Spiando nel giardino verde del vicino…
Aldo Ettore Quagliozzi - 09-10-2004
Ha scritto Umberto Galimberti nei giorni più afosi di questa ultima estate, allorquando il clap-clap nazionale era al meglio del suo dirompere, e l’onda lunga della trasgressione ispirata dalla torrida stagione coinvolgeva magnificamente le genti del bel paese, impegnatissime in statuarie esposizioni al sole delle affaticate membra, incuranti o perlomeno dimentichi delle afflizioni passate ma comunque incombenti al ritorno dei primi refoli freschi , forieri questi di ben altre tempeste:

“ ( … ) Dopo vent’anni di televisione commerciale, la cultura, per diffondersi, deve fare i conti con la pubblicità e con il mercato, e quindi, per via di questi conti, deve abbassare paurosamente il livello e diventare sempre meno “ cultura “ e sempre più “ spettacolo “.
E questo perché abitiamo un mondo che i media hanno reso più visivo che riflessivo, più emotivo che ponderato.
Se ad esempio un uomo di pensiero va in televisione è bene che non parli più di 10 secondi e soprattutto che sia capace di riempire quel tempo con slogan efficaci e con dettati ipnotici, che non sono cultura ridotta in pillole, ma riflessi narcisistici che riverberano non tanto l’efficacia del pensiero, quanto la prontezza dei riflessi.
( … ) A questo punto all’intellettuale non resta che prodursi in una sorta di “ schizofrenia funzionale “ che gli consenta di dividersi tra l’uomo di spettacolo per far arrivare al pubblico qualche scampo culturale, e l’uomo di studio capace di chiudersi rigorosamente e per la maggior parte del suo tempo nello spazio confortante dei suoi libri, per recuperare, non davanti agli altri, ma davanti a se stesso, quel minimo di dignità che gli consente di maturare qualche degno pensiero da destinare a quella volgarizzazione che si chiama “ divulgazione “.
Questo compito non è mortificante per l’intellettuale, che ha comunque il vantaggio di condurre una vita non alienata. E’ mortificante per la cultura che, per sopravvivere, ( … ), deve rivestire i panni della spettacolarità.


Il brano riportato è tratto da uno scritto di Galimberti dal titolo “ L’applausometro del pensiero “ ed è apparso sul quotidiano “ la Repubblica “ del 3 luglio.
La omologzione della televisione pubblica ai caratteri propri della televisione commerciale è il peccato più grande compiuto, nel corso degli anni, da tutti coloro che si sono avvicendati nella sua gestione.
Non esiste colorazione politica o di schieramento alcuno che possa in qualche modo accampare una differenziazione di atteggiamento e di comportamento, tanto che tutti i gruppi dirigenti, di qualsiasi schieramento politico che abbiano avuto responsabilità dirette, hanno fattivamente concorso alla creazione dello sfascio odierno del servizio pubblico televisivo.
Da occasionale spettatore di spettacoli di intrattenimento è potuto accadere anche a me, nel pomeriggio di una recentissima domenica, assistere alle scempiaggini di una trasmissione condotta allegramente su di una rete Rai che, nell’occasione, si era premurata di fare intervenire un intellettuale di grande risonanza, il poeta Tonino Guerra; la sua presenza era di certo la necessità di dare alla trasmissione una parvenza di intelligenza e credibilità.
Il tutto è filato incentrando l’essenza e l’attenzione della vacua orrenda trasmissione sulla presenza di un altro ospite e delle di lui avventure amorose, stante la celebrata e riconosciuta dai più sua capacità di conquistare i cuori delle più celebri bellezze femminili.
Quanto sarà costata al cittadino utente quella sbalorditiva ed inutile partecipazione? E’ potuto accadere che l’intellettuale di turno, rompendo forse gli schemi consolidati e le abitudini imposte, abbia al momento del congedarsi “ strigliato “ sia i responsabili della trasmissione sia i partecipanti della stessa, con un parlar fuori dai denti meritevole di essere ripreso, nei giorni successivi, dalla libera stampa del bel paese. Ed invece il nulla sullo scabroso episodio.
E spiando nel giardino altrui, dove l’erba del vicino è sempre più verde, riporto la corrispondenza di Udo Gumpel, tedesco, ma che vive e lavora a Roma come corrispondente del servizio pubblico di quel paese dal lontano 1984. E’ come spiare attraverso il buco della serratura altre realtà tanto vicine a noi geograficamente, ma distanti anni-luce nella conduzione e nella considerazione sociale, e scoprire che il verde degli altri è effettivamente un verde diverso.

