A proposito di merito
Claudio Berretta - 15-03-2011
Credo occorra riflettere attentamente sull'utilizzo della parola "meritocrazia".
A questo proposito invio come contributo un capitolo tratto da un libro che ho pubblicato recentemente.
Chiedo scusa se la citazione può essere vista come pubblicità impropria, ma se non riusciamo a diffondere in qualche modo messaggi alternativi a quelli della collega Paola Mastrocola, che compare dovunque intervistata e pubblicata come autorevole esperta di scuola e che diffonde un'idea di scuola d'élite, gli attacchi alla scuola saranno sempre più forti.



INSEGNANTI E MERITO

Tratto da: Berretta Claudio, "Professore... lei è felice? Per una scuola di tutti: racconti e riflessioni", Roma, Aracne Editrice, 2011. Capitolo 23

La fiducia va meritata, soprattutto in un mestiere così delicato e difficile da essere ritenuto addirittura impossibile dal padre della psicoanalisi.
Da qualche tempo è diventata di moda parlare di "meritocrazia". Brutta parola.
Se vogliamo parlare di premiare il merito bene, ma "il governo dei meritevoli" ... potrebbe essere un'inquietante e distopica prospettiva, come Michael Young ha fatto notare (1).
Credo che l'unico elemento che in parole composte si affianchi bene a "crazia" sia "demo" e quindi penso che nessun altra parola composta, che abbia come secondo elemento "crazia", debba essere considerata come condizione auspicabile oltre a "democrazia" (2).
Cosa diversa è concepire competenze, esperienza, talento e impegno come condizioni necessarie ad occupare cariche pubbliche e ruoli di responsabilità, piuttosto che l'appartenenza ad un ceto sociale o i legami lobbistici e clientelari.
Non si tratta quindi di dare "il potere ai meritevoli", ma il merito deve sicuramente essere concepito come elemento fondante di una società efficiente. Ciò che occorre chiarire però sono gli obiettivi di questa società e di questa efficienza. Se siamo d'accordo nel dire che l'obiettivo è il bene comune (e non i privilegi di pochi) non c'è alcun dubbio che un primario di un ospedale debba essere tale per le sue capacità ed il suo impegno negli studi e nel prodigarsi per il bene dei pazienti, non perché è figlio di un primario. Questo dovrebbe valere sempre e comunque.
Si sostiene che nella scuola si debba premiare il merito. Ogni tentativo fatto, si dice, ha però incontrato l'opposizione degli insegnanti. Dal che se ne deduce che gli insegnanti non vogliano essere valutati e vogliano conservare privilegi corporativi. Qualcuno ha mai provato a chiedere a quella parte di insegnanti disponibili ad esserlo, come ritengono giusto farlo?
Un'idea è quella di lasciare decidere al Dirigente Scolastico l'entità dello stipendio e le stesse assunzioni. Come se il parere di una persona possa garantire l'oggettività del giudizio sul merito di decine di altri. Non ci si pone il problema di evitare favoritismi personali e clientelismo.
In altri paesi si realizza una valutazione da parte del dirigente, ma lo stesso dirigente è poi valutato da un comitato municipale e da rilevazioni nazionali sui risultati.
Anche in questi casi ci sono problemi, come trovare il modo di conciliare rilevazioni basate su prove standard con la necessità di realizzare programmi individualizzati per gli studenti in difficoltà, ma perlomeno il dirigente scolastico non detiene il potere assoluto sulla vita degli insegnanti della sua scuola senza dover rendere conto del suo operato, come succederebbe probabilmente in Italia.
Un dirigente che attribuisce ad alcuni stipendi più alti che ad altri, sulla base di considerazioni più o meno soggettive ed arbitrarie, sarebbe una situazione odiosa. La possibilità di avere retribuzioni aggiuntive per chi si impegna di più nella formazione continua e nell'aggiornamento e lavora di più in attività di progettazione e ricerca, per il miglioramento dei risultati dei propri studenti (valutati sulla base di criteri il più possibile oggettivi e tali da considerare le diverse situazioni di partenza) sarebbe una situazione molto diversa. Così come sarebbe diverso prevedere risorse economiche per chi accetta di fare un numero maggiore di ore in classe ma, attenzione, non per ridurre il numero di posti di lavoro per gli insegnanti più giovani, bensì per fare compresenze nell'ambito di progetti per il miglioramento della qualità della scuola. Anche in questo caso progetti da sottoporre a verifiche serie sulla loro efficacia.
