Leggo sul Corsera del 12/01/2015 un articolo di Valentina Santarpia dal titolo
"Contributo volontario, quella «tassa» imposta dalle scuole alle famiglie". Niente di nuovo, per carità, ma proprio perché si iscrive in un processo lungo, inarrestabile che vede puntualmente ogni anno il rinnovarsi e crescere di quella "tassa" odiosa per moltissimi cittadini tartassati già dalla crisi e dal complessivo aumento delle tasse, non si può fare più a meno di rapportarla al dibattito e scontro politico, giuridico, culturale sullo sfondo del quale essa assume significato di ingiusta illegalità anticostituzionale da parte degli uni, di inevitabile, normale, dovuto, neutro evento di economia di bilancio da parte di altri.
Il fatto che le famiglie e i cittadini caccino sempre più soldi per finanziare la scuola dei propri figli, parliamo della scuola dello Stato anche quella obbligatoria, è un fenomeno ingiusto per il suo svolgersi, illegittimo si può azzardare. L'unica positività, a mio avviso, consiste nel fatto che consente una chiarificazione semantica e cioè che si può finalmente dire una parola chiara su cosa significa "pubblica" quando si parla di scuola.
Da Berlinguer in poi ha tenuto banco la discussione sulla posizione giuridica e costituzionale della scuola che è statale e/o privata, così nella Costituzione, dove privata significa "senza oneri per lo Stato" (art. 33). Finalmente (siamo o no il paese degli Azzeccagarbugli?) è stata tirata fuori la genialata. Si è inventata (da invenio) la parolina magica "pubblica" che risolverebbe tutti i problemi. Dunque né statale, né privata, ma "pubblica" cioè statale e privata insieme, sullo stesso piano giuridico ed economico, insieme, paritariamente e appassionatamente sistemate, cioè a far "sistema". La parolina "pubblica" nella sua indeterminatezza semantica (concerne infatti tutto ciò che riguarda la collettività) ha fatto il miracolo, ha sciolto il sangue di San Gennaro che prima era cristallizzato nei due attributi "statale"/"privata" che sono chiari, netti nel loro significato, significato ben chiaro ai "padri costituenti" che non erano digiuni della lingua italiana come gli attuali grandi governanti i quali devono ricorrere a termini inglesi per riempire il loro vuoto linguistico in lingua madre (matrigna per loro). L'attributo "pubblica" esisteva anche allora nel 1947, e anche da prima, e prima ancora fin dai romani dalla cui lingua deriva. Se avessero voluto unire in matrimonio "pubblico" la scuola statale e quella privata lo avrebbero già fatto loro, e invece le hanno volute separate, non per funzione (quella dell'istruzione che è pubblica è una banalità, cosa altro potrebbe essere) ma per istituzione, proprietà, finanziamento.
La querelle statale/privata comunque finalmente è giunta a termine, finalmente l'attributo "pubblica" è stato disambiguato con netto e rapido blitz ad opera della Buona Scuola di Renzi. Finalmente è stata fatta chiarezza e giustizia delle cavillose discussioni sul tema che ha visto divisi e contrapposti gli sclerotici e imbalsamati conservatori e cultori della Costituzione e gli attivi e dinamici modernizzatori, innovatori, adeguatori della Costituzione ai tempi rapidi, convulsi, tecnologici del presente che richiedono una Costituzione ad hoc e per raggiungere questo risultato la reinterpretano e se non basta la modificano e se non basterà ancora? Ne faranno una nuova di zecca, speriamo di no, vista la loro levatura.
Ecco dunque finalmente cosa significa scuola "pubblica" per il governo e chi lo regge: i cittadini, cioè i privati, finanziano la scuola statale, lo Stato, e il governo per esso, finanzia la scuola "privata". Perfetta parità(ria), perfetto equilibrio di "sistema".
O no?
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