breve di cronaca
Verso la pena di morte
L'Unità - 14-12-2002

Rispediti in Siria verso la pena di morte grazie alla Bossi-Fini
di Maura Gualco & Maristella Iervasi

Li hanno fatti salire sull'aereo per Damasco con la forza, dopo averli trattenuti per cinque giorni a Malpensa, senza ascoltare o verificare in qualche modo il loro disperato grido di dolore, la loro terribile storia di perseguitati politici tale da essere costretti a fugggire dalla Siria ed andare in esilio in Iraq.

Ma l'Italia di B. li ha rispediti in patria violando le più banali convenzioni internazionali sui diritti umani. Parlava solo arabo la famiglia Muhammad Sa'id Al-Sahri - padre, madre e quattro bambini piccoli di cui uno bisognoso di cure -, la polizia di frontiera dello scalo milanese, pur non capendo la loro lingua, le avrebbe negato anche il più basilare dei diritti, quello di esprimersi attraverso un interprete. E li ha rimpatriati immediatamente, in quanto clandestini. Come prevede la legge della destra, la Bossi-Fini.

Quattro giorni "prigionieri" in aeroporto nel silenzio più totale. Senza che nessuno pensasse di allertare l'ufficio del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) presente a Malpensa. E negando «per motivi di sicurezza» anche l'"incontro" con Murhaf Labididi, fratello della moglie del capofamiglia condannato a morte in Siria, che si era precipitato in Italia da Londra in loro soccorso. «È uno scandalo, un disonore per l'Italia - ha detto Giovanni Conso, presidente del Cir e presidente emerito della Corte Costituzionale -.
La vicenda della famiglia siriana bloccata per cinque giorni a Malpensa nel silenzio generale è un reato. Un delitto gravissimo. Non sono stati rispediti in Iraq, ma in Siria - sottolinea Conso -: i responsabili sono complici di un'esecuzione e condannabili per concorso in omicidio».

Già. Un esilio lungo vent'anni in Iraq per essere rimpatriati in Siria. Amnesty International, il Cir e Medici senza frontiere hanno denunciato il caso al Viminale e al ministro degli Esteri. Non una risposta è arrivata finora dalle nostre istituzioni. Mentre Murhaf con la voce roca di pianto da Londra dice: «Non so più niente di loro ma sono sicuro che sono in prigione. Tutti, anche i bambini. Tutta la nostra famiglia, come anche quella del marito di mia sorella - spiega -, è accusata di far parte dell'opposizione al regime di Bashare el Assad. Da qui la sentenza di morte».

Muhammad, 44 anni, ingegnere ed ex oppositore politico del governo di Damasco è arrivato con la sua famiglia a Malpensa il 23 novembre scorso, proveniente da Baghdad (via Amman), dove la coppia - con i loro quattro bimbi, un maschietto e tre femminucce di età compresa tra i 2 e gli 11 anni - ha presentato richiesta d'asilo, sottolinea Amnesty International, che denuncia: «le autorità italiane hanno respinto la richiesta in modo del tutto sommario» e il 28 novembre li hanno imbarcati con la forza sull'aereo per Damasco. Ora si teme che si possano trovare in stato di detenzione in uno dei centri d'interrogatorio dei servizi segreti, nella capitale siriana, «dove la tortura è praticata regolarmente».

Diversa la versione della polizia di frontiera dello scalo milanese, che si difende così: la famiglia siriana non ci ha chiesto il diritto d'asilo. Eppure Murhaf racconta che dopo il divieto di incontrare i familiari ha contattato un avvocato: «Sono andato al Tribunale di Milano per cercare un difensore. Era il mattino del 28 novembre scorso. Ho trovato un legale d'ufficio, Antonella Bisgan, le ho esposto il caso e mi ha dato un appuntamento per l'indomani alle 16, assicurandomi che avrebbe chiamato l'aeroporto. Ma quando ha telefonato i miei nipotini, mia sorella e mio cognato erano già stati rimpatriati».

Giovanni Conso, con estrema indignazione, ieri ha aperto il convegno «Mai più violazioni, mai più impunità» - organizzato dal comitato per la promozione e la protezione dei diritti umani -, denunciando l'inutile tentativo di Muhammad Sa'id Al-Sahri di spiegare la sua posizione e quella della sua famiglia. E ha colpito duro, anche contro l'inefficienza del difesore d'ufficio. «Sarebbe bastato chiedere una sospensiva alla Corte di Strasburgo che, in queste circostanze, interviene tempestivamente a bloccare il procedimento in atto».

Secondo il presidente emerito della Corte Costituzionale, fa riflettere che un uomo che aveva trovato tutela in Iraq, abbia visto lesi tutti i diritti umani, quelli dei rifugiati, delle donne, dei bambini, proprio in Italia. «Il nostro Paese - ha concluso - ha concesso a questa famiglia una scorta della nostra polizia fino all'autorità locale siriana. Attualmente sappiamo solo che l'uomo è finito in prigione, probabilmente è stato torturato. Speriamo soltanto che non sia stato giustiziato. Della moglie e dei bambini, nell'era della tecnologia, non riusciamo a sapere nulla».

L'ultima volta che Murhaf ha sentito sua sorella erano circa le cinque del pomeriggio del 28 novembre. Da allora, è calato il silenzio. «Ho chiesto notizie ad una mia zia in Siria. Ma mia sorella e la sua famiglia è come se fossero scomparsi. Nel nulla».

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 marilena melchiorri    - 17-12-2002
E' vergognoso quello che è successo, non ci sono parole per commentare questo triste episodi











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