A chi non funziona l'orologio?
Alberto Biuso - 05-02-2002
NOTE SULLA RIFORMA

Una premessa è necessaria: non ho mai condiviso la frenesia riformatrice applicata all’ambito educativo. Non perché la scuola non debba adeguarsi di volta in volta ai cambiamenti complessivi delle epoche in cui opera ma perché in Italia il riformismo più che un fatto è diventato una vera e propria ideologia, la quale ha come fondamento un’equazione tanto ingenua quanto errata (e anche pericolosa) che fa coincidere il Nuovo con il Bene.
Se, comunque, una riforma radicale della scuola in Italia è davvero indispensabile, a me sembra che la proposta Bertagna sia stata una buona base di partenza e che la Legge delega approvata dal governo l’abbia in parte peggiorata e in parte no. Una valutazione, questa, che si basa su elementi sia di metodo che di merito.

Fra i primi:
1. Il Gruppo ristretto di lavoro (Grl) ha ascoltato veramente associazioni, docenti, intellettuali di provenienza ideologica e culturale anche assai diversa. Mentre le commissioni incaricate da Berlinguer furono tanto pletoriche quanto formali e sostanzialmente omogenee, i gruppi focus hanno visto una reale e vivace discussione e partecipazione. Basti pensare che organizzazioni come il Cidi o l’Unione degli studenti hanno potuto esprimere con libertà tutte le loro critiche.
2. Al di là degli aspetti enfatizzati o manipolati dai media, anche gli Stati Generali hanno rappresentato due giorni di dibattito reale e pluralistico. Ad esempio: due studenti chiaramente ostili alla riforma hanno avuto l’opportunità di parlare, per almeno trenta minuti ciascuno, a cinque metri dal Ministro, e di dirgli in faccia tutto il male possibile sulla sua riforma ma i giornali hanno dato notizia solo delle urla e degli spintoni.
3. Nella pagine finali della Sintesi del Gruppo ristretto di lavoro si trova una tabella riassuntiva delle Raccomandazioni con l’indicazione di quali abbiano goduto del consenso dei gruppi interpellati e quali no. Più in generale, l’intero documento non nasconde nessuna delle difficoltà incontrate ed enumera anche le possibili alternative alle proposte del Grl.

