Guerra di liberazione
Giuseppe Aragno - 06-11-2004
Così Carlo Azeglio Ciampi ha definito a Trieste il primo conflitto mondiale: una guerra di liberazione. E’ incredibile, ma è così: l’orrore di una vergogna senza fine che chiamiamo ambiguamente “Grande guerra”, ha sempre esercitato un fascino terribile su animi e culture le più disparate. Incantò l’interventismo irredentista di Cesare Battisti, che pagò col capestro la sua fede, quello “democratico” di Salvemini, quello “rivoluzionario” di Corridoni, Labriola e De Ambris, i sindacalisti finiti al fianco di un avventuriero come Mussolini, ridusse allo sbando la Seconda Internazionale e giunse ad ammaliare persino l’anarchico Kropotkin, che nel 1916 non esitò a chiedere, in un manifesto sottoscritto con altri quindici compagni, la prosecuzione del macello fino allo schiacciamento della Germania.
Tardo epigono di sovversivi pentiti, il moderato capo dello Stato pronuncia oggi, in contrasto con la storia e con l’ethos che è alla radice di quella Costituzione della quale dovrebbe essere supremo garante, parole che inducono a riflettere. Per quanto ancora potremo spiegare ai nostri alunni che la corona e un governo di classe, complici una minoranza di interventisti sostenuti dagli industriali, avidi di commesse per le forniture militari, ci condussero in guerra producendo una profonda lacerazione nel tessuto politico e sociale di un paese che, appena un anno prima, durante i moti della Settimana Rossa, aveva mostrato chiaramente la propria avversione alla guerra e al militarismo? Per quanto tempo potremo spiegare che all’intervento si giunse quando Salandra e Sonnino, d’accordo col re e senza informare il Parlamento, schierato su posizioni neutraliste, firmarono a Londra, in gran segreto un Patto di alleanza con le forze dell’Intesa, con il quale l’Italia si impegnava ad entrare in guerra contro i suoi ex alleati?
E’ questa, la guerra di liberazione di cui parla Ciampi.
Ciò che Ciampi non dice è che si giunse al punto che il 4 maggio 1915, quando Sonnino si decise finalmente ad informare il Paese, l'Italia, che non voleva la guerra, scoprì di essere impegnata contemporaneamente con entrambi le parti belligeranti. Un re senza onore, che anni dopo avrebbe aperto la via al fascismo e firmato le leggi razziali, costrinse i deputati neutralisti a scegliere tra intervento e sovrano; facendosi forte di uno Statuto per il quale il re non era responsabile delle decisioni prese, Vittorio Emanueke III mise il suo popolo di fronte al fatto compiuto. Tranne i socialisti, che si attestarono sulla linea suggerita da Treves e difesa da Turati – né aderire, né sabotare – gli eletti finirono col votare contro gli elettori, i governanti scelsero contro gli interessi dei governati e il 23 maggio, al termine di un vero e proprio colpo di Stato orchestrato dal re, l'Italia minoritaria di D’Annunzio, Corradini e Mussolini dichiarò guerra all'Austria.
Ventiquattr’ore dopo un esercito impreparato, guidato da un generale che aveva in assoluto disprezzo la vita, la dignità e l’onore dei suoi uomini, era sulla linea del fuoco.
Alla fine del 1915 un quarto degli uomini spediti al fronte era morto. Cadorna chiese ed ottenne poteri che di fatto mettevano il Comando Supremo delle nostre Forze Armate fuori dal controllo del Parlamento e dello stesso governo. La disciplina barbara, che giungeva alla decimazione e affidava all’arbitrio degli ufficiali ed ai plotoni d’esecuzione la disperazione dei soldati, non bastò a dar forza al Consiglio dei Ministri. Per deporre Cadorna, ciecamente sostenuto dal re, fu necessario giungere alla tragedia di Caporetto. Per tre anni il Parlamento fu convocato molto raramente e, senza poter discutere, si ridusse ad organo di ratifica di decreti reali. Né Salandra, né Boselli riuscirono ad ottenere un comando unico con gli alleati e, dall’inizio alla fine del conflitto, i prigionieri furono tutti indiscriminatamente considerati disertori e abbandonati al loro destino. Unico tra i Paesi in guerra, l’Italia rifiutò di soccorrere i soldati catturati, privi di cibo e di indumenti con cui combattere il gelo. Un quarto del totale delle nostre perdite, centomila dei nostri soldati, si registrò tra i prigionieri “dimenticati” dal re soldato e dai suoi governi.
Ciò che avremmo potuto ottenere per via diplomatica – la giolittiana politica del “parecchio” – costò centinaia di migliaia di morti.
Per quanto tempo ancora ci sarà possibile spiegare la storia ai nostri ragazzi, per farne cittadini ed uomini in grado di sottrarsi al fascino della retorica patriottarda e di saper dire di no alla logica della guerra? Non ci resta molto tempo: Gaulaiter Allawi, leader iracheno d’un governo fantoccio, tenuto in piedi dai nostri militari in “missione di pace”, è stato ieri ricevuto con grandi onori dal papa e dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Non ci resta molto tempo. No. Ce ne resta ben poco.

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 Pierluigi Nannetti    - 07-11-2004
Veramente ben ricostruito quel poco onorevole "colpo di stato" che dette il via alla nostra partecipazione al macello della prima guerra mondiale. E condivido anche l'allarme per un insensato e demagogico "patriottismo", interessato solo a permettere, con spudorate bugie sulle pretese missioni di pace, gli attuali macelli grondanti di petrolio, oltre che di sangue.
Vorrei solo sottolineare un paradosso: chi salvò, nel 1914, l'onore nazionale furono proprio i socialisti con il loro "né aderire né sabotare". Salvarono l'onore nazionale, ma nello stesso tempo tradirono (per la verità meno platealmente di quanto fecero gli altri socialisti) i solenni impegni internazionalistici di lotta alla guerra presi a Basilea pochi anni prima. Non fu un caso se solo la piccola pattuglia dei bolscevichi di Lenin, attestata sulla posizione rigidamente internazionalistica di "disfattismo" della guerra nazionale per la sua trasformazione in rivoluzione, si trovò a capo della rivoluzione in Russia. Rivoluzione che doveva essere la scintilla di un incendio almeno europeo, ma che rimase soffocata ben presto nel suo isolamento, soprattutto perché le diverse borghesie nazionali seppero ben usare il loro potere statale per catturare ad una politica di solidarietà nazionale quel che rimaneva ingloriosamente della Seconda Internazionale Socialista.