Riformare l'istruzione tecnica: in che senso?
Pino Patroncini - 07-10-2004
Brutta faccenda la Storia. Non quella che si studia a scuola, che anzi serve a capire tante cose (come si vedrà anche qui), ma quella vera che si vive e che si è vissuta, che altri hanno vissuto prima di noi. E questo vale anche per la storia della scuola o dell’educazione in ciascun paese.
Sì, perché spesso quando si sente parlare di innovazioni da introdurre nei sistemi scolastici, nel nostro in particolare, si magnificano le virtù di questo o quel meccanismo prescindendo non solo dai contesti sociali politici economici e culturali ma anche dalla storia di ciascuna istituzione scolastica e della società che l’ha prodotta così come è. Invece siccome la scuola non è un ufficio dell’anagrafe ( eppure anche questi hanno la loro storia!) bensì è ambiente di relazioni vitali, essa vive di relazioni interne e dell’effetto di relazioni esterne assai più di quanto molti improvvisati tecnocrati ( non sono neppure tali per davvero!) vogliano credere e far credere.
E la scuola italiana, piaccia o non piaccia agli amanti della valutazione all’ultimo grido, ai fautori del cambiamento-non-importa-quale ad ogni costo, agli architetti dei modelli organizzativi, agli individuatori degli sbocchi a-ciascuno-il-suo, agli spregiatori della categoria docente ( che ha tutti i difetti, ne convengo, tranne quello di farsi abbindolare dal mito liberista) – la scuola italiana ha una sua storia. O meglio ce l’ha la società che così l’ha prodotta nel tempo.
O meglio ancora che ne ha prodotto gli handicap. E due, in particolare, qui ci interessano.


Una istruzione tecnica per fare che?

Il primo: non esiste nell’educazione italiana una forte tradizione di studi tecnico-professionali. Forte vuol dire antica, diffusa e di qualità.
In Germania la scuola media tecnica si chiama ancora “realschule” come l’aveva chiamata Federico II di Prussia intorno al 1750, perché questo re, gay e volteriano, pensava saggiamente che anche il lavoro dovesse essere insegnato a scuola, e che anzi a scuola fosse proprio obbligatorio andarci.
Noi italiani cent’anni dopo e ancora tra le due guerre, pensavamo che le scuole tecniche dovessero essere un affare del ministero dell’agricoltura e dell’industria, non di quello dell’istruzione. Non c’è perciò da meravigliarsi se lo scorporo di questi insegnamenti dal MIUR e la loro attribuzione alle regioni fa pensare che nel nostro futuro non ci sia altro che un “grande” passato, come diceva uno slogan politico di un film satirico degli anni settanta.

Nella nostra storia queste scelte si ripresentano ciclicamente: furono “separatisti” Casati e la destra storica e Gentile e il fascismo, furono “unitari” Coppino e la sinistra storica e Credaro e i radicali e… il centrosinistra degli anni sessanta. Altro che accusare di neogentilianesimo i fautori della scuola tecnica e professionale di Stato!
Il problema però è che Casati, Gentile e compagnia bella furono ostili all’unificazione dei sistemi scolastici non motu proprio, ma in quanto interpreti di un comune sentire di una classe dominante.
Si può ancora parlare di classi? Ebbene diciamocelo: la borghesia italiana, a differenza di quella di altri paesi non fu mai in grado di concepire un progetto educativo diffuso né generale né professionale.
Nel 1867, appena due anni dopo la guerra di secessione lo stato americano del Massachusetts promulgò una legge che prevedeva che i datori di lavoro potessero assumere a lavorare bambini tra i 10 e i 15 anni solo se questi avevano frequentato la scuola fino all’anno prima e se avessero assicurato a questi almeno sei mesi di frequenza in una scuola pubblica.
Da noi, in Italia, ancora cinquant’anni dopo, nel 1907, un’inchiesta mise in luce che molti comuni italiani non erano in grado neppure di garantire l’obbligo scolastico fino alla terza elementare, tanto che questa fu la ragione per cui anche la scuola elementare pochi anni dopo venne statalizzata.
E’ da storie come quella del Massachusetts o della Germania che nasce la tradizione dell’alternanza tra scuola e lavoro, anzi in Germania (e in Danimarca, Austria e Svizzera, paesi che hanno sviluppato l’istruzione tecnico-professionale nel solco della tradizione tedesca) neppure la chiamano così, la chiamano semplicemente apprendistato. Solo che in questi paesi l’apprendistato ha voluto soprattutto dire portare la scuola nel mondo del lavoro fissando, assai più rigidamente e seriamente (e anche più centralisticamente) di quanto improvvisati “flessibilisti” nostrani pensino, il ruolo dell’istituzione scolastica pubblica in termini di obiettivi, verifiche, compiti, calendari, orari e discipline (educazione fisica compresa, per intenderci!).
In Italia al contrario, se si esclude l’eccezione di poche e rare scuole aziendali, l’apprendistato è sempre stato il sotterfugio con cui il datore di lavoro, la “borghesia” nostrana, ha sempre sfruttato manodopera giovanile approfittando di contratti di favore e basta.
E ciò non solo nell’ottocento o tra le due guerre o negli anni del boom: ancora nel 2002, secondo i dati Isfol, su oltre 400.000 apprendisti solo 31.000 hanno partecipato alle 120 ore di formazione previste dalla legge (ore di formazione, spesso aziendale, non di scuola!!!).
Cosa possiamo aspettarci oggi nel momento in cui un decreto legislativo applicativo della legge 30, la cosiddetta legge Biagi sul mercato del lavoro, da un lato toglie anche quelle 120 ore e dall’altro dà la possibilità di acquisire qualifiche e diplomi direttamente in azienda?
E cosa dobbiamo pensare di quell’altro decreto sull’alternanza scuola lavoro, stavolta legato alla legge 53, la riforma Moratti, che invece lascia la titolarità alle scuole?
Non è forse il secondo un subdolo modo per nascondere la gravità del primo che espropria la scuola del suo ruolo formativo per darlo alle aziende e con esso per dare loro anche i finanziamenti relativi?
No, in Italia la borghesia, gli imprenditori, non hanno mai dimostrato nè la capacità di sviluppare in proprio sistemi scolastici di preparazione tecnica né hanno prodotto una classe dirigente in grado di curare questo aspetto nell’ambito dell’istruzione pubblica, tant’è che più volte l’istruzione tecnica e professionale ne è rimasta fuori. Fino al dopoguerra, perché poi invece l’istruzione tecnica e quella professionale (nata quasi clandestinamente per opera di alcuni dirigenti e funzionari ministeriali e cresciuta all’ombra della prima) sono state, guarda caso, il vettore principale di crescita della scolarizzazione secondaria negli anni sessanta e settanta. Sono state insomma lo strumento fondamentale della scolarizzazione di massa nella secondaria superiore in questo paese, ma lo sono state col limite della casualità, della mancanza di programmazione e dell’astrazione istituzionale rispetto ai processi economici.


Un obbligo scolastico per fare che?

