di un’ampia fascia di utenza per la quale spesso rappresenta l’ultima occasione di sviluppo di un progetto di vita che vada oltre un rapido ma spesso precario inserimento lavorativo.
Come si cercherà di attrezzare i tanti giovani orientati a percorsi professionalizzanti a sviluppare la loro personalità sul versante della piena consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e dei propri diritti, delle difficoltà e a saper cogliere le opportunità che la società attuale offre?
Per formare la necessaria coscienza critica, educare ai valori di civiltà, a dominare e valorizzare la propria dimensione sentimentale, insomma a creare le condizioni perché ognuno possa strutturare e consolidare una propria identità, nell’educazione è necessario dare spazio al più alto sviluppo possibile alle conoscenze scientifiche e tecnologiche, che danno sostanza e riferimenti concettuali alle competenze più concretamente operative e professionali; soprattutto devono essere consolidate le radici culturali (la cultura, la storia, le tradizioni, le relazioni con gli altri che caratterizzano la nostra civiltà) e sviluppate al più alto livello possibile le competenze linguistiche, che oltre ad essere il primo requisito professionale rappresentano un’essenziale condizione di cittadinanza (“solo la lingua rende uguali”, Don Milani).
Non ne hanno diritto tutti i giovani?
O si pensa che questo compito possa compiutamente essere assolto dai cicli scolastici che si concludono con la Scuola Media, a 13 anni e forse meno? A chi lo pensasse andrebbe immediatamente prescritto un qualsiasi testo (anche il Bignami) di psicologia dell’età evolutiva.
E’ interesse sociale primario evitare la frantumazione sociale perseguendo il massimo di “educazione” dei futuri cittadini, non solo per garantirne gli inalienabili diritti sanciti dalla Costituzione ma anche per prevenire al massimo fenomeni di devianza, frequentemente correlati a situazioni di bassa scolarità, mancanza di prospettive, cattiva percezione di sé e degli altri, scarsa abitudine alla disciplina ,….
Anche su questo versante, di concreto e robusto argine di un possibile più forte disagio sociale e “giovanile”, l’istruzione professionale costituisce a tutti gli effetti un baluardo ed uno strumento che sarebbe drammatico vedere depotenziato e svilito: non si può dimenticare che forse il suo più alto successo consiste nel “recuperare” alla cultura e ad una formazione piena e di pari dignità sociale un elevato numero di giovani. La sua “specializzazione” nel recupero è testimoniata dalla convinta frequenza di questo segmento formativo da parte di almeno l’80% degli studenti disabili iscritti alla S.S.S. o alla formazione professionale, e soprattutto dalle concrete opportunità che vengono loro offerte in vista della vita successiva alla frequenza scolastica.
Tale recupero è forte sia sul piano qualitativo che quantitativo, e conforta chi opera su questo fronte nonostante un ancor rilevante tasso di dispersione (di cui non si può dimenticare che quasi sempre rappresenta l’esito di un lungo percorso scolastico negativo, e che certo non può costituire l’alibi per abbandonare la necessaria “battaglia formativa”).
Non fosse altro che per il pericolo di perdere queste opportunità ed i probabili gravi costi sociali anche sul versante economico per le necessarie politiche integrative di recupero e sicurezza sociale, credo che sia assolutamente necessario un serio ripensamento dell’intero problema, che rimetta in discussione fin dalle fondamenta l’impianto che porta alla netta separazione tra istruzione di stato e formazione regionale (senza nascondersi dietro la foglia di fico dell’istruzione professionale alle Regioni, che nel contesto attuale viene utilizzata strumentalmente solo per dare un’effimera dignità all’operazione nel momento stesso che viene condannata alla fine).
Non dimentichiamo che la proposta di riforma sul tappeto non può essere in alcun modo rappresentata come l’ approdo finale di un processo di sviluppo, ma costituisce un brutale arretramento rispetto alla situazione attuale che consente agli studenti degli I.P. di frequentare una scuola di pari dignità delle altre S.S.S., di poter accedere all’Università e soprattutto di acquisire un diploma di stato oggi necessario per molti mestieri e professioni. E’ interesse delle forze politiche sottovalutare come questi “fatti” verrebbero percepiti dal mondo studentesco (tutto, non solo quello già numerosissimo di stretta pertinenza degli I.P.), e il loro potenziale effetto incendiario in un contesto di crescente malumore specifico?

In conclusione
1. auspico fortemente che il Parlamento non conceda la delega al Governo su temi così cruciali per il Paese: la delega oltre ad affossare concretamente le possibilità di un serio e ampio confronto favorirebbe lo sviluppo di un’azione di Riforma con atti unilaterali, magari proposti in tempi e modi in cui gli strati sociali più direttamente coinvolti e l’opinione pubblica più in generale sono poco attenti
2. ritengo che l’Istruzione Professionale debba e possa ben rimanere allo stato mantenendo e rafforzando il suo ruolo di cerniera con il sistema formativo regionale: ciò fornirebbe terreno vivo di confronto e darebbe reale consistenza al rapporto Stato – Regioni sui temi dell’istruzione e della formazione, che costituiscono oggetto della loro legislazione concorrente
3. credo che tale possibilità possa essere concretizzata individuando accanto al sistema dei “licei” uno specifico comparto tecnico in cui salvaguardare ed esaltare i punti di forza delle attuali Istruzione Tecnica e Istruzione Professionale (anche come Licei Tecnici e Licei Tecnologici).


Raffaele Ciarapica
dirigente scolastico
IPSIA “F.Corridoni”
Corridonia (MC)




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