Strawberry fields for ever
Piero Di Marco - 01-03-1991

«Chiunque vuole vincere qualcosa, in una qualunque parte del mondo, deve battere un inglese»: cosl dicevano, e forse dicono ancora a sud della Scozia e a nord di Calais. Non nel pugilato. Gli inglesi, gli europei, i bianchi hanno avuto la loro gloria fino a quando hanno regalato al ring i loro minatori, i loro contadini, gli emarginati, i disperati. I poveri. I poveri ancora forti e ancora disperati, ancora poveri e non ancora miseri. Ma ogni povero bianco che voleva vincere davvero qualcosa ha dovuto sempre vedersela con un pugile negro. E quando sono usciti di scena i grandi fighter dalla pelle chiara, cosi chiara che apparivano devastati anche quando vincevano, ogni negro ha dovuto fare i conti con qualche portoricano, qualche messicano o coreano. Pugilato di colore per una televisione a colori. Cassius Clay, come lui stesso diceva, il piu grande. Per rimanere grande nel tempo, per diventare mito, poteva soltanto morire o perdersi nella folia, dimenticato guardiano di un'autorimessa o trafficante di legname in Brasile. Ma come si fa, a rimanere grandi, quando il business e le tentazioni del luna-park televisivo vogliono far ballare il vecchio clown che del campione ha ormai solo il nome?
I grandi pugili, ma anche i mediocri e i poveri cristi ingialliti nelle palestre, hanno cercato la loro pace, hanno cantato la loro musica, tenacemente attaccati ai momenti in cui si sentivano belli, perfetti, nella ricerca e nel ricordo del colpo ben fatto, del braccio che scivola via senza sforzo a realizzare le fatiche di mesi di allenamenti, ad esprimere la rabbia e il bisogno di vincere, di tenere in mano la propria forza.

Abbiamo confuso per troppo tempo le persone e i miti, illudendoci che a rimanere fossero le maschere fisse e favolose dei poeti che hanno cantato la loro storia con i guantoni o con le chitarre, sui campi di calcio o sulle tavole del palcoscenico. La televisione trionfante e dilagante, la tecnologia dei videoclips e dei compact-disc, l'implacabile e incalzante pietrificazione di ogni grandezza, ricercata e scovata da migliaia di killer fantasiosi e pazienti: tutto questo ci ha insegnato a rifugiarci nel silenzio frusciante della memoria, dove non troviamo miti ormai osceni, ma emozioni, visi di persone e nostalgie, troviamo noi stessi come siamo e come siamo capaci di essere. Non ci sono gli anni, non ci sono i pezzi di vita e i brandelli di storia, non ci sono miti e ricordi: anche le persone si dissolvono, nella necessita di essere soltanto il nostro presente, costruito nella memoria e mosso dal desiderio.
Quando siamo fortunati, abbiamo le nostre cose e le nostre rughe, una casa, una canzone che ci accompagnano, acquistando nuove ombre e vecchie luci. Come è possibile non essere innamorati di ogni momento, di ogni viso, di ogni profumo perso nella memoria? Anche di quei momenti e di quelle parole che sono stati una pugnalata e un veleno e che sono stati tanti in quegli anni dei nostri vent'anni; di quella febbre e di quei grigio che hanno accompagnato tanti giorni negli anni dei nostri trent'anni e della rabbia serena di questi anni senza colori.
Qualcuno ricorda entusiasmi politici in cui credeva con la febbre di tempi giovani e li rinnega con una razionalità che nasconde forse I'amore che soltanto si ha per le possibilita perdute. E ricorda donne, musiche e malinconie, ma soprattutto ricorda, ricorda, ricorda. Con qualche compiacimento e sempre un po' di amarezza distaccata, sfuggente sapienza che non vuole piu concedere quei baci e quegli occhi lucenti ad un presente che sembra senza poesia.
Sono, questi, grandi amici e care amiche con i quali ho diviso sguardi e sorrisi, la noia di gioie confuse e lunghe ore di incontri, di balli, di parole e di progetti, di paura, di violenza. Amici, visi di ragazzi e di donne che hanno dato colore al buio delle emozioni, hanno dato lineamenti al bisogno di incontrare e conoscere il mondo, hanno dato uno scopo al ritornare del profumo dei primi giorni d'estate e al sentore gelido di pioggie che, nella stagione piu lunga, sembrava promettere emozioni antiche e inquietanti come il presentimento di una svelata, aspra tenerezza.


