Conoscere gli emendamenti della Costituzione approvati in passato e i mutamenti in blocco realizzati e falliti è importante per decidere se votare Sì o No al prossimo Referendum. Dei singoli emendamenti si parla poco. Dei tentativi di mutamento in blocco si parla come di un lodevole e tardivo sforzo del Parlamento di liberarsi di una ingombrante eredità del secolo scorso, di una Costituzione che rallenta l'approvazione delle leggi in Parlamento e le decisioni del Governo. La rapidità nell'approvare le leggi e nel decidere sembra essere rimasta l'unica funzione positiva dello Stato. Sappiamo tutti però che la produzione di un numero spropositato di norme, di norme nuove quando ancora non sono stati approvati e resi pubblici i regolamenti applicativi delle vecchie, è una tragedia permanente dell'elaborazione ed approvazione delle leggi in Italia. Sappiamo che la lingua delle leggi è confusa, oscura, imprecisa; che i rimandi ad altre leggi, citate solo con il numero e la data, le rendono incomprensibili ai normali cittadini. Non mancano le leggi per i troppi controlli e rinvii; ce ne sono troppe, mal scritte, contraddittorie, di parte, di corto respiro. Qualcosa non funziona nella discussione sul referendum costituzionale.
E' stato ricordato che l'esatta simmetria tra le due camere non sta nella Costituzione originaria, che prevedeva durate diverse (sei anni per il Senato, cinque per la Camera) e sistemi elettorali diversi (collegi uninominali per il Senato, proporzionale, col recupero dei resti su base nazionale, per la Camera), oltre alla differenza di età per il diritto di voto. Era intenzione dei Costituenti evitare cambiamenti bruschi ad ogni singola elezione e divisioni per schieramento troppo simili tra le due Camere, come succede se la scadenza è la stessa e il sistema elettorale è identico. Precauzioni simili ci sono nella Costituzione degli Stati Uniti, dove, ad ogni elezione presidenziale, si rinnova solo metà dei seggi del Senato, per garantire la continuità, che anche oggi sembra stare a cuore ai commentatori. Noi, che da giovani volevamo cambiare il mondo (un po' lo vogliamo anche da vecchi), questa stabilità obbligata sembrava un freno al mutamento, una pastoia. Ma per chi vuole stabilità questa fretta è contraddittoria.
Un emendamento singolo venuto malissimo, malgrado le buone intenzione e il sostegno universale, è la norma per il voto degli italiani all'estero. Sembrava a tutti, e sembra anche ora a me, che tagliare i ponti con i numerosi discendenti di emigrati italiani che hanno mantenuto un rapporto culturale con il paese di origine dalla famiglia fosse, sia, il proseguimento della cancellazione degli emigrati dalla storia e dalla memoria del paese. In pratica però la legge ha permesso sollecitato, la riacquisizione della cittadinanza a tutti quelli che la richiedessero e che riuscissero a dimostrare di avere almeno una nonna o un nonno italiano, senza altri requisiti, mentre si continua a negare il diritto di voto ai figli degli immigrati nati qui. Ne è risultato uno jus sanguinis rafforzato, esteso al passato. Giovanna Zincone ha titolato un suo libro Familismo legale. Si è favorita la formazione di varie lobby che difendono interessi di gruppi sociali dei paesi di arrivo, senza adeguata informazione, senza rapporti o con rapporti non trasparenti con l'Italia, con regole del voto spesso violabili. La storia dei deputati e senatori eletti all'estero non è stata esemplare. Il 4 dicembre il voto dei cittadini italiani residenti all'estero rischia di essere determinante per la vittoria del Sì o del No.
Le modifiche in blocco sono tutte di dubbia costituzionalità perché tendono sempre a snaturare il senso complessivo della Costituzione, che è una Costituzione rigida, emendabile ma non fino a modificare la forma di governo, e sono sempre nate male (le varie "bicamerali"), accompagnate da discussioni sulla opportunità di eleggere una apposita, nuova, Costituente. Si sono sempre trasformate, inclusa quella attualmente sottoposta a referendum, in tentativi di svolgere il ruolo di una Costituente senza esserlo - in questo caso con l'aggiunta della dubbia legittimità del Parlamento che l'ha elaborata sotto il pungolo del governo.
