L'isola di Tycho
Marino Bocchi - 13-09-2003

"Siccome non avete nemmeno chiesto le cose che gli altri bramano e per le quali lottano, io non so cosa pensiate o perché non vi decidiate in fretta. ... e sospetto che non vogliate accettare un grande castello come segno del favore regale perché gli studi che vi appassionano sarebbero disturbati dagli affari esterni".

Non restava che un luogo isolato, attraversato dai rapaci, circondato da inaccessibili scogliere.

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“Nel 1572 una nuova stella, una supernova, si accese nella costellazione di Cassiopea.
Fu Tycho Brahe, l' astronomo danese inventore del sestante, a osservarla: "Non è situata nelle regioni superiori del cielo sotto l' orbita lunare, né in nessun altro spazio più vicino alla terra". Brahe fece così vacillare uno degli assiomi fondamentali della visione aristoteliana, quello dell' immutabilità celeste” (Repubblica, 2 aprile 2000).




L’isola di Hven, nel Mar Baltico, venne concessa dal re di Danimarca Federico II a Tichone (così il nome era volgarizzato in Italia) perché potesse condurvi le sue ricerche senza essere disturbato “dagli affari esterni”. Oltre ai meriti scientifici, Sua Grazia riconosceva a Tycho gli altri servigi resi, fra cui il reclutamento in tutta Europa di artigiani, pittori e scultori per la nuova reggia di Elsinore, dove il sovrano stava costruendo il castello di Kronborg, in cui Amleto di lì a poco tempo avrebbe interpretato la tragedia moderna della disarmonia..



Ma Tycho non era solo un anti-aristotelico. Al contempo era un convinto, tenace avversario delle idee nuove. Fu un osso duro per i copernicani, da Keplero a Galileo che percorrendo diverse vie e ipotesi, erano però entrambi impegnati a dimostrare la teoria di fondo dell’astronomo polacco, l’eliocentrismo, la quale all’origine presentava più di un requisito di ingenuità e molte carenze di ordine scientifico. Tanto più duro allora si rivelava Ticho, perché fondava le sue analisi sull’osservazione e su rigorose, implacabili, confutazioni.


“Su questa isola povera, dalle alte coste, popolata da una cinquantina di famiglie, sarebbe nato "un magico talismano dell' universo, un giardino degli dei, abitato da semidei che potevano penetrare tutti i segreti dei cieli e della terra, muoversi attraverso le sfere, cambiare il mondo, e ricreare l' Età dell' Oro in cui il mondo era giovane e "amor" era manifesto" (Repubblica)



La pietra d’angolo di Uraniborg, il Castello di Urania, fu posata l’otto agosto del 1576, alle otto del mattino, “quando il sole che si levava con Giove era nel leone e la Luna era nei cieli occidentali in Acquario”, secondo le parole con cui Tycho descrisse la cerimonia. L’altro osservatorio costruito sull’isola fu quello di Stjärneborg (il castello delle stelle). Al sublime, mistico e scientifico compito di “penetrare i segreti divini della natura” furono chiamati astronomi, matematici, medici, filosofi. Grandi menti, ma non solo.


“Riuscire a farne parte divenne per gli studenti di Copenhagen più importante che vincere una borsa di studio” (Repubblica).

Il legame che univa questa famiglia era l’amicitia, il vincolo d’amore che nella visione di Marsilio Ficino crea “un legame divino fra le persone unite dalla stessa tensione intellettuale”.





La consapevolezza dello strappo nel cielo di carta da cui, come uno spiffero maligno, la dissonanza, lo squilibrio, la frammentazione etica e speculativa si installano nella coscienza moderna e la costringono ad un destino di insensatezza e infelicità, non induce alfine Mattia Pascal a compiere il passo estremo e conseguente, quello che separa la vita falsa e inautentica - ma socialmente accettata - dalla vita autentica - ma confinata ad uno spazio di solitudine e infamante condanna - : la follia, vera o simulata. Lo avrebbero compiuto I fisici di Dürrenmatt , simulando la pazzia per sfuggire alla responsabilità di distruggere il mondo legata alle loro scoperte. Lo compì, quel passo, Vitangelo Moscarda, ritrovando l’armonia mundi, “l’amor manifesto” che lega le varie parti del cosmo , a prezzo della esclusione dal consorzio umano, rinunciando al sé e al proprio ruolo nella storia .



Vitangelo Moscarda e’ il modello letterario a cui, secondo Leonardo Sciascia, si ispira la vicenda enigmatica di Ettore Majorana. Era un genio come Galilei o Newton, disse di lui Enrico Fermi.

La sua misteriosa scomparsa nel 1937, organizzata, programmata, dice Sciascia, apposta per creare la fallace impressione di un suicidio, è stata la rinuncia a quel destino. Un giorno di tarda primavera, si presentò in via Panisperna con la formula del nucleo fatto di protoni e neutroni scritta su un pacchetto di sigarette, che buttò nel cestino. Sarebbe stata, in anticipo su tutti gli altri (e su Heisenberg, in primo luogo, che ufficialmente la rese nota), la gloria, la potenza accademica, il Nobel. Nel contempo, Majorana sapeva anche che quello era il primo anello della catena che avrebbe condotto alla bomba atomica. Sarebbe stato un eccellente ed entusiasta scopritore sull’isola di Tycho, quando la scienza era davvero pura, il pensiero limpido nel senso che non rispondeva ad una logica di dominio. Sparì una notte di marzo, lasciando due lettere in cui annunciava di volersi togliere la vita. Ma molti e probanti indizi vennero poi a dimostrare che seguì un’altra sorte, forse terminando la sua esistenza in un convento.


Solo chi crede nell’idiota idea di progresso può pensare che sia dovere dello scienziato o dell’intellettuale in genere prostituirsi alla retorica della inesorabilità dello sviluppo tecnico-scientifico, con le sue formule date, le sue imprescindibili costrizioni, per quanto distruttive e comunque sempre provvisorie. Ma l’angelo della storia ha lo sguardo rivolto all’indietro, ad osservare un panorama di macerie. Dove però, per chi sa guardare, si celano anche le possibilità interrotte, i fili spezzati da riprendere, i sentieri su cui tentare di nuovo il cammino. Verso la libertà. Un ritrovato equilibrio. Una ricomposta armonia.


“Una sera, a Palermo, parlavamo della sua misteriosa scomparsa con Vittorio Nisticò, di­rettore del giornale L'Ora. Improvvisamen­te, Nisticò ebbe un preciso ricordo: giovanissimo, negli anni della guerra o dell'immediato dopo­guerra, insomma intorno al 1945, aveva visitato, in compagnia di un amico, un convento certosi­no; e ad un certo punto della visita, da un fra­tello……avevano avuto la confidenza che nel convento, tra i padri, si trovava un grande scienziato.
Ad aver conferma della giustezza del ricor­do, subito telefonò all'amico che l'aveva accom­pagnato in quella visita. L'amico confermò, pre­cisando che il “fratello” da cui avevano avuto quella confidenza era nipote dello scrittore Ni­cola Misasi.
Ma l'essere Nisticò giornalista gli fece presumere che cercasse qualcosa di più at­tuale, qualcosa di cui più recentemente si era parlato, che non la traccia di quello scienziato di cui trent'anni prima aveva loro parlato il nipote di Misasi.



E aggiunse perciò che si diceva sì, ma cosa certa non era, una voce, una diceria, che nel convento, in quel convento, fosse stato o ancora si trovasse uno dell'equipaggio del B-29 che ave­va sganciato su Hiroshima l'atomica……Assurdo e mistero in tutto, Giacinta: dice il poeta José Moreno Villa. In tutto è invece ra­zionale mistero di essenze e rispondenze, con­tinua e fitta trama - da un punto all'altro, da una cosa all'altra, da un uomo all'altro - di significati: appena visibili, appena dicibili"


(Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana, Adelphi, pagg. 91-93)


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