8 settembre 1943
Grazia Perrone - 04-09-2003
Fine della Patria o nascita dello Stato democratico?


(…)”Al centro del mio interesse – scrive
Alessandro Natta
[1] non si poneva (…) l’indagine del crollo catastrofico dell’8 settembre anche se quel tornante tra la caduta abissale e dissolutrice dell’esercito e dello Stato (…) sta all’origine di tutto il percorso di fatti e di idee che trasformerà l’internamento (…) in una oscura, ma generosa e nobile impresa politica (…)”. Se nel dopoguerra – prosegue Natta esprimendo un importante giudizio storico e politico – (…)”il reinserimento nella vita civile di centinaia di migliaia di reduci non ha costituito un problema politico, se non sono stati scavati solchi tra internati e partigiani (…) ciò è avvenuto perché, in Italia e in Germania, tanta parte delle giovani generazioni ha avuto l’ardimento e la determinazione di combattere per la causa giusta, con le armi e la non collaborazione, con la condanna e la ripulsa del nazismo e del fascismo (…)” [2].


L’otto settembre 1943, è una data fatidica per il nostro Paese poiché non solo rappresenta l'annuncio ufficiale dell'armistizio con gli Alleati e della fine dell'alleanza politica e militare con la Germania nazista, ma anche la data della dissoluzione dell'esercito italiano e della cattura di centinaia di migliaia di militari, a causa della mancanza di precise disposizioni da parte dei Comandi militari.


L’otto settembre rappresenta la data dei primi, sporadici, episodi di Resistenza contro i tedeschi (a Barletta, Bari, Roma, Cefalonia, Corfù, in Corsica, nell'isola di Lero …) ad opera dell’esercito regolare coadiuvato – in alcuni casi – da civili armati ma, anche, la data della precipitosa fuga del Re e dei membri del governo Badoglio a Brindisi (senza un piano di emergenza e senza disposizioni ai militari rimasti a presidiare la Capitale), che però servì – secondo l’opinione di alcuni storici - ad assicurare la continuità politica dello Stato italiano nelle regioni liberate del Sud. C'è chi, come Ernesto Galli Della Loggia, a proposito dell'otto settembre, ha parlato di "morte della Patria", e chi, come il Presidente Ciampi, ha replicato – a parer mio giustamente - che quel giorno è morta una certa idea di Patria, quella autoritaria, antidemocratica e fascista, e ne è nata un'altra, quella repubblicana e democratica.
Ma, proprio in virtù e sostegno di quest’ultima tesi, vi è – a parer mio - un’altra data fatidica da ricordare e … rivalutare.

Il 25 luglio 1943: ovvero la caduta di Mussolini e del fascismo avvenuta in seguito all’approvazione – operata dal Gran Consiglio fascista - dell’ordine del giorno Grandi che “sfiducia” Mussolini. Ordine del giorno in seguito al quale il Re convoca il dittatore a villa Savoia e – dopo averlo licenziato – lo fa arrestare. Quello stesso giorno il maresciallo Badoglio – in qualità di nuovo capo del Governo – formula un enigmatico messaggio nel quale proclama, da un lato, la fine del fascismo, dall’altro, il proseguo della guerra a fianco della Germania.


La nuova leadership politica incarnata da Badoglio, dunque, non sembra tenere in alcuna considerazione il fatto che la guerra – nel Paese – era un “evento” tutt’altro che popolare. Alla, iniziale, rassegnazione seguita all’annuncio “dell’ora fatale segnata dal destino” fece seguito – a poco a poco – un diffuso malcontento [3] che investiva tutte le classi sociali. A cominciare da quelle popolari chiamate a pagare il prezzo maggiore - in termini di fatiche, privazioni e sangue – della guerra e che trovò la sua espressione più clamorosa negli scioperi spontanei contro la guerra - marzo 1943 – nelle fabbriche delle grandi città del nord già martoriate dai primi bombardamenti. In questo contesto di dissenso sociale sempre più palese e manifesto maturò la “congiura” del Gran Consiglio fascista che mise Mussolini in minoranza e che ne decretò la caduta e l’arresto. Con un successivo decreto sia il partito fascista che le sue organizzazioni vennero sciolte.

Ovviamente l’annuncio della caduta del fascismo e del suo capo – individuato come il principale responsabile dell’entrata in guerra – unitamente alla ricomparsa, sulla scena politica, delle forze politiche antifasciste [4] fu accolta, nel Paese, da scene di giubilo che si trasformarono, ben presto in protesta aperta e in rivendicazioni politiche e sociali. La reazione del Governo Badoglio fu durissima ed improntata alla … “continuità” con il, deposto, regime. In un comunicato emanato il 26 luglio e distribuito alle Forze Armate il nuovo capo del Governo ordinava di disperdere “con ogni mezzo” tutte le manifestazioni “sediziose” che coinvolgevano un numero di soggetti pari o superiore a … tre!

Le conseguenze nefaste non si fecero attendere.

In soli 5 giorni - dal 25 al 30 luglio del 1943 - caddero sotto il fuoco delle forze preposte al mantenimento dell’ordine pubblico almeno 83 tra uomini e donne. Tutte le vittime erano giovani che invocavano la pace e la fine della guerra, il ripristino dei diritti civili, la liberazione dei prigionieri politici e migliori condizioni economiche e di lavoro.

Due furono gli episodi più importanti – avvenuti entrambi il 28 luglio 1943 - del nascente conflitto sociale, che appena rinato, si spegneva nel sangue.: la strage di Bari (20 morti, oltre 70 feriti), dove un corteo che chiedeva la liberazione dei detenuti politici fu preso a fucilate in via Niccolo’ Dall’arca e quella delle Officine Reggiane di Reggio Emilia (9 morti), con un drappello di fanteria a sparare sugli operai che – invocando la fine della guerra - urlavano “pace, pace”.

(…)”Quella di Reggio Emilia scrive Gabriele Polo [5] è una strage a lungo dimenticata, forse oscurata dall'altro eccidio reggiano del 7 luglio '60, soprattutto rimossa perché “scomoda”: erano italiani quelli che uccisero altri italiani, erano soldati dell'esercito - non repubblichini o tedeschi - quelli che spararono, erano operai troppo poco “organizzati” quelli che vennero falciati dalla mitraglia. Non è “solo” una protesta contro la guerra, informalmente ma radicalmente - come negli altri scioperi di quel cruciale '43 - gli operai esprimono una domanda di partecipazione democratica e “persino” di rappresentanza politica del lavoro, cose che troveranno riscontro - almeno formale - nella Costituzione, nell'articolo 1 (il principio della Repubblica fondata sul lavoro) e in quelli 39 e 40 (che affermano il diritto di rappresentanza e di sciopero la cui esigibilità concreta è oggi del tutto irrisolta) [6].



Dopo l’annuncio dell’armistizio avvenuto alle ore 18 dell’otto settembre i comandi dell’Esercito italiano dimostrarono una stupefacente incapacità di controllare la situazione poiché – in mancanza di direttive univoche e precise – non riuscirono né a tenere compatto l’esercito al fine di difendersi dalla, scontata, reazione tedesca né, tantomeno ebbero il coraggio di mettere a disposizione dei civili che intendevano opporsi di propria iniziativa ai tedeschi armi, munizioni, “know how”. Prevalse, dunque, tra i soldati l’atteggiamento egoisticamente remissivo mirabilmente descritto dal film “Tutti a casa” metafora dell’italico conformismo ma che suscitò nei mesi successivi – come scrive Beppe Fenoglio [7] - quel senso di umiliazione e di rabbia per il comportamento del re, del governo e dei comandi militari che fu uno degli stimoli che portarono molti che si trovarono a vivere nell’Italia occupata dai tedeschi ad impegnarsi nella lotta partigiana in montagna o in clandestinità.

Plurale, dunque, fu la risposta del Paese (nella sua componente sociale più dinamica) alla caduta del fascismo, alla sconfitta militare e al crollo politico dell’otto settembre. Sottratto alle secche di interpretazioni psicologiste – scrive Enzo Collotti [8] - il dramma dell’otto settembre è il dramma di un Paese senza guida che si interroga sulla strada da scegliere, per il quale la semplice uscita dal conflitto dalla parte della Germania poteva risolvere momentaneamente un problema di schieramento senza, però, risolvere i problemi legati alle prospettive di rinnovamento della società italiana.

Prospettive di rinnovamento politico e sociale che – iniziate nel 1946 con la scelta referendaria della Repubblica parlamentare nata dalla Resistenza – proseguono ancora oggi.



NOTE:

[1]
cfr. Alessandro Natta – l’altra Resistenza – Einaudi, 1997

[2] Secondo un recente studio, condotto da Gehrard Schreiber, furono oltre 800mila i militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra all’indomani dell’otto settembre. Essi furono considerati disertori oppure franchi tiratori e quindi giustiziabili se resistenti al disarmo (in molti casi gli ufficiali e i soldati “resistenti” vennero trucidati dopo la resa, come a Cefalonia). Classificati dapprima come prigionieri di guerra, fino al 20 settembre 1943, poi come internati militari (Imi), con decisione unilaterale accettata passivamente dalla RSI che li considerò propri militari in attesa di impiego e che – grazie soprattutto alle iniziative dell’ambasciatore della RSI a Berlino (Filippo Anfuso) – cercò di acquisire l’adesione dei militari deportati al lavoro “volontario” o, in subordine, al nuovo esercito fascista. La Germania non li riconobbe come prigionieri di guerra considerandoli (…)”una via di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguitato politico (…)” e, per poterli utilizzare nei campi di lavoro senza controlli, li classificò "internati militari" (IMI), categoria ignorata dalla Convezione di Ginevra sui Prigionieri, del 1929. Degli oltre 800mila militari italiani fatti prigionieri all’indomani dell’otto settembre, 94.000 optarono, alla prigionia, per la RSI o le SS italiane, come combattenti (14.000) o ausiliari (80.000). Dei 716.000 IMI restanti, durante l'internamento, 43.000 optarono nei lager come combattenti della RSI e 60.000 come ausiliari. Quindi, oltre 600mila IMI, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, rimasero fedeli al giuramento di fedeltà al Paese, scelsero di resistere e dissero "NO" alla RSI. Saranno oltre 50.000 – secondo stime non ufficiali - gli Internati Militari Italiani che non faranno più ritorno a casa. Periranno d'inedia, tbc e violenza nei lager tedeschi. L’esistenza di una sorta di “gerarchia” concentrazionaria farà dire a Natta che: (…)”non vi era alcuna differenza nella sostanza ma solo nel grado di intensità della persecuzione (…)” cfr. A. Natta – op. citata pag. 137.

[3] (…)”Mi ha colpito – scrive Giorgio Amendola - l’atmosfera trovata in Italia da chi veniva dalla Francia (di Petain): sembrava di entrare in un paese libero. Quando la mattina mi ritrovai nel treno che andava da Vermante a Torino, nel sentire la gente che criticava imboscati e fascisti rimasi colpito. Era l’aprile 1943 (…)”. cfr. Giorgio Amendola – Intervista sull’antifascismo – Laterza Editore, Bari, 1976.

[4] (…)”Le forze antifasciste – scrive Giorgio Amendola -, pur non avendo la capacità di intervenire prima del 25 luglio, però ebbero il senso di responsabilità di trovare un terreno di intesa e di presentarsi unite dopo il 25 luglio. Già il 26 luglio, nella riunione di Milano, tutti i partiti antifascisti presentarono e approvarono un documento, che comprendeva il succo di quello che sarà il programma della Resistenza. E già vi era l’accettazione del referendum (monarchia o repubblica – nota di gp), insomma l’idea che la questione istituzionale doveva essere non pregiudiziale, ma delegata per la sua soluzione alla volontà del popolo (…)”. Cfr. Giorgio Amendola – opera citata

[5] cfr. Gabriele Polo – La strage di Badoglio - Il Manifesto 27 luglio 2003

[6] leggere per credere (e mi si perdoni la nota polemica) le “amputazioni” al diritto di sciopero nella scuola introdotte (e confermate nei contratti successivi) nel Contratto 26 maggio 1999. Norme – sia detto en passant – che avrebbero potuto essere ancor più restrittive in seguito alle modifiche apportate tra le parti sociali firmatarie e il governo di centro-sinistra. “Provvidenziale” – in questo contesto – è stata la vittoria elettorale del centro-destra che ha consegnato (ahimé!) il Paese a Berlusconi & Soci ma che ne ha guadagnato - in compenso – un’opposizione sociale degna di questo nome. L’accordo in pejus del diritto di sciopero nella scuola già pronto per essere firmato con il governo “amico”, infatti, è stato (spero definitivamente) … “accantonato”.

[7] cfr. Beppe Fenoglio - Primavera di bellezza, Garzanti, Milano. Da questo libro, recentemente, è stato tratto il film: Il partigiano Johnny.

[8] cfr. Enzo Collotti – Introduzione al libro: L’altra Resistenza di A. Natta già citato.


Le immagini sono tratte da Storia in network

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 Cosimo De Nitto    - 25-04-2004
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Testi e ricca documentazione fotografica utile per le scuole e gli insegnanti che vogliono affrontare un percorso di ricerca con i propri allievi.
url: http://www.funzioniobiettivo.it/Laboratori/Cefalonia/index.htm