I contributi di chi vuole dare di più e di chi non se la sente e vuole limitarsi all'ordinario devono essere comunque rispettati, purché protendano verso lo stesso obiettivo: il miglioramento della qualità della scuola. Assumendo come scontato il fatto che chi non onora il proprio ordinario dovere debba essere richiamato al rispetto del suo ruolo, per evitare che si configuri una situazione di sfruttamento di alcuni lavoratori nei confronti di altri che devono addossarsi anche il loro lavoro e un danno nei confronti degli studenti. Per questo è comunque necessaria una qualche forma di verifica della validità del lavoro svolto.
L'ostacolo maggiore alla valorizzazione del merito non sono gli insegnanti, ma le risorse. Nessuno si oppone al pagamento suppletivo per un collega che lavora di più. Il merito però si premia stanziando risorse, così come la qualità si ottiene con un maggiore impegno professionale e finanziario. Non si possono spacciare le riduzioni delle risorse come interventi per migliorare la qualità e le riduzioni di stipendio a qualcuno, per aumentare quelli di altri, come interventi per premiare il merito. Questo produrrebbe effetti devastanti sulla coesione sociale nelle scuole e sul livello di collaborazione che dovrebbe esistere all'interno di queste istituzioni, "comunità di apprendimento" per eccellenza. Invece di migliorare la qualità si determinerebbe un suo decadimento derivante dalla riduzione delle sinergie interne alle scuole.
Migliorare implica chiedere più impegno e pagarlo.
Credo che i tantissimi insegnanti coscienti dell'importanza del loro ruolo sarebbero ben disponibili ad accettare forme di valutazione e di premi al merito così strutturati e basati soprattutto sul rispetto verso tutti, anche verso chi non intende aderire a progetti più impegnativi, ma si impegna comunque nelle sue ore per fare del proprio meglio. Teniamo peraltro presente che il lavoro dell'insegnante pare essere il più logorante dal punto di vista psicologico, come è stato evidenziato dai molti studi del dott. Lodolo D'Oria (3); credo sia quindi comprensibile il fatto che per qualcuno l'ordinario orario di servizio sia già sufficiente.
A questo proposito è bene ricordare a tutti che l'orario di lavoro di un insegnante non corrisponde all'orario di insegnamento. Qualcuno arriva a dire sciocchezze come: "Gli insegnanti lavorano part-time diciotto ore la settimana e prendono uno stipendio intero." Qualche insegnante peraltro favorisce queste convinzioni quando, per esempio, di fronte all'idea di partecipare a corsi di formazione che implicano un impegno di otto ore al giorno per pochi giorni, sostiene che è troppo impegnativo.
Non solo la maggior parte dei lavoratori, ma anche i bambini che frequentano il tempo pieno hanno otto ore giornaliere di impegno. La sostenibilità dipende da come è articolata l'attività. Sicuramente otto ore di lezione frontale sarebbero insostenibili ed infruttuose. Così come insostenibili lo sono per quei bambini ai quali viene proposta una didattica esclusivamente frontale invece di alternarla con momenti di attività pratica, esperienze in laboratorio, lavori di gruppo e attività sportiva all'aria aperta. Se poi magari devono passare l'intera giornata nella stessa aula, perché non si può uscire nemmeno durante gli intervalli, abbiamo buone probabilità di far loro odiare la scuola già all'inizio della loro carriera di studenti. Corsi di formazione e aggiornamento basati sull'interazione, la partecipazione diretta e la realizzazione di attività pratiche non solo sono sostenibili, ma vengono frequentati da centinaia di insegnanti con soddisfazione.
L'organizzazione del lavoro degli insegnanti in altre nazioni prevede anche sette-otto ore di presenza giornaliera a scuola, di cui diciotto-venti ore settimanali in classe. Questo permette di evitare di sentirsi dire che si lavora poche ore al giorno, ma è possibile perché nelle scuole ci sono gli spazi e gli strumenti necessari per lavorare. In Italia l'assenza di tali risorse rende inevitabile il lavoro a casa, con spese a carico del singolo insegnante per il reperimento degli strumenti necessari. Gli impegni di un insegnante, anche in Italia, vanno infatti ben al di là della presenza in classe, a meno che non si pensi che sia possibile fare un buon lavoro con gli allievi senza studio, progettazione, aggiornamento, predisposizione materiali, correzione verifiche, riunioni con i colleghi, incontri con gli operatori sociali del territorio, documentazione; e proprio la produzione di materiale in grado di documentare il lavoro svolto è una modalità fondamentale di verifica della qualità.
Fare documentazione richiede molto tempo, ma farla sotto forma di narrazione, come ho tentato di fare in questo libro, è forse meno onerosa e ci conduce più facilmente a quella condivisione di esperienze che spesso viene a mancare nel lavoro dell'insegnante e che invece dovrebbe costituire l'elemento portante di un lavoro così difficile che non si può pensare di affrontare in condizioni di isolamