Varna
Marino Bocchi - 20-09-2003

Il veliero beccheggia lungo il canale della città mercantile del nord. A prua è rimasto solo il capitano, legato da una fune al timone, impostato sulla rotta. Il vecchio ha il volto livido, gli occhi spalancati a trattenere l’ultima espressione di terrore e sgomento. Il registro di bordo reca le tracce del mistero ma non ne offre la chiave… Dalla partenza da Varna un’inspiegabile epidemia sta decimando, uno per uno, l’equipaggio……Sembra che una misteriosa presenza si aggiri di notte sul ponte….. Sono l’unico sopravvissuto…vento calmo, mare tranquillo . Altro non v’e’, è l’ultima nota.

La quieta e ricca città borghese sbriga le sue ordinate faccende. I benestanti signori si aggirano lungo i viali, e a passeggio sul mare. La giovane moglie sviene fra le braccia del cognato. Da notti e notti la perseguitano immagini di pipistrelli in volo. Da molti giorni il marito è partito per una missione sui Carpazi. Incaricato di sbrigare la vendita di una casa presso un certo Conte. Sviene di nuovo quando lo vedrà ricomparire accompagnato da una carrozza: è molto malato ma gli occhi non sono più gli stessi. Sono gli occhi di chi ha conosciuto Nosferatu.

Ho visto Varna una sola volta, l’anno della morte di Moro. Antica e bella città spenta, adagiata sul grande porto, navi sovietiche all’ancora, enormi albatros a sorvolo basso sui tetti e panciuti passerotti a beccare le briciole residue sui tavoli all’aperto, che i camerieri sgombravano a ritmi lenti, come a rispettare il pasto degli uccelli. Ero arrivato sul Mar Nero dopo aver attraversato la Jugoslavia e una sosta a Sarajevo, che era uno splendido fiore di tanti petali chiazzati di mille suoni, profumi e cangianti evanescenze come gli abiti degli zingari dell’accampamento alto sui monti di Mostar.


Lo sguardo degli slavi non è lo stesso nostro. E’ irregolare e profondo, curvato ad ellisse. Figura geometrica inquietante, per la visione europea occidentale, in cui dominano e il cerchio e la linea retta. Ed è insolito e raro che un qualche figlio del falso umanesimo accademico, istituzionale e scolastico di cui parlava Pasolini, riesca a cogliere questo sguardo e descriverlo. A me vengono in mente solo le immagini del vero umanesimo: di Clavdia sensuale e tenebrosa nella Montagna incantata di Mann e della opalescente fanciulla rievocata da Claudio Magris in Danubio. Pur nella sua smania fagocitante, neppure il barocco è riuscito a dominare l’ellisse, a ricondurla all’ordine simmetrico della tradizione. Sfuggente per definizione alla regola, essa ha trovato nel genio di Borromini l’unico suo fedele interprete da noi. Ma Borromini, che è morto come è morto, venne tumulato sotto una modesta lapide. Come a rimuoverlo, ad occultarne la presenza. E l’ellisse prima il manierismo e poi, all'epoca di Borromini, il barocco latino cercarono anche per questa via di normalizzare.


E’ in ricostruzione il ponte di Mostar, distrutto dai civilissimi e cattolicissimi croati nel ’93. Un ponte a curva d’asino è anche sul sentiero che il manager, oggi diremmo, della mercantile città del Nord deve percorrere per raggiungere il castello diroccato del Conte. Lo accompagna l’ouverture de L’anello del Nibelungo. E la musica di Wagner, su quel panorama maestoso di cascate e cime di ghiacciai, sembra in contrappunto anticipare, di quel percorso, la direzione e, molto più lontano nel tempo, i fatti che a più largo e tragico raggio coinvolgeranno nella nichilistica distruzione un intero continente. A nulla sono valse le sagge raccomandazioni a non proseguire del popolo mescolato di slavi e zingari presso la cui locanda l’uomo che viene dall’Europa mercantile ha soggiornato, la notte prima.

Il Conte è l’ultimo erede di una dinastia di uomini feroci che al servizio della Croce hanno scannato, squartato, impalato gli invasori della mezzaluna . Sia nella versione di Murnau che in quella altrettanto bella che Herzog ricalca tranne che nel finale colpisce, anche del Conte, lo sguardo. Più dei due canini pronunciati, delle unghie affilate e del bavero rialzato sull’abito nero. E’ uno sguardo questo in cui l’inespressività delle orbite esprime il nulla antico da cui proviene, le infinite generazioni che lo hanno prodotto e tramandato, a calpestare e sommergere e lavar via popoli e umani volti ed occhi disposti ad ellisse. Perché il Conte non ha patria. Non ha età. Da sempre vive. E fatale e necessario è l’incontro con l’uomo aduso ai negozi, agli affari. Fatale intreccio tra arcaico e moderno.


Balcani, balcanizzazione…..E vampiri, succhiatori di sangue…E’ stupefacente il linguaggio con cui si cerca di dare un volto e un nome ai mostri che creiamo, come se avessero un altro luogo d’origine che non è il nostro. Come se il Conte non fosse la faccia più subdola e occulta del Potere, la più pervasiva, quella che abbiamo interiorizzato. Che ci appartiene tanto più profondamente quanto più fingiamo di essere diversi e collochiamo il Male in un altrove temporale, spaziale, culturale. Processo tipico di ogni civiltà in quanto Civiltà, di ogni tradizione in quanto Tradizione. Altrimenti perché l’uomo civilizzato, l’uomo europeo, assalirebbe un campo nomadi della periferia di Napoli, bruciando le povere tende o, nella quieta, ricca e ordinata città del Nord Italia, a Verona, circonda e minaccia un asilo nido dismesso che serve da misero rifugio d’emergenza per famiglie di donne e bambini zingari e l’amministrazione progressista scende a patti e la vicenda non muove a scandalo, non indigna? E, all’opposto, ci si affanna dappertutto in zuffe su dissertazioni fasulle? E i tiranni o gli aspiranti tiranni sono eletti democraticamente? E la sopraffazione è blandita, l’inganno della memoria assecondato, la volgarità premiata, l’orrore rimosso?

L’uomo che ha incontrato lo sguardo del Conte, che ormai e’ il suo sguardo, osserva il salotto sulla cui poltrona è seduto. E’ giorno fatto. Il canto mattutino del gallo ha spezzato la vita del mostro, illusione della luce che ha valicato la notte. Ma invano è stato il palo aguzzo che gli ha trafitto il cuore. Vano il sacrificio della moglie che ha trattenuto il Vampiro fino all’alba e dell’amico che ha seguito il rituale antichissimo per sbarazzarsi, e per sempre, di lui e che ora è inquisito per omicidio. L’uomo si alza, in un balzo scavalca il cerchio magico, illusorio pure questo, delle ostie spezzate che cingono la poltrona. Simboli vani di una Croce verso cui si atteggia il sorriso beffardo del Semprevivo. “Si vede che i singhiozzi di suppliziati e martiri/sono una ben soave sinfonia/se, a dispetto del sangue che la paga,/mai si stancano i cieli di questa voluttà”. Come scrisse Baudelaire.

Nosferatu il Maimorto è ormai pronto a riprendere il viaggio, verso l’infinito Deserto che lo attende, sulle note di un Requiem.
“Lasciate che le diligenti indagini seguano il loro corso. E portatemi il mio cavallo. Avrò molto da fare. Ora”.


VOLI
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