Mappe immaginarie. Per una didattica della geografia
Marcello Benfante - 30-04-2016
"In fondo, sia l'attore che il geografo hanno a che fare con delle tavole: per il primo, sono quelle del palcoscenico, per il secondo quelle che noi chiamiamo carte, ma che si chiamavano tavole fino all'Ottocento. L'unica differenza è che l'attore le calpesta con i piedi e perciò le sottomette, il geografo le tratta invece con i guanti e perciò, se non fa attenzione, ne cade preda" (Franco Farinelli, Geografia)
Nel corso del tempo ho messo a punto alcuni stratagemmi didattici che ormai fanno parte del mio repertorio istrionico-pedagogico.
Suppongo si tratti di invenzioni che posso ritenere mie allo stesso titolo dell'acqua calda o della carta vetrata. Chissà quanti miei colleghi fanno le stesse cose e probabilmente molto meglio di me.
In particolare, ricorro spesso a un banale escamotage, per così dire, di prestidigitazione cartografica, che finora mi ha gratificato con ottimi risultati.
Ecco in sostanza di che si tratta. Bisogna premettere che nella mia scuola, un istituto professionale alberghiero, le cartine geografiche sono una vera rarità. Ogni tanto, per un breve periodo, ne appare una, generalmente del tutto avulsa dai programmi della classe. Dopo un po' la cartina scompare, non prima tuttavia di aver subito mutilazioni e deturpazioni che vanno dal futile all'osceno. È il destino nomade di queste icone del viaggio. Qualcuno le trafuga o le distrugge, per fini imperscrutabili. Oppure qualcuno, ancora più misteriosamente, le occulta, recludendole in polverosi stanzini o inaccessibili magazzini, dove giacciono abbandonate al loro destino, insieme ad altre talora intonse o pressoché, talaltra sconciamente ribattezzate. Quasi nessuno degli alunni si accorge o si rammarica della sottrazione. La cartina era ritenuta un mero addobbo senza scopo, e come tale un che di effimero e superfluo.
Sennonché a volte, spiegando una lezione, una cartina farebbe comodo. Soprattutto per quella ostinata abitudine degli eventi storici e dei fatti biografici di accadere sempre in tempi e luoghi determinati.
Le carte geografiche d'altra parte non sono strumenti di lavoro che riguardano esclusivamente la geografia. Sono misteriose rappresentazioni di spazi virtuali che attengono al mito e all'epica, al romanzesco e all'avventuroso. Sono, parafrasando un bellissimo titolo di Angelo Maria Ripellino, un "itinerario nel meraviglioso".
Nel suo saggio "La casa ideale" (The Ideal House, 1898) Robert Louis Stevenson si sofferma a descrivere un ipotetico studio perfetto. La stanza avrà alle pareti "scaffalature di libri fino alla cintola" e, insieme a varie incisioni, "una grande carta tipografica del circondario". Nell'ampio spazio della camera troveranno luogo cinque tavoli disposti come isole di un arcipelago. Uno lo immagina destinato al lavoro corrente. Un altro ai libri di consultazione. Un terzo occupato da manoscritti e bozze da correggere e spedire. Un quarto invece sgombro, per ogni occorrenza. Infine un quinto esclusivamente "destinato alle carte geografiche".
È forse quest'ultimo il tavolo più creativo e amato. Più che un'isola, è "un mare di carte a grande scala e di mappe". Un luogo di viaggi e avventure. Di sogni e letture.
Per Stevenson la carte geografiche sono veri e propri libri (ho pensato dapprima che alludesse agli atlanti, ma nel testo non c'è traccia di un simile riferimento). Non solo: "Fra tutti i libri questi sono i meno noiosi e i più ricchi di contenuto; il corso di strade e di fiumi, i contorni e le chiazze delle foreste nelle mappe - i banchi di scogli, i fondali, le ancore, le linee di rotta, le figurine dei piloti nelle carte nautiche - e in entrambe il cartiglio con la toponomastica, le rende il genere di stampa più adatto a stimolare e appagare la fantasia".
Com'è noto, Stevenson concepì la trama de "L'isola del tesoro" a partire da una mappa elaborata per gioco insieme al giovanissimo figlio di sua moglie Fanny, quel Lloyd Osbourne che diverrà anch'egli scrittore e collaborerà con il patrigno a vari romanzi.
Le mappe quindi non solo raccontano storie, ma addirittura le contengono, proprio come un intrinseco tesoro.
Cartine e mappe (non quelle cosiddette "concettuali) sono quindi molto utili per tutta una serie, intricatissima e avvincente, di percorsi culturali. Bisogna però supplire, almeno nel mio istituto, alla loro endemica penuria o latitanza.
Così mi sono inventato le cartine immaginarie. Indico una parete bianca e dico, per esempio: "Ecco vedete qui il Marocco? E questo breve tratto di mare che lo separa dalla Spagna?".
La prima volta gli alunni ridono e fanno battute diversamente spiritose. Qualcuno approfitta dello sketch per agitare le acque oltre il consentibile. Tuttavia, ho guadagnato la loro attenzione. Tutti guardano il muro e seguono i miei gesti che tracciano nel vuoto spazi invisibili, fondano città fantasma, disegnano nazioni e continenti con una sorta d'inchiostro simpatico.
Il trucco, nella sua disarmata semplicità, funziona sempre. Se avessi usato una vera cartina, quasi nessuno avrebbe prestato attenzione. Ma il gioco d'inventarsela, di fare finta che c'è, coinvolge gli alunni, li diverte e li stimola.
Man mano che io esploro ciecamente questo mondo potenziale, i ragazzi si prestano benevolmente alla finzione, riescono a vedere i luoghi, a farsi un'idea del mondo, ancorché approssimativa.
Il visibile era per loro inguardabile, e al contrario questa evocazione illusionistica di confini, capitali, fiumi, catene montuose, golfi, deserti tra una crepa e l'altra della nuda parete costituisce un viaggio della mente. Una concreta esperienza conoscitiva.
Occorre dire, a questo punto, che pochissimi fra i miei alunni sanno qualcosa di geografia. Non solo ignorano termini specifici come istmo o come fiordo, ma non hanno alcuna idea di dove si trovi l'Islanda o il Portogallo. Anzi, la situazione è ben peggiore. Anche l'Italia e perfino la stessa Sicilia costituiscono un autentico mistero. D'altronde la Geografia è una materia ormai esclusa dal loro corso di studi (anche se recentemente è stata reintrodotta in dosaggio omeopatico).
Non mi soffermerò tuttavia sul paradosso demenziale di alunni costretti a studiare Turismo senza essere messi in grado di collocare in un planisfero Berlino o Singapore.
Mi interessa un'altra considerazione. E cioè che si continua a parlare di gap tecnologico quando invece ci sarebbe bisogno di un po' più di fantasia. Davvero ci serve la lavagna elettronica, questa specie di televisione di classe? Non sarebbe meglio, invece, attivare processi di ricerca, magari anche attraverso quei mezzi tecnologici di cui ormai dispone pressoché ogni alunno?
Non si tratta infatti di essere misoneisti o luddisti. Bensì di escogitare i modi di un apprendimento attivo e di un uso creativo delle capacità di insegnamento-apprendimento.
Con i miei alunni, ormai, la cartina immaginaria è un tormentone umoristico. Loro stessi si prestano alla gag, dimostrando di avere acquisito, se non altro, una certa capacità di orientamento. E intanto la condivisione di un momento di buonumore cementa la classe e dispone favorevolmente gli alunni all'acquisizione di nozioni basilari. Con un pizzico di autoironia siamo riusciti ad aggirare e superare una penuria di mezzi, che potremmo definire al tempo stesso scandalosa e provvidenziale.
La scuola invece tende troppo spesso a essere seriosa e a sopravvalutare gli aspetti tecnici (per non parlare di quelli burocratici). Insomma, si prende troppo sul serio. Poco seriamente, s'intende.


Articolo apparso sulla rivista "Gli Asini"
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