Per quanto riguarda il merito della proposta (e anche qui assai sinteticamente):
1. Uno dei nuclei forti del progetto Bertagna è l’attivazione in Italia –finalmente!- di una seria formazione professionale che possa rappresentare nello stesso tempo una concreta soluzione al problema della dispersione scolastica e uno strumento di formazione e di qualificazione di attività economicamente e socialmente indispensabili. Quando si fa il confronto fra il numero dei diplomati italiani e, ad esempio, quelli tedeschi si tace sulla circostanza che la gran parte di questi ultimi esce da istituti professionali e non da licei. Le vibrate proteste su tale punto mostrano il permanere –soprattutto fra organizzazioni e docenti che fanno riferimento alla Cgil e ai DS- di una mentalità gentiliana nel senso deteriore del termine: un atteggiamento sprezzante nei confronti del lavoro manuale, della operatività, del fare. Quanto alle accuse di discriminazione sociale, poi, si sfiora il ridicolo se si pensa che un diplomato cuoco ha la prospettiva di guadagnare –se bravo- anche più di cinquemila euro al mese. Quale docente laureato può aspirare a tali cifre? Più in generale, da ciò che vado leggendo ho la sensazione che molti interpretino questa riforma come se dagli anni Sessanta a oggi la composizione dei ceti che formano la società italiana non sia cambiata radicalmente; come se fosse ancora ragione di prestigio sociale diventare insegnanti o impiegati; come se un qualunque artigiano non guadagni cifre che ammontano ad almeno il triplo di quelle percepite da molti laureati; come se nelle aziende agricole di tutta Italia (compresa, ipotizzo, Barbiana ma lo so per certo della Sicilia…) chi “zappa” (metaforicamente, ormai) non goda di un livello di agiatezza pari a chi “va all’università”; come se il ceto medio non si sia esteso e l’intera popolazione urbanizzata. E invece no: la fede impone di leggere la realtà con schemi del tutto anacronistici ma che ricordano il tempo in cui si era giovani e si “lottava”…
2. Dal punto di vista della qualità dell’insegnamento, è assolutamente condivisibile –sempre che si riesca davvero a realizzarla- la riduzione del numero delle materie per corso e dell’orario settimanale complessivo. Gli istituti italiani, infatti, sono gravati da un numero eccessivo di ore e da una varietà disordinata di materie mentre è preferibile studiare bene poche discipline e che i ragazzi abbiano il tempo di rielaborare a casa quanto apprendono a scuola. Inoltre, in nessuna parte dei documenti del Grl si accenna all’ipotesi eliminare il latino dallo Scientifico e la matematica dal Classico. Durante gli Stati Generali tali voci sono state recisamente ed esplicitamente smentite.
3. Anche la creazione di Laboratori, nei quali affrontare discipline come le lingue, l’informatica o le attività motorie, mi sembra coerente con l’obiettivo di un apprendimento migliore e differenziato. Sappiamo tutti, infatti, che in queste materie gli allievi presentano una condizione di partenza diversificata che rende spesso noioso o inefficace l’insegnamento comune nelle classi. I Laboratori –che ricordiamo «nell’accezione del Grl sono uno spazio didattico che per gli istituti è comunque obbligatorio istituire, da soli o in collaborazione tra loro, mentre gli studenti e le famiglie decidono se, quando, come ed eventualmente in quale scuola ne vogliono usufruire» (Documento di Sintesi, pag. 18)- potranno costituire una soluzione adatta a garantire nello stesso tempo il diritto di tutti senza però appesantire inutilmente il monte ore settimanale.
4. C’è un elemento della proposta Bertagna che merita da parte di chi insegna un’attenzione tutta particolare poiché rappresenta una svolta in positivo per la professionalità docente e, di conseguenza, per un reale miglioramento della qualità dell’istruzione. Come molti docenti e organizzazioni vanno sostenendo da tempo, il Grl raccomanda che l’abilitazione all’insegnamento venga conseguita non mediante un diploma triennale ma tramite un titolo quinquennale ottenuto «su un arco di 300 crediti universitari (CFU) e che, alla fine di questi percorsi, si acquisisca una laurea specialistica abilitante all’insegnamento in una specifica scuola e, se di grado secondario, in una specifica classe di concorso» (Documento di Sintesi, pagg. 33-34). Si tratta di un riconoscimento della centralità della funzione docente di notevole significato culturale e pedagogico. Più in generale, questa proposta delinea una figura docente incentrata prima di tutto su una solida conoscenza della disciplina che si insegna e solo dopo sulle metodologie didattiche più consone alla sua trasmissione. Va, insomma, nella direzione da molti di noi auspicata di un docente-intellettuale che faccia ricerca e non di un passivo ripetitore di nozioni o di un assistente sociale/intrattenitore generico. «L’insegnamento, infatti, è un’attività specifica che, per poter essere esercitata, va studiata con le sue peculiari regole metodologiche e la sua complessa natura epistemologica. In questo senso, è, per esempio, sotto numerosi punti di vista, analogo alla medicina e, soprattutto, alla clinica. (…). Il docente delle scuole di ogni ordine e grado è chiamato (…) ad essere non soltanto un ricercatore sull’insegnamento e dell’insegnamento che gli è affidato (il “professionista riflessivo” che connette teoria, tecnica e pratica), ma anche un ricercatore sul e del sapere epistemico che è chiamato poi a trasformare, con appositi mediatori didattici, in apprendimento degli allievi» (Rapporto finale del Grl, pagg. 73-75). Se la questione scuola coincide in gran parte con la questione docenti, si tratta di un elemento fondamentale e forse troppo trascurato dal dibattito in corso.
5. Per settimane si è dibattuto e polemizzato su un punto chiave: la riduzione della secondaria a quattro anni. Come si vede, il quinquennio è stato mantenuto e di ciò non si può che essere soddisfatti, soprattutto se si ricorda che la riforma Berlinguer manteneva solo nominalmente una secondaria quinquennale, riducendola di fatto a tre anni come effetto del biennio unico per tutti e della sua funzione esclusivamente orientativa. La proposta Bertagna e le successive modifiche incaricano dell’orientamento gli ultimi due anni di scuola media. E ciò dopo aver ripristinato la coerenza del ciclo di base e aver risolto il grave problema dell’onda anomala. Nel complesso, non è poco. Al di là dei velleitarismi riformistici di ogni colore, lo schema 5-3-5 rimane il più adeguato a seguire i ritmi di crescita delle persone. Non si può che condividere il suo ripristino.
6. Più fondate mi sembrano le critiche rivolte all’uso di una Legge delega su tematiche scolastiche. Fra le ragioni di questa scelta c’è probabilmente anche il tentativo di evitare l’opposizione interna dei cattolici del Polo, i quali respingono soprattutto la possibilità di sottrarre il monopolio –o quasi- della scuola materna alle istituzioni religiose. Che però anche dei “laici di sinistra” critichino la novità costituita da un miglioramento dell’offerta pubblica nel settore della scuola dell’infanzia mi risulta incomprensibile se non alla luce di una opposizione preconcetta.
7. L'unico elemento davvero inaccettabile di questa riforma NON è stato proposto dalla commissione Bertagna ma (et pour cause...) da esponenti del governo: le bocciature ogni due anni. Una vera assurdità per almeno le seguenti ragioni, che traggo da un documento del PRISMA: A) si viene respinti alla fine di un biennio, ma poi se ne ripete solo il secondo anno: come si recuperano le carenze del primo? B) la massima percentuale di respinti si ha in corrispondenza del 1° e 3° anno superiore, cioè proprio laddove diverrebbe impossibile bocciare. Questa prevalenza non è casuale, infatti C) all'inizio degli attuali biennio e triennio si pongono le basi di nuove discipline, perciò sarebbe inutile far ripetere un 2° o un 4° anno quando sono in genere proprio le basi del 1° e del 3° a mancare ad un ragazzo e ad impedirgli di procedere; D) inoltre chi viene fermato al primo superiore può ben pensare di cambiare indirizzo riprendendo gli studi dal primo anno, già al secondo, però, la cosa diventa più difficile. Chi protesta contro la riforma in nome –ad esempio- dei princìpi espressi nella Lettera a una professoressa sembra però non rendersi conto che questa riforma sembra voler realizzare uno degli obiettivi massimi del Priore: l'eliminazione delle bocciature. Mi viene in mente Hegel e la sua eterogenesi dei fini.

Alberto Giovanni Biuso
biusoal@mclink.it
http://web.tiscali.it/Filosofia/





interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Vittorio Todisco    - 10-02-2002
Al collega Alberto Biuso invio questa e-mail che la dice lunga sui problemi dell'insegnamento, in particolare sul latino, che è visto da qualcuno come una materia inutile o da elite.

Sono coordinatore di una mailing list (non profit) di Latino, ospitata da YAHOO.COM, e di queste lettere ne ricevo in continuazione. Il collega scrive cose in genere sensate, ma alquanto settoriali. Spero che riesca a trovare il giusto equilibrio nella valuitazione sulla scuola.

Cordialmente,

Vittorio Todisco

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Subject: [Latino_ontheNet-B] Salve a voi tutti
Reply-To: Latino_ontheNet-B@yahoogroups.com


Ho lasciato lo studio del latino anni fa...cosa assurda, se si pensa
che insegno! Questo la dice lunga sulle condizioni della scuola
italiana, visto che oggi, infatti, ci avviamo all'acquisizione di una
mentalità da mercatino prontamente spendibile, a partire da banchi e
cattedre!
Questo per dirvi innanzitutto: grazie per esserci! Spero di
riprendere lo studio del latino appena posso (non ricordo più
niente), e tornare, così,a fare palestra colla mente!


Saluti a tutti!



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 Eleonora    - 10-02-2002
Ma ci stai o ci sei? Non sono neanche riuscita a finire l'articolo perchè mi sembra proprio che le tue siano valutazioni di chi, comunque proviene da una scuola che può permettersi di considerare solo l'aspetto economico dell'istruzione e della formazione . E non mi venire a dire che si combatte la dispersione scolastica in questo modo!!! Mi sembra che a tutt'oggi ci siano le scuole professionali, ma non per questo la dispersione scolastica è diminuita. Forse la riflessione deve andare nel senso di un maggior rispetto delle possibilità dell'individuo e nell'obbligatorietà della scuola per tutti. Una scuola però che non giri a velocità diverse a seconda dell'interesse dell'economia, ma che rispettando le diversità fornisca, finalmente, una cultura che permetta di sviluppare non solo conoscenze ma competenze intellettuali e capacità di lettura della realtà in modo critico.