Cultura della memoria
scrive Francesco Paolo Catanzaro. Ed è una affermazione con la quale concordo in pieno. Per farlo, però, è necessario utilizzare – in modo appropriato – il linguaggio dando alle parole il significato “giusto” nel contesto storico dato. Mi spiego meglio. Gli oppositori alla prima guerra mondiale non si definivano “pacifisti” ma – più propriamente – antimilitaristi o, meglio, internazionalisti. Identificando se stessi – ed i propri interessi – con quelli dell’umanità intera. Non a caso il loro motto (ripreso anche negli anni ’70 dai gruppi antimilitaristi di ispirazione libertaria che pubblicarono anche un periodico dal titolo inequivocabile: “Senzapatria” fu:“guerra alla guerra”! Un concetto molto simile è stato sviluppato (negli anni ’60) da don Lorenzo Milani in una celeberrima lettera aperta pubblicata su Rinascita nella quale riprendeva molti temi cari all’antimilitarismo “classico”. Per ritornare alle origini “antimilitariste ed internazionaliste” del pacifismo vorrei rammentare il ruolo assunto - negli anni immediatamente precedenti la guerra mondiale - dal periodico “Rompete le File!” al quale si unirono nella denuncia del ruolo profondamente autoritario dell’esercito sia esponenti socialisti (celeberrime – in questo contesto – le vignette di Scalarini sull’Avanti) sia le Leghe e le Camere del Lavoro specie in Romagna dove il movimento operaio ed antimilitarista subì una dura repressione poliziesca (che colpì – tra gli altri – anche il periodico “La Scuola Moderna” che si ispirava alle tesi pedagogiche di Francisco Ferrer e della scuola da lui fondata e diretta in Spagna a dimostrazione che – il potere – mira in primo luogo a soffocare il libero pensiero) in seguito al gesto di Augusto Masetti il quale – il 30 ottobre 1911 giorno in cui sarebbe dovuto partire con la sua brigata per la Libia – nella caserma Cialdini di Bologna sparò contro il suo comandante (col. Stroppa) esprimendo – in questo modo – il suo dissenso verso l’esercito e la politica aggressiva del governo che non disdegnava di utilizzare l’esercito per reprimere i moti popolari. Attorno al suo caso si sviluppò un vasto schieramento di solidarietà protrattosi per anni e che – intercalato da eccidi di operai e contadini – culminò nella “Settimana Rossa” del giugno 1914 che rappresentò il momento di massima rottura tra il Paese reale e la sua classe dirigente e che alcuni storici ritengono sia una delle cause che spinsero il governo Salandra (spalleggiato dal Re) ad entrare in guerra a fianco dell’Intesa. La “Settimana Rossa” fu la diretta conseguenza di una proposta del Partito Socialista – approvata da un referendum confederale operaio
[1] – di (….)”proclamare lo sciopero generale in tutto il paese nel caso si fosse verificato un altro eccidio di operai come quello verificatosi nei primi mesi del 1913 (…)”. Ed è proprio quello che avvenne – nel giugno 1914 – in risposta ad una brutale repressione poliziesca di una manifestazione popolare ad Ancona. In alcune parti del Paese lo sciopero generale di protesta assunse una dimensione insurrezionale alla quale il governo rispose con l’invio di truppe che non arrivarono mai a destinazione perché bloccate nelle stazioni dallo … sciopero compatto dei ferrovieri! La sconfitta di questo movimento – come rileva Antonio Gibelli
[2] – (…) ”segnò la fine delle ideologie sindacaliste e anarchiche dalle quali era stato influenzato, e dimostrò al tempo stesso il distacco tra la classe e le organizzazioni del movimento operaio (…)” suscitando al tempo stesso “grandi timori” nella borghesia imprenditoriale nella quale (…)”si fece sempre più forte l’esigenza di irrigimentare le classi più povere in modo da spegnere sul nascere ogni inquietudine sociale. (…) In questo contesto (…) la guerra e l’inquadramento nell’esercito sembravano la soluzione più adatta (…)”.
La guerra dunque - è la tesi sostenuta da molti storici - come tentativo (riuscito!) di "imbrigliare" e "inibire" le istanze di emancipazione sociale delle classi più deboli.
[1] cfr. Gino Cerrito - Dall’insurrezionalismo alla Settimana Rossa - Editrice Cp – Firenze, 1977, pag. 141
[2] cfr. Antonio Gibelli - 2 secoli Ottocento/Novecento - Ed. Nuova io e gli altri, Milano, 1982 - vol. 2 Grande Guerra e società di massa - pag. 24