La Riforma del 2001 fu approvata sotto un Governo di centro-sinistra, solo dalla maggioranza di governo, e confermata dagli italiani, dopo la nuova vittoria elettorale di Berlusconi. Riformava il Titolo V, che regola i rapporti tra Stato e Regioni, e tendeva al decentramento, quasi ad uno Stato federale, ma senza attribuire alle Regioni autonomia e responsabilità fiscali; senza una definizione chiara dei compiti. Intendeva assecondare la tendenza federalista allora prevalente; togliere spazio alla Lega. Era chiaro, anche a chi votò Sì, che avrebbe dato problemi per la conflittualità che generava e la facilità delle Regioni di spendere senza dover coprire la spesa.
Anche la Riforma successiva, del 2006, approvata dalla sola maggioranza berlusconiana, non era all'altezza, tecnicamente, e per fortuna fu bocciata al referendum confermativo.
La Riforma ora sottoposta a conferma, rovescia i fini di quella del 2001. Vuole centralizzare, ridurre, semplificare, accrescere i poteri del governo. Come nei casi precedenti, però, non ha scelto singoli punti da emendare e neppure propone un sistema di poteri coerente e bilanciato. Il Senato non viene abolito, né realmente depotenziato. Non ha più il potere di dare la fiducia al governo, che è un potere di controllo, ma ha poteri di nomina che ne accrescono il peso nel decidere chi governa realmente il paese. I senatori, ridotti di numero, non sono più eletti direttamente dai cittadini. Ma non sono neppure eletti da un corpo definito di grandi elettori, come in Francia. Saranno 95: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci più 5 nominati dal Presidente della Repubblica. I 21 sindaci e i 74 consiglieri saranno concordati all'interno delle singole regioni e poi confermati dai consigli regionali. Non avranno emolumenti ulteriori, oltre quello di sindaco o consigliere, ma neppure saranno senatori a tempo pieno, ma voteranno per l'elezione di cariche importanti (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale) e per le leggi costituzionali ed altri tipi di legge.
Se si vuole avere un'idea del degrado cui viene assoggettata la Costituzione bisogna leggere l'articolo 10 della proposta di legge che modifica l'articolo 70 della Costituzione in vigore. Due righe vengono sostituite da un paio di pagine, da rimandi a numeri e commi. Non un principio ma una casistica. Non ci vuole molto a immaginarsi controversie e ricorsi, più di quanti non ce ne siano stati col Titolo V.
Procedure che sono diventate già troppo frequenti (tempi rigidi, voti di fiducia) vengono resi permanenti e istituzionali coi percorsi privilegiati per le proposte del Governo.
La cosa peggiore è che non si tratta di passaggio da un sistema parlamentare ad uno presidenziale o ad un cancellierato. Si può preferire il parlamentarismo, ma concedere facilmente che anche un sistema presidenziale può funzionare; che ha i suoi controlli, i suoi equilibri. Questo è un tentativo di cambiare tipo di governo senza dirlo, mettendo insieme i cambiamenti della Costituzione e quelli delle legge elettorale che vanno bene per il gruppo, per la cordata che vuole comandare insediandosi nelle massime cariche della Repubblica, appoggiandosi a grandi aziende, banche ed ambienti. Un eventuale nuovo gruppo di controllo proverà a cambiare di nuovo la legge elettorale. E la Costituzione. Non c'è troppo rispetto per la legge fondamentale ma troppo poco. La si vuole ridurre ad una legge tra le altre che la maggioranza del momento manipola come le fa comodo. Non per nulla Gaetano Quagliarello, autore di un libro serio su De Gaulle e il gollismo (il Mulino), che si può criticare e non condividere ma non è propaganda, è schierato per il No.
Il pericolo è lo stravolgimento delle norme, la creazione di un potere di fatto che governa trasformando una minoranza, neanche coesa, in una maggioranza a tutto campo, perché, si sostiene, fondamentale è la governabilità, che ci sia un governo, qualcuno che comandi, il giorno dopo le lezioni.
Si può sostenere che il pericolo vero è il governo di fatto dei ricchi, senza mediazioni. Può darsi che tra i due pericoli ci sia una convergenza; che non si escludano ma si rafforzino a vicenda.
Gli Asini - Rivista