Li ho visti perdersi e ricordare, ricordano tutto e non si riconoscono. A loro e con loro potrei ripetere quasi tutte le canzoni e le cose che piu sono dentro, sono davvero tante e non sono soltanto Beatles; alcune sono canzoni segrete e dimenticate dai costruttori di miti impagliati, sono strade, giardini, aule, pugili, attori, libri, persone e pensieri che i killer dell'attualità verticale non hanno saputo riconoscere: la loro ignoranza e la loro programmazione sono la nostra salvezza. Una canzone, in particolare, ha il potere di affascinarmi e, nella sua mancanza di senso, di rappresentare tutti i sensi possibili di ciò che è e che non è. Qualcosa di più di una canzone, un viaggio, una dilatata immagine di colori limpidi e di contorni imprecisati: un sottomarino giallo, un'arca carica da subito e da sempre di ogni fantasma e di ogni pietra, uno spettro ovale e radiante che scivola nei mondi sommersi, negli autobus affollati, nelle botteghe dagli odori forti, tra i seni velati di sudore, una rete di accordi che raccoglie voci e pensieri sommessi, che salva nella luce ferma, subacquea della memoria, i frammenti di piccoli fuochi e di grandi delusioni non confessate, bruciate al sole radioattivo di matrimoni, mestieri e tradimenti. Questi cari amici ricordano e raccontano, qualche volta, cio che non è stato, ma non importa, perchè poteva essere. Yellow submarine non è la canzone più interessante o piu bella dei Beatles, ma è forse quella in cui la loro magia si esprime nel modo più grande, propno perchè è costruita di niente: come il campione, grande e più grande nel suo primo, vero knock down.

Alri ricordano, ma ricordano poco, poco di tutto, poco di sè e sono gli stessi che sembrano amare molto il presente e l'esistente. Stranamente, tutto ciò che ricordano è perfettamente in accordo con ciò che credono di essere, pochi e perfetti sostegni saggiamente disposti a sostenere la predestinazione al vuoto, nel quale transita superbamente la loro angosciante ansia di attualità. Sono quelli che quando ricordano - non importa chi o che cosa -tengono sempre a precisare da che parte stavano, che si costruiscono uno stile e un gusto retrospettivo, regolarmente schierati per quelli che sono risultati vincentl: e che, conoscendoll ora mentre ricordano, vediamo illudersi di essere dalla parte giusta, mentre ne sono come sempre ai margini. A questa gente, a questi poveri amici, non è consentito associare niente, anche se hanno avuto, anche loro, piccole emozioni e vergognosi orgasmi, mentre correvano le note di Michelle e di Yestarday. Soprattutto, per loro arriva benefica la morte dei poeti, di Lennon e di Villeneuve, di Jim Clark e di Hendrix, che li solleva dall'oscura necessità di capire e li consola nella loro unica forza, quella di sopravvivere.
Per questi poveri amici, proprio per loro, il mito di un poeta morto diventa la perenne attualità di un amore in realtà mai consumato.
Qualcuno, invece, non ricorda, non vuole e non può, perchè ricordare significa essere lontani e quel qualcuno non è in grado di essere lontano da se stesso. Non esistono gli anni, ma le persone, non esistono le generazioni, gli ideali sbagliati o le illusioni; i sogni e le idee non sono vestiti consumati, niente è mito e nel mito non tutto è felicità.
Non ci sono battaglie da ricordare, ma solo lotte non concluse. Non ci sono amori lontani, ma visi appena perduti. La rabbia e la tenerezza, la meraviglia e la paura non sono i fuochi spenti di villaggi abbandonati. Non ci sono canzoni da ricordare per chi rifiuta di morire dieci volte in vent'anni e sente puzza, l'antica, conosciuta puzza d'imbroglio nella propaganda del marketing sociologo che taglia a fettine il tempo, lo spazio e l'anima, per rivendere ogni tre anni una nuova coscienza e una nuova autocoscienza, che nutre ricordi e inquina sogni e desideri per rivenderli sempre piu sterilizzati e confezionati in trancette sempre piu piccole.
Qualcuno sente cose molto vicine, negli anni di quei vent'anni e vede cose molto antiche, forse vecchie, negli anni di questi anni. Gli anni: protagonisti esibiti di ogni memoria.
Come se fossero un personaggio che trascende e si sostituisce alle persone e alle cose, facendole diventare Storia. Come se la memoria (e la storia e l'esperienza) fosse una forza e una limpidezza che si esercita soltanto nella distanza degli anni, non dei mesi, dei giorni, delle ore. Come se, alia fine, la maestà del tempo e la malinconia - fugit interea - potessero nobilitare emozioni e consentire la confessione di sentimenti, in se stessi poveri e indicibili; e come se la lontananza raccontasse le favolose genealogie di pensieri e idee attuali, per altro imprecisati.
Tutto negli anni e con gli anni ha una storia e niente sembra avere un'origine: una memoria che disegna quadretti d'epoca, tante strip in cui ciascuno compare come il cartoon di se stesso, allungato, compresso, polverizzato, risorgente, senza tragedia, senza dolori, senza passioni, con esagerata violenza ed esagerato perdono.