Il sistema televisivo pubblico italiano, così com'è oggi, non assolve a quasi nessuno dei suoi compiti – che peraltro si è assegnato da solo. È una tortura dover vedere i comici del Tg1 e del Tg2, costretti a spacciare ogni minimo cambiamento di politica governativa come fosse la cosa migliore per il paese. La vista di questi colleghi fa male. Ogni giorno, davanti al volto tormentato di Francesco Pionati che mi guarda mentre mangio da Carlo, il bar che frequentiamo entrambi, mi rendo conto che anche i mezzibusti della Rai soffrono per il fumo che devono vendere.

Lasciamo pure da parte le televisioni di Berlusconi: sono come tutte le altre tv private d'Europa. Ma che fare della Rai? C'è uno stimato collega della tv americana, Wolfgang Achtner, corrispondente dall'Italia da molti anni, che predica come unica soluzione lo scioglimento dell'azienda pubblica. Sì, lo so: in Rai ci sono molti ottimi giornalisti e registi che sanno fare bene il loro mestiere. Ma hanno un problema: i condizionamenti politici a tutti i livelli. O il prossimo governo libera l'emittente pubblica dalla morsa soffocante della politica, oppure non resterà che sopprimerla. L'Ulivo, quando era al governo, non ha voluto privarsi dello strumento Rai. Ma tornare alla lottizzazione stile "una rete per te, una per me" non è la soluzione. Bisogna modificare radicalmente il regolamento della Rai. Perché non fare come in Germania? Nota bene: in tedesco, il sistema radiotelevisivo non si definisce "statale", bensì "di diritto pubblico". Quindi la radiotelevisione è tenuta ad agire nell'interesse generale del pubblico.

Ebbene, in Germania al vertice di ciascuna delle reti radiotelevisive pubbliche c'è un consiglio d'amministrazione regionale. Questi consigli rappresentano la totalità della popolazione. Per esempio, nel consiglio della Ndr di Amburgo siedono rappresentanti dei tre principali orientamenti religiosi (cattolici, protestanti ed ebrei), un esponente degli ambientalisti, vari membri dei sindacati, delle università, delle organizzazioni agricole, dell'Unione per la protezione dell'infanzia. I rappresentanti dei partiti sono tre, uno per partito, contro otto membri che non fanno riferimento a formazioni politiche.

Chiunque capisce che con questi rapporti numerici nessun partito può comandare. Sono composti allo stesso modo tutti i massimi organi di controllo delle reti radiofoniche e televisive. Per giunta, il primo e il terzo canale sono prodotti esclusivamente a livello regionale, cioè nei vari länder o macroregioni in cui è suddivisa la repubblica federale. Non c'è un’unica centrale di comando. Ciascun canale ha piena autonomia in materia di programmazione per la "sua" terza rete – che può essere ricevuta dal 95 per cento dei tedeschi tramite cavo e satellite. Le singole reti regionali producono poi l'insieme delle trasmissioni del primo canale (Ard). La quota di produzione delle sedi regionali dipende esclusivamente dalla quota di popolazione delle regioni, e non da una spartizione proporzionale fra partiti. La produzione in comune delle trasmissioni del primo canale assicura il pluralismo e annulla così eventuali influenze politiche subite al livello regionale.

Naturalmente, anche in Germania i politici hanno tentato più volte di mettere le mani sulla tv. E più volte, la pluralità di istituzioni presenti nei consigli dell'audiovisivo e i redattori delle reti hanno difeso la loro indipendenza. Da noi non c'è quell'usanza pazzesca tipica della Rai, per cui a ogni cambio di governo cambiano anche i direttori delle reti e dei telegiornali. Se il giornalista, nel dare notizie o presentare reportage, deve sottostare al suo "editore virtuale", la qualità è a un certo livello. Se invece è davvero convinto del contenuto del suo lavoro, la qualità è un'altra.



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