Il secondo handicap: la stessa arretratezza economica che fu causa ed effetto della scarsa capacità scolastica della nostra borghesia nazionale fece sì che lo stesso ceto medio del nostro paese non potesse permettersi studi lunghi.
Applicato su un sistema che prevedeva dopo le elementari strategie educative destinate solo alla riproduzione della classe dirigente ciò ha voluto dire offrire a questa classe sociale solo un percorso interrotto: ne è nato così quel ginnasio dimezzato che quelli della mia età conoscono come la “vecchia” scuola media. Questo spezzone di scuola è diventato successivamente il perno su cui si è stabilizzato il conseguimento reale dell’obbligo scolastico, portato a 14 anni nominalmente da Gentile ma di fatto realizzato solo con la riforma e l’unificazione della scuola media del 1962.
Questo fatto ha più ricadute di quanto si immagini sulle scelte che riguardano la scuola superiore, le scelte degli indirizzi, il modo in cui queste scelte avvengono nonché, naturalmente, sull’obbligo scolastico e sul senso del concetto stesso di obbligo.
Infatti nel resto del mondo quando si parla di scuola media si parla di un percorso di quattro o di cinque anni che arriva fino al quindicesimo (Portogallo, Irlanda, Austria, Svizzera e Grecia) o al sedicesimo anno di età (tutti gli altri paesi europei). In questo modo la fine del ciclo intermedio coincide quasi automaticamente con l’età in cui i ragazzi possono cominciare a lavorare, ovunque fissata a 15 anni.
E coincide anche con la conclusione dell’obbligo scolastico o vi si avvicina molto, tranne per quei paesi, come Germania e Belgio, che l’obbligo lo hanno già portato a18 anni di età.
Questi due fatti messi insieme sono gravidi di conseguenze rispetto al senso della formazione che si attribuisce alle varie fasce di età e al ruolo distinto che vi svolge la scuola rispetto ad altre agenzie formative.
E’ evidente infatti che in base a questa strutturazione fino al quindicesimo o al sedicesimo anno di età non è in discussione il ruolo della scuola. Anche quei sistemi che hanno il difetto di indirizzare precocemente i ragazzi, come quelli di Germania, Austria e Svizzera, lo fanno comunque dentro il sistema scolastico.
La formazione in alternanza o la formazione professionale avvengono ovunque o dopo l’assolvimento dell’obbligo o, nel caso tedesco dove l’obbligo è a 18 anni, dopo i 16 anni di età.
E’ esemplare da questo punto di vista il caso dei nostri vicini svizzeri del Canton Ticino, i quali pure hanno il difetto di avere ereditato dalla tradizione tedesca l’orientamento precoce degli alunni, che avviene nella loro scuola media quadriennale a 12 anni, quando l’alunno deve scegliere tra tre tipologie di bienni finali. Tuttavia gli alunni che, finite le medie, a 15 anni, scelgono la via dell’apprendistato, e sono la maggioranza, si iscrivono in un percorso triennale che prevede ancora un anno di scuola a tempo pieno e due anni affiancati al lavoro con orari scolastici variabili tra le 600 e le 700 ore annue a cui si aggiungono anche ore di formazione professionale.
In altre parole negli altri paesi è abbondantemente superata l’ambiguità tra obbligo scolastico e quello che con un’abile gioco di parole abbiamo chiamato obbligo formativo (noi italiani siamo abilissimi a inventarci formule nuove per vendere prodotti vecchi): nel senso che negli altri paesi fino a 16 anni è indiscutibile il ruolo del sistema scolastico e dopo quell’età è comunque ben fissato pur in presenza di altri soggetti formativi.
Vi è dunque, persino nei paesi che pure separano precocemente i percorsi, l’idea di un diritto dei ragazzi ad andare a scuola fino a 16 anni e a ricevere una preparazione omogenea, se non sul piano dei contenuti ( e dopo le magre figure della Germania nell’inchiesta PISA possiamo dire neppure su quello della qualità), almeno su quello dell’appartenenza al sistema.
Nel caso italiano invece si continua ad equivocare su un obbligo scolastico riportato a 14 anni. E come si può ben vedere la questione dell’obbligo scolastico finisce con l’avere rilevanti conseguenze sul senso stesso degli insegnamenti tecnici e professionali che dopo la scuola media potrebbero almeno teoricamente essere impartiti da licei tecnologici, istituti professionali eventualmente regionalizzati, centri di formazione professionale , corsi integrati tra questi soggetti, iniziative scolastiche in alternanza scuola lavoro, o addirittura dalle singole aziende.
Insomma un po’ troppa confusione per un tredicenne che dovrebbe scegliere come proseguire gli studi!


Un senso diverso o qualche aggiustamento di compromesso?

