breve di cronaca
Il lavoro atipico che fa male alle aziende
Luciano Gallino - 06-06-2004
Su Repubblica del 5 giugno
P.I.


Quarantotto. È una cifra che il neo presidente della Confindustria Luca Montezemolo potrebbe trovar utile inserire tra i temi da discutere da un lato con le imprese, dall´altro con i sindacati. Quarantotto è il numero delle differenti modalità di lavoro atipico che l´Istat ha individuato nel nuovo quadro regolamentare emerso con l´approvazione della legge n. 30/2003 e del suo decreto attuativo n. 276. Ne parla il recente rapporto annuale sulla situazione del Paese. Detto numero vien fuori combinando la maggiore o minore stabilità del contratto, la durata dell´orario di lavoro, la presenza di diritti sociali pieni o ridotti.
Dinanzi a tale proliferazione dei lavori atipici sarebbe agevole riprendere le valutazioni negative che chi considera il lavoro un mezzo insostituibile di crescita professionale e civile, e di solidarietà collettiva per riequilibrare in qualche misura il rapporto di forza altrimenti impari tra il lavoratore e l´impresa, da tempo avanza nei loro confronti. La precarietà del lavoro che diventa precarietà dell´esistenza. L´elevato rischio di entrare nel rango dei lavoratori e dei pensionati poveri. La individualizzazione dei rapporti di lavoro che rende ardua la rappresentanza sindacale; dopodiché si accusano i sindacati di non essere abbastanza rappresentativi del mondo dei nuovi lavori. Ora non v´è alcuna ragione oggettiva per affermare che il presidente della Confindustria debba essere particolarmente sensibile a siffatte valutazioni anche se è dato supporre che Montezemolo lo sia in maggior misura del suo predecessore D´Amato. Il fatto che può interessare il vertice di tale ente è che un numero crescente di imprenditori e dirigenti cominciano a nutrire seri dubbi sulla razionalità economica ed organizzativa della presenza in azienda di lavoratori e lavoratrici inquadrati da dozzine di rapporti di lavoro differenti, tutti diversi dal normale rapporto di durata indeterminata e l´orario pieno.
Alcuni imprenditori e dirigenti hanno preso a fare i conti per stabilire se e in qual misura convenga utilizzare contratti di lavoro atipici sinonimo di occupazione flessibile o precaria. Scoprendo, ad esempio, che il ricorso al lavoro in affitto esteso a gruppi di lavoratori di qualsiasi dimensione, quello che il decreto attuativo della legge 30 chiama, con un termine dal vago sentore medico, "somministrazione di lavoro", può venire a costare assai caro. Infatti la fattura che l´impresa di somministrazione da cui i lavoratori da affittare dipendono presenterà all´impresa utilizzatrice sarà composta, salvo errore, dalle seguenti voci, siano esse esplicite o implicite: il costo dei lavoratori affittati, comprensivi degli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi e assistenziali; il recupero del costo della indennità di disponibilità che l´impresa somministratrice deve pagare ai dipendenti nei periodi in cui questi non sono impiegati presso un utilizzatore, stabilita dal Ministero del Lavoro in 350 euro mensili, più i relativi oneri contributivi; il recupero del contributo del 4 per cento che detta impresa deve versare a un fondo bilaterale costituito tra le imprese di somministrazione di lavoro, destinati a misure di integrazione del reddito dei lavoratori; il recupero delle spese di gestione dell´impresa; più, ovviamente, un equo profitto sul capitale impegnato. Se ne ricava che in totale una simile fattura emessa dall´impresa somministratrice di lavoro a carico dell´impresa utilizzatrice potrebbe costare a quest´ultima, per ogni giornata o mese di lavoro/persona, tra il 50 e il 100 per cento in più del normale costo del lavoro.
Ma ciò che comincia a preoccupare imprenditori e dirigenti non è soltanto la questione dei costi del lavoro atipico. V´è il rischio del caos organizzativo e gestionale che può nascere dalla compresenza nello stesso spazio lavorativo, sia quello di una fabbrica o di un palazzo uffici, di lavoratori inquadrati da dozzine di contratti di lavoro differenti. L´obiezione per cui un´azienda resta libera di scegliere d´impiegare lavoratori con un unico contratto non regge dinanzi alla realtà dell´organizzazione contemporanea della produzione di beni e servizi. Per la maggior parte le imprese hanno realizzato una complessa divisione del lavoro che vede le loro attività produttive affidate per una quota rilevante ad aziende esterne, e per una quota parimenti rilevante ad aziende -i cosiddetti terzisti- che entrano all´interno dei suoi impianti e uffici per lavorare a fianco dei dipendenti dell´impresa motrice. Tra aziende esterne, terzisti operanti all´interno, e dipendenti diretti di quest´ultima, a fronte di una normativa che permette e incentiva quarantotto modalità di contratto di lavoro differenti è naturale che quelle compresenti entro lo stesso spazio, allo stesso momento, siano dozzine. Da qui nasce un incubo per i direttori di produzione, i gestori del personale (o delle "risorse umane", come si dice oggi con un´espressione che Kant non approverebbe), i quadri. Aver a che fare con centinaia di persone che oltre a far capo a decine di aziende diverse sono anche titolari di dozzine di contratti di lavoro differenti, significa infatti aver a che fare con un´infinita varietà di interessi e di atteggiamenti, con conflitti interpersonali e intergruppo, con processi legati all´ininterrotto confronto tra il proprio trattamento retributivo e normativo e quello del vicino. In tale situazione, governare l´organizzazione d´impresa ed i processi produttivi diventa un impegno che perfino Sisifo rifiuterebbe, trovando preferibile il suo.
È risaputo che il proliferare del lavoro precario ha effetti negativi sulla qualità della vita. Nuoce anche alla salute: centinaia di medici e di operatori sociali se ne stanno occupando in varie città italiane. Se poi si scopre che nuoce anche alle aziende, si può intravvedere un interessante tavolo di discussione e contrattazione tra i nuovi vertici di Confindustria, le imprese e i sindacati.
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