Ragionare sulla scuola, di questi tempi.
Diana Cesarin - 21-04-2003
Il testo dell' intervento del

MCE


all'Assemblea nazionale per la scuola pubblica
che si è tenuta venerdì 11 aprile alla Fiera di Roma



“Ogni giorno gli insegnanti creano il dialogo”

Questo è stato il tema della 10 ° giornata mondiale degli insegnanti istituita dall’ UNESCO e celebrata all’inizio dell’ottobre scorso.
La guerra è la più eclatante e tragica sconfitta del dialogo. Di fronte alla guerra la difficoltà e i limiti dell’educare sono particolarmente evidenti.

In simili frangenti mi tornano alla mente confermate nella loro forza le parole di Hanna Arendt: “Gli educatori rappresentano di fronte al giovane un mondo del quale devono dichiararsi responsabili anche se non l’hanno fatto loro e anche se lo desiderano diverso.
Questa responsabilità è implicita nel fatto che gli adulti introducono i giovani in un mondo che cambia di continuo.
L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto di quel mondo si assume la responsabilità”


Per coloro che, come chi scrive, fanno gli/le insegnanti, la guerra rinnova dolorosamente il senso di alcune domande di fondo: le persone sono educabili alla pace? Come?

Gli insegnanti del Movimento di cooperazione educativa continuano a pensare che si possono organizzare contesti educativi nei quali lavorare per il rispetto reciproco, per la vita, per la gestione non distruttiva dei conflitti; praticare e costruire una cultura di pace e una convivenza interculturale, co-costruire percorsi di apprendimento dotati di senso e condivisi.

Nel consenso -che pure c’è, purtroppo- all’attacco angloamericano contro l’Iraq, quanto pesa il bisogno di delimitare, di oggettivare in un altro da sé, di ridurre dentro a dei confini qualcosa che viene percepito come estrema minaccia e che ha dimostrato di poter essere devastante cioè il terrorismo internazionale?
Purtroppo però, al di là degli esiti della guerra in corso, si tratta di un procedimento destinato a fallire perché è semplificatorio, sorretto da una logica manichea. Il mondo non è diviso in civiltà strutturate, in sistemi coesi, monolitici e chiusi. La realtà attuale è molto più frammentaria e complessa. Il mondo musulmano è variegato e non è riducibile all’integralismo islamico. Il terrorismo è un fenomeno che vive nella dimensione globalizzata. E la globalizzazione rompe i confini. Li travalica.
Questo apre grandi possibilità ed insieme grandi paure. Come quella di perdere i confini: quando l’identità si percepisce come fragile, si irrigidisce. Vive la possibilità del contatto e del cambiamento come minaccia. Si coagula intorno alla rappresentazione di uno scontro tra civiltà strutturate. Si chiude in definizioni statiche di sé attraverso artefatte idee di origine e di purezza etnica e si rassicura elaborando definizioni statiche degli altri attraverso l’ottica deformante dell’ oggettivazione del negativo fuori di sé, dello schema amico-nemico, della santificazione dell’amico e della demonizzazione del nemico.

Sono problemi culturali ed educativi.

C’è bisogno di un’educazione e di una istruzione capaci di lavorare sul riconoscimento di ogni soggetto, sulla consapevolezza e sulla gestione non distruttiva dei conflitti.
Pensiamo a scuole e a insegnanti capaci di guardare alle diverse storie, culture e saperi quotidiani come alle prime risorse di un percorso condiviso attraverso il quale si elabora nuovo sapere. Capaci di coltivare il pensiero critico, la capacità di distinguere, di utilizzare i se e i ma, di superare lo stile dicotomico e le logiche manichee, di riconoscere le zone grigie, di elaborare le ambivalenze, di gestire creativamente i conflitti, di sviluppare un’etica pubblica.
Scuole organizzate in base a regole condivise elaborate dai soggetti che li abitano, dove la responsabilità, l’autonomia, la capacità di interagire positivamente con gli altri vengono coltivate a partire dai piccoli gesti, dalle routines, dalla materialità del lavoro quotidiano.
Gli attuali livelli di sviluppo tecnologico e mediatico consentono una miriade di contatti e di connessioni caratterizzati per lo più da estemporaneità, vacuità, evanescenza.
Noi pensiamo a contesti di apprendimento che curino le condizioni affinchè connessioni sporadiche possano risolversi anche in relazioni significative, possano approfondirsi in legami consapevoli. Affinchè si possano sviluppare forme nuove di condivisione, di solidarietà, di partecipazione alla vita degli altri senza annegare nell’immensità del mondo globalizzato. Né ridursi nei confini angusti e miopi dei localismi. Contesti in cui cui si possa elaborare un sapere che permetta di leggere, orientarsi ed agire nella complessità del reale, che costituisce la base della possibilità di cittadinanza nel terzo millennio e che proprio per questo dev’esser garantito a tutti, a tutte.

Una prospettiva di questo tipo non può esplicarsi se resta confinata in una dimensione individuale. Essa interroga i sistemi dell’istruzione nel loro complesso.
I sistemi dell’istruzione possono/debbono porsi il problema di promuovere la pace? Di fare della scuola un presidio e un laboratorio di pace?

I cambiamenti di sistema che la legge delega Moratti recentemente approvata intende apportare vanno attentamente valutati anche alla luce di queste domande.
E’ questione di responsabilità guardare all’impatto che essa può avere rispetto allo sviluppo di una cultura della pace nel nostro Paese.
Non mi è noto il pensiero di Letizia Moratti a proposito della guerra in Iraq, ma non sarei sorpresa se venissi a sapere che si tratta di un orientamento contro la guerra. Anzi spero che questo costituisca una chance di maggior ascolto verso le critiche che mi accingo ad avanzare (seppur nella forma schematica che questo contesto impone).

Quattro elementi in particolare mi preoccupano:

1. la riduzione delle risorse e degli investimenti
2. l’acuirsi delle differenze sociali
3. l’idea di sapere
4. lo svilimento dei processi di partecipazione democratica.

Non mi soffermerò sulla riduzione delle risorse che è ampiamente nota e documentata.
C’è il rischio serio di un acuirsi delle differenze sociali.
Penso alla divaricazione tra licei ed istruzione e formazione professionale e alla precocizzazione della scelta fra i due. Da un lato si prospetta qualcosa di prossimo all’addestramento e al precoce avviamento al lavoro, dall’altro un rafforzamento dei saperi disciplinari.
Sulla scorta di un totale disinteresse per il dibattito pedagogico che ha animato gli ultimi anni, si propongono piani di studio calati dall’alto, prescrittivi (ancorchè personalizzati) ai quali andrà a giustapporsi una quota di “curriculum locale”. Con buona pace di ogni attenzione per il rinnovamento epistemologico degli ultimi decenni che ha trovato proprio nella transdisciplinarietà e nelle zone di confine tra le discipline le sue prospettive più feconde, più congruenti alle sfide poste in essere dai nuovi scenari della globalizzazione e dalla necessità di elaborare una dimensione glocal.

Si svuota così la stessa capacità progettuale degli istituti scolastici, si svilisce la loro autonomia, si mortifica la professionalità dei docenti. Rischi riscontrabili anche nelle ipotesi di riforma degli organi collegiali che sono in campo.
E invece l’autonomia degli istituti va sostanziata attraverso una progettualità educativa che vada oltre le mura della scuola per interloquire coi soggetti che nel territorio hanno e assumono responsabilità educativa e, a partire da questo, organizzi reti per concretizzare quella responsabilità.
La professionalità docente ha bisogno di essere sostenuta e valorizzata. Ad iniziare dal riconoscimento di quanto siano importanti per la pratica educativa la cooperazione, lo scambio e la riflessione sulle esperienze, la possibilità di vivere il proprio lavoro in una dimensione di ricercazione, dove sistematicamente si progetta, si verifica, si valuta, si rimette a punto per sperimentare di nuovo. Per poter dar corpo, ogni giorno, al diritto alla crescita culturale, umana e civile di ogni bambino e di ogni bambina.


P.S. Della giovane donna, soldato ausiliario in Iraq, ferita, imprigionata e poi liberata con un blitz, i giornali ci raccontano che avrebbe voluto fare la maestra, nella sua città: Palestine, ma non trovando lavoro, ha deciso di arruolarsi nell’esercito degli Sati Uniti.
Tragica metafora di una società che sembra dare molte più possibilità alla guerra di quelle che dia all’educazione.

Diana Cesarin, del Movimento di cooperazione educativa
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