Dati questi nodi non c’è da meravigliarsi che il lasciarli irrisolti non faccia che aggrovigliare il gomitolo anziché portare a soluzioni convincenti e condivisibili. Ed è quello che sta accadendo.
Il Ministero nel suo disegno bertagnesco ci aveva lasciati con un’idea che prevedeva da un lato un liceo, quinquennale statale e ministeriale a più indirizzi ma comunque concepito tempio del sapere, della teoria, delle conoscenze astratte, e dall’altro un’istruzione professionale regionalizzata triennale o quadriennale regno della pratica, dell’avviamento al lavoro e, per i migliori, di una conoscenza che andrebbe dal particolare al generale.
Per i licei, anche per quelli economici e tecnologici, l’idea del Ministero non sembra molto cambiata.
Per i professionali si è scelto di spacciare per sperimentazione il tappabuco che doveva servire a riempire in vuoto lasciato dall’arretramento dell’obbligo scolastico: sicchè oggi a seconda delle regioni si va dalla promozione della formazione professionale al posto dell’istruzione all’intreccio tra questa e la formazione professionale secondo dosi a loro volta diverse.
Ma l’allarme destato dalla scomparsa dell’istruzione tecnica e professionale statale anche se non ha dato luogo a movimenti visibili come quelli della scuola elementare ha però creato un movimento di opinione dentro le scuole. E se questo non fosse bastato il campanello d’allarme lo hanno dato le iscrizioni: crescono i licei, al punto che tra l’utenza femminile coprono ormai quasi il 50%, calano i tecnici e anche i professionali: per i tecnici si accentua verticalmente una tendenza già presente, per i professionali è una vera e propria inversione di tendenza, i cui prodromi si erano già visti con l’arretramento dell’obbligo.
Ecco allora l’allarme anche tra i sostenitori dell’attuale maggioranza: Confindustria ha cominciato temere di perdere i “gioielli di famiglia”, cioè gli istituti tecnici coevi simbolici dell’espansione industriale nazionale, e ha finito per proporre un liceo tecnologico un po’ meno liceo e un po’ più tecnologico, con questa i dea dei “poli tecnologici” in cui un qualche contentino in termini di vicinanza e di scambio lo potrebbero avere anche i professionali. Ma è indubbio che questi ultimi sarebbero comunque esclusi dal sistema, e qui casca l’asino.
A ruota della Confindustria qualche sussulto di attenzione sociale si è avuto sul piano politico, anche perché le elezioni amministrative ed europee erano alle porte. Si è distinta in ciò Alleanza Nazionale, della provincia di Milano in maniera particolare, dove essa esprimeva sia l’assessore regionale alla formazione professionale, sia l’assessore provinciale all’istruzione, nonché, proveniente da quello scranno, un parlamentare assai attivo sul tema.
Se non che a dimostrare i limiti se non la strumentalità del progetto ( che in concomitanza a quello di Confindustria ha avuto una certa eco sulla stampa nazionale) ci si sono messe proprio le tre fonti di provenienza: tutto il potere al Ministero sembrava dire l’onorevole; tutto il potere alla regione diceva l’assessore regionale; tutto il potere alla provincia diceva l’assessore provinciale ( la quale non deve essere stata molto convincente visto che ha perso il posto).
Il rischio grosso è che anche una volta preso atto dell’improponibilità della radicale separazione proposta dal modello Moratti-Bertagna ci si accomodi su compromessi di organizzazione del sistema o addirittura su compromessi di potere tra stato regioni e province senza affrontare i nodi storici che sono rappresentati dal senso di una formazione omogenea, obbligatoria e scolastica fino ai 16 anni, dal senso del rapporto necessario (e perciò obbligatorio) tra scuola e lavoro dopo i 16 anni, non solo in termini di addestramento a un mestiere o a un ambiente ma anche in termini di conoscenze, di motivazione e di riconoscimenti che spettano a chi entra nel mondo del lavoro dopo una formazione, dal senso di un diritto di cittadinanza che i nostri studenti tra i 14 e i 19 anni sperimentano nella scuola secondaria superiore.


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