Scuola e Costituzione: un manifesto dimenticato
Giuseppe Aragno - 24-03-2015
C'è una sorta di «manifesto» in cui per la prima volta furono affermati gli ideali della scuola della repubblica. Parole senza retorica, intense e dense di significati attuali, che un manipolo di docenti affidò alle colonne di un giornale clandestino ormai dimenticato: il «Comitato di Liberazione Nazionale Scuola», tirato col ciclostile nel 1944, durante le pause dei combattimenti coi nazifascisti. Sono gli ideali da cui nacquero poi la Costituzione repubblicana, ormai stravolta, e la concezione di una scuola «liberatrice dell'uomo», che il governo Renzi intende far sparire. Una scelta che non meraviglia. L'avevano detto chiaro, quei partigiani: «chi teme il popolo vuole il gregge, la folla da sfruttare».
Un'idea autoritaria di società, scrivevano quegli uomini coraggiosi, ha come primo obiettivo la chiusura dei conti con la libertà d'insegnamento, fondamento di ogni democrazia e fucina di coscienze critiche. Questo accade, proseguivano, ogni volta che le vicende della storia producono «una società fondata sulla potenza del denaro». Parole d'inquietante attualità, così come attuale è la descrizione dei mezzi scelti per raggiungere lo scopo. Il regime, osservarono quei docenti, «asservì l'insegnante con la miseria e la vita di stenti, [...] conformismo e rinuncia. E l'insegnamento fu come la classe dominante voleva; la gioventù crebbe, informata a principi falsi, a ideologie assurde e funeste e l'attuale catastrofe è il risultato».
Chi potrebbe negare che l'assunzione diretta dei docenti da parte di presidi legati a filo doppio al potere politico ripropone in maniera evidente una simile condizione?
Basterebbe chiedersi oggi, ciò che ieri si domandarono quei partigiani, per sentire un brivido correre la schiena: quando il progetto fu realizzato, che significò insegnare? La risposta di quel lontano «manifesto» sembra scritta oggi: insegnare significò «servire» e più il regime si affermò, più vennero le «ristrettezze mortificanti, una triste rete di transazioni, di mercimonio, che avvilì insegnanti ed insegnamento». Solo chi non vuol vedere - come la nostra stampa che è in mano ai padroni - può fingere d'ignorare che, dopo più di settant'anni, le parole dei partigiani sembrano descrivere la condizione docente nella scuola che sta cercando d'imporci Renzi: precarietà per tutti, povertà, servitù, un lavoro ottenuto e conservato solo in cambio di una rinuncia alla libertà. Una condizione ben diversa da quella per cui lottarono quei giovani, che si battevano per un ordinamento sociale in cui «l'insegnante dovrà rivestire la dignità più alta; sarà maestro di vita e d'umanità. La sua posizione sociale ed economica dovrà [...] permettere indipendenza, libero svolgimento, facoltà di coltivarsi, essere tramite di idee, pensiero, progresso per elevare noi stessi e i giovani a noi affidati verso mete sempre più alte di libertà e di umanità».
E' proprio questa «idea di scuola» che Renzi prova a distruggere, utilizzando come olio di ricino, le convulsioni di una crisi economica, determinata da criminali speculazioni del capitalismo finanziario. Lo fa nel silenzio dei media, con la complicità di intellettuali sempre più legati al carro del potere e nella torpida indifferenza di masse popolari che, dopo vent'anni di televisione berlusconiana, sono prive di strumenti di lettura critica della realtà. In questo clima, chi difende la scuola è il facile bersaglio di «squadristi riformatori», che trasformano in manganello slogan e menzogne privi di contenuti, ripetuti ossessivamente, come vuole la tragica lezione di Goebbels: «forze conservatrici, timore del nuovo, difesa corporativa». Di fatto, mentre i colpi portati alla scuola si fanno distruttivi e svuotano il sistema formativo di ogni connotato democratico, la propaganda sul «merito» e la sterilizzazione dei contenuti, imposta dall'impalpabile violenza e dalla carica di istupidimento insita nei criteri di valutazione, costituiscono efficaci strumento di «normalizzazione».
Le conseguenze sono devastanti. Nel dilagare dell'ignoranza, del disimpegno, della sfiducia nella politica - esito naturale di un lavoro durato più di un ventennio - è sempre più difficile riflettere sul rapporto storico che lega crisi economica e crisi della democrazia. Eppure in pieno fascismo, Grifone rifletteva su questo tema in un libro di impressionante attualità, uscito poi nel dopoguerra. In quanto a Spinelli, Rossi e Colorni, stendendo sulle loro clandestine cartine da sigaretta il «Manifesto di Ventotene», colsero il rischio che l'«Europa dei popoli» finisse in mano al personale politico e agli economisti al soldo del grande capitale, pronto a stravolgere il processo di unificazione. In tempi più recenti, con tempestiva lucidità, Calamandrei si è spesso fermato sulla scuola pubblica e sul rischio che contro la sua struttura democratica si scagliassero le forze della reazione, decise a colpire il diritto allo studio, soprattutto perché minare la scuola della repubblica significa colpire alla radice l'impianto della Costituzione.
E' ciò che sta accadendo in questi giorni, dopo che il filo della memoria è stato reciso e la storia del Novecento stravolta, per divulgare un anticomunismo acritico e viscerale, grazie a un revisionismo maligno che Gaetano Arfè, con profetica intuizione, definì «sovversivismo storiografico». In questo clima, chi resiste è subito isolato. Isolata è la lotta per la scuola, isolati e divisi sono i sindacati, soli i lavoratori e i precari, soli, solissimi i giovani. Il 25 aprile non è lontano, ma Renzi pare un rullo compressore. E' evidente che non si può attendere la data ufficiale per parlare di Liberazione, per dirsi che settanta anni dopo la Resistenza, siamo di fronte a una gravissima emergenza democratica e fare perciò subito quadrato attorno alla scuola della repubblica, così come la disegnò la Costituzione. Non c'è più tempo, purtroppo, l'attacco alla scuola va di pari passo con quello portato alla Costituzione e non ci sono dubbi: si salveremo l'una, senza difendere l'altra.

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