La Poderosa
Marino Bocchi - 22-01-2004

Chi si mette in viaggio, veramente in viaggio, non ritorna. Perché chi ritorna dopo un viaggio, un vero viaggio, non è la stessa persona che ha deciso di partire. La linea di confine che separa i due individui, il prima e il dopo, è variabile e provvisoria, e legata alle circostanze. Ma c’è sempre un punto sulla cartina, un luogo emotivo e geografico, in cui l’uno scompare e l’altro viene al mondo. I grandi narratori di viaggio, propri o altrui, lo hanno sempre saputo. E raccontato. Vissuto. Perché un viaggio intanto lo si vive subendolo, nel senso in cui San Paolo nella Lettera ai Romani racconta del viaggio della Grazia. “Sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano. Mi sono rivelato a quelli che non si rivolgevano a me”. Per cui la lunghezza o la durata non influiscono. Né conta il momento o l’ora. O forse contano moltissimo ma solo nei disegni imperscrutabili del Viaggio, ignoti al viaggiatore. Il desiderio di essere cercati era fortemente inscritto nell’animo dei mitici protagonisti del Grand Tour. Ma le intenzioni non salvano, come le buone azioni nella teologia paolina. E molti di loro ritornarono. E pochi si persero. E altrettanto pochi furono quelli che rinacquero. Non ci riuscì Hans Castorp sulla montagna incantata. Molti secoli prima c’era riuscito Ulisse, nel viaggio che è l’archetipo di tutti. Ci riuscirà nuovamente Hermann Hesse nel pellegrinaggio in India. La distanza non conta, né l’intenzione né l’ora. Altrimenti saremmo ancora il popolo dei santi e viaggiatori ed eroi delle antiche favole. Chi va a farsi la vacanza esotica non perde mai di vista se stesso, non si perde. Dunque, a rigore, non viaggia. E’ come se fosse rimasto sempre allo stesso punto. Sull’uscio di casa, con la valigia in mano.

Quando Francesco incontrò il lebbroso, da facoltoso giovane quale era, stava percorrendo le vie della sua Assisi. Racconta il Celano:”Fra tutti gli orrori della miseria umana, Francesco sentiva ripugnanza istintiva per i lebbrosi. Ma, ecco, un giorno ne incontrò proprio uno, mentre era a cavallo nei pressi di Assisi. Ne provò grande fastidio e ribrezzo; ma per non venire meno alla fedeltà promessa, come trasgredendo un ordine ricevuto, balzò da cavallo e corse a baciarlo”. Pochi metri dall’abitazione paterna. Ma quel breve tragitto fu il Viaggio. E il padre rivide un ragazzo che non era più suo figlio.


Quando Ernesto Guevara e il suo amico Alberto Granado incontrarono i lebbrosi della foresta amazzonica, erano al culmine di un viaggio che per migliaia di chilometri li aveva condotti ad attraversare le sofferenze e le ingiustizie di un continente dominato da oligarchie assassine. Il Che aveva 23 anni e gli mancavano tre esami per diventare medico. Granado era un biologo. Partirono nel dicembre del ’51 a bordo della Poderosa, una vecchia Norton 500. Quando dopo otto mesi la Poderosa giunse a Caracas portava due giovani sconosciuti, molto diversi dagli altri due che erano partiti dall’Argentina. Come il padre di Francesco, l’aristocratica fidanzata del Che si troverà di fronte un estraneo che si presentava con lo stesso nome ma che non era lui. Altri viaggi lo attendevano, adesso che aveva visto, adesso che aveva capito, adesso che aveva trovato il suo posto nel mondo. Perché il viaggio, quando è veramente un viaggio, ti aiuta a trovare proprio questo: il tuo posto nel mondo.

Sul viaggio dei due amici hanno fatto un film, un bel film. E’ stato recentemente presentato nella più bella rassegna internazionale del genere, il Sundance Film Festival. Si intitola Diari di motocicletta ed è prodotto da quel grande libertario che si chiama Robert Redford, dopo che la Rai ha rifiutato di finanziare il soggetto tratto dal diario del secondo viaggio di Guevara, i cui diritti per il film Gianni Minà aveva ottenuto dalla vedova 11 anni orsono. Ad Alberto Granado, che oggi ha 83 e vive a Cuba, il governo americano ha negato il visto d’ingresso. Giustamente il regista dell’opera, il brasiliano Walter Salles, definisce il viaggio di Ernesto e Alberto un “passaggio iniziatico”. Ogni vero viaggio lo è. Sia che ad agire sia la grazia divina o quella rivoluzionaria. Nel senso neutro del termine. Rivoluzione in quanto ribaltamento della propria visione del mondo. Restituzione all’uomo della dignità e profondità di sentire, vivere, vedere. Di indignarsi e ribellarsi.

Questo film e questi riferimenti al viaggio, pochi e frammentati, mi sono venuti alla mente leggendo su Fuoriregistro le cronache del viaggio in India, per il World social Forum, di Espo, Kekko, Robi, Samantha, Mauri e Gianmario. In particolare, quando ho letto le parole: “E’ il pianeta di una miseria che non si riesce ad immaginare né a descrivere, ma che bisogna vedere direttamente da un finestrino per capire che esiste veramente e che non è il frutto di qualche esagerata allucinazione. In macchina si percorrono strade che sembrano gironi infernali, nei quali la povertà si acuisce sempre di piu` avvinghiandosi su se stessa senza termine, fino a quando a porre una fine arriva semplicemente la morte per strada

Perché c’è in queste parole e nelle altre che seguono tutta la sostanza del viaggio, quando è veramente un viaggio. In queste parole, che tanto assomigliano a quelle che i ricordi del Che e di Alberto ci hanno lasciato. Probabilmente questi ragazzi, forse non tutti propriamente ragazzi, vengono da altri viaggi simili, da altre morti e rinascite. Ma quando torneranno in Italia, i loro amici vedranno degli sconosciuti. Degli stranieri. Perché hanno visto. E sarà bello abbracciare lo straniero che ha visto.

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