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Ci volevano con la terza media
Gianni Zappoli - 27-09-2011
L'indisponibilità ribelle di un delegato nella Fiat di MelfiDal prato verde lucano in una fabbrica che la retorica voleva integrata e senza presenza sindacale.

Segnalazione di Gianni Zappoli dal blog del Centro Formazione e Ricerca Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana, sede di Bologna.

Raccontare la propria lotta in prima persona, senza la mediazione di tv e giornali, per parlare a tutti gli altri lavoratori. Giovanni Barozzino, uno dei tre operai licenziati dalla Fiat di Melfi nell'estate del 2010, ci prova con un libro, Ci volevano con la terza media (Editori Riuniti, pp. 271, euro 15). Giovanni ripercorre la sua storia, dal 1993 - anno in cui la Sata di Melfi arrivò a «colonizzare» il prato verde della Basilicata, terra tradizionalmente contadina - passando per il 2004 - la mitica «primavera», la lotta vittoriosa contro la durezza del sistema Fiat - fino ai giorni nostri. L'epoca in cui gli operai salgono sui tetti o si autorecludono su un'isola per attirare il mondo dell'informazione.
Un'epoca, e le tute blu di Melfi lo sanno bene, in cui tante conquiste, non solo quelle degli anni Settanta, ma quelle recentissime della loro gloriosa «primavera», si stanno perdendo velocemente, sotto i colpi incrociati della crisi internazionale e del ricatto dei padroni: «Accettate le nostre condizioni o chiudiamo». Esattamente quello che oggi Sergio Marchionne dice a Pomigliano e Mirafiori.
Giovanni questa pressione addosso l'ha sentita non solo sulle linee della Sata, ma anche quando ha cominciato ad alzare la testa, quando ha deciso di diventare delegato - per la Fiom - e guardare negli occhi i capi. Per dire che le promesse fatte a quei ragazzi tutti rigorosamente under 32, ai tempi in cui la grande astronave della Fiat era atterrata sulla tranquilla piana di San Nicola, erano tutte un'illusione. La «fabbrica integrata», in cui non si deve fare sciopero perché non ce n'è bisogno, in quanto il capo è sempre disposto ad ascoltarti, non esiste: esistono, come nota Gabriele Polo nella sua prefazione, solo un salario più basso rispetto agli altri stabilimenti Fiat, ritmi più intensi, la doppia battuta notturna, un rispetto ferreo e cieco delle gerarchie. «Ci volevano con la terza media - spiega Giovanni - perché cercavano "carne fresca", giovani e inesperti da inserire nel loro laboratorio».
Ma anche chi «ha fatto la terza media» può sfidare i manager globali, quelli che hanno studiato in Canada e raccolgono ori e allori, a Torino come a Detroit. Giovanni, Antonio e Marco, dopo essere stati licenziati decidono di non rassegnarsi: come altri operai stanno facendo in tutta Italia, si arrampicano in alto, sulla Torre Venosina di Melfi, e così la loro storia rimbalza dalla periferia lucana fino alle tv nazionali. L'improvvisa popolarità è seguita da attacchi: per Panorama, che li sbatte in copertina, e per Emma Marcegaglia sono «sabotatori»; tanti politici, e parte del sindacato, non li capiscono, anzi stanno con la Fiat. Per fortuna, non solo gli operai di Melfi, ma anche tanti lavoratori, fanno arrivare la loro solidarietà. «È tornata la lotta di classe» - dice Giovanni - anche se non nei termini nel Novecento. Soprattutto perché nel Duemila gli operai sono rimasti soli, e spesso in lotta tra loro.
Poi c'è il processo: la gioia di vincere il primo grado, la delusione nel sapere che l'azienda accetta il reintegro, ma senza far ritornare i tre operai alla linea: dovranno rimanere confinati nella saletta sindacale. La lotta non si arresta: i tre iniziano una «marcia del lavoro» che li porta nelle fabbriche di tutto il paese. Recentissima, improvvisa, la doccia fredda: la Fiat vince il secondo grado. Nuovo ricorso Fiom, prossimamente si dovrebbe sapere come andrà a finire. Intanto la storia dei tre operai di Melfi è diventata un simbolo, e giustamente anche un libro. Maurizio Landini, nell'introduzione, parla di un attacco al lavoro, «il cui obiettivo è quello di cancellare il diritto delle persone a contrattare la propria condizione collettivamente». Giovanni ha dimostrato che si può reagire.

da Il Manifesto settembre 2011

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