E' troppo facile - e poco rappresentabile sul palcoscenico dei revival e dei remake - dire che in quegli anni (quali siano) non tutto è stato musica e partite di pallone, scuola, amore e fantasia: perchè non c'erano solo i nostri quindici o vent'anni, ma anche i cinquanta e i settanta di milioni di padri e di nonni, di ministri, commissari, insegnanti, poeti e panettieri, tutti padroni come noi e più di noi di «quegli anni»; perchè la nostra storia - di padri, di figli, di poeti e poliziotti - la storia quotidiana era fatta di quel che è fatta la vita, che ognuno sa, probabilmente anche i cacciatori di remake e di revival. Perchè quegli anni (e anche «quegli altri» e quali altri ancora ognuno sa) non sono stati soltanto gli anni della minigonna e dei capelli lunghi, del Papa Buono e del Presidente Bello, di Woodstock e dell'Utopia: anche (soprattutto) sono stati gli anni dei palazzinari che hanno cominciato a stracciare il buon senso e i piani regolatori; anni di golpisti ortodossi e di servizi deviati; anni di carri armati a Praga e della sporca guerra in Vietnam; anni in cui non solo scomparivano le lucciole, ma rapidamente e trionfalmente scomparivano interi pezzi d'ltalia e di cultura, in cui si moriva ancora di colera e di miseria; anni in cui giovani, a mille a mille, - con i capelli lunghi, certo, con i capelli lunghi - hanno cominciato a passeggiare con tranquilla indifferenza e spesso con tracotanza soddisfatta in vergognose periferie di palazzoni e di mondezza e a incedere nel groviglio levantino della speculazione, del compromesso, del cattivo gusto, della «modernità» di seconda mano.

Anni che ci assomigliano, così uguali e così diversi e la memoria non vuole cogliere questa diversità: «tutto sembra, come la rosa del poeta, vivere nello spazio di un attimo. E sarà magari perche si tratta di spinosissima rosa»: Leonardo Sciascia dixit, e non a caso.
La passione, la convinzione (la fiducia, più serenamente) che le cose si potessero cambiare, la sensazione che la politica, la musica, la pace, il benessere fossero realtà intrecciate a misura della vita individuale, patrimonio interiore, valore sociale, discriminante etica e valore estetico, gioventù come passione e come ragione e ragione come ideologia e come libertà: questa è la spinosissima rosa. Non è la morte dell'ideologia che si celebra, con l'assenso «ansante, roseo, molle di sudor» di molti di noi - non è la memoria e la nostalgia che allontanano nel ricordo il profumo di quella rosa - ma è la coscienza d'aver perduto quella passione e quella ragione, di aver scambiato l'ideologia della fiducia con l'ideologia della rassegnazione. E la ragione è diventata più agevole razionalità, le speranze, le aspirazioni, la voglia di cambiare si chiamano Utopia. Vecchi tromboni sono tornati ad essere e sono chiamati maestri, vecchi cantanti e vecchie canzoni diventano storia e sfilano sui palcoscenici e negli studi televisivi, impastati nel polpettone di un «come eravamo» che finisce per restituire nudi e crudi motivetti, adesso sì, patetici e scimuniti. Non ci sono rose, debitamente, convenientemente spinose, nella memoria ma altre ragioni e frutti di terra, rossi, aspri, profumati, oscuri e rinascenti. Fragole e sangue. Non importa chi ha cantato e poco importa se la morte ha trasformato in una statua il ricordo di un uomo: potete tagliare tutti i fiori - si e scritto e si e detto -ma non potete impedire alia primavera di tornare. Anche questa rischia di essere una delle belle frasi da ricordare. Si può, certo che si può impedire alia primavera di tornare, con la condiscendente, sazia ottusità di chi vive la sua propria ferma estate sulle spiagge bombardate di quella Torvaianica così figlia di quegli anni dei nostri vent'anni: e le fragole si comprano cellophanate, belle come le belle bandiere, morte come le ideologie. Cadaverini inodori di bambini vegetali. Hanno ucciso qualcuno dieci anni fa, niente più di un uomo e niente di meno di un artista, al quale chiedere un'infinita coerenza e candore e rabbia e tutto l'impossibile di cui facciamo volentieri a meno nella vita che ci hanno insegnato a considerare piccola e costosa come un orologio firmato.
In questa Italia che di tutto fa Storia e di tutto fa Mercato l'unica ragione è nel coraggio di avere un cuore, di non rinunciare al sogno di una cosa e all'ipotesi di un dizionario dove la morte di un uomo non significa la fine di un'epoca (mentre la morte di centomila annuncia I'inizio di un nuovo ordine mondiale), dove è chiamato assassino - pazzo, visionario, mitomane - chi spara in una strada di New York ed è chiamato eroe chi bombarda a tappeto campagne e citta: un dizionario dove oggi come vent'anni fa una guerra è sempre, inevitabilmente, comunque una sporca guerra.

Campi di mine, campi di fragole, guerra e gioventu, fragole e sangue, ma che sapore hanno le sigarette di quei ragazzi che consumano Lennon nei loro walk-man sedendo dietro ai cannoni dei tanks? Hanno sparato a qualcuno dieci anni fa, ma sono successe tante cose in quegli anni di dieci anni fa, nessuna delle quali e ancora conclusa.




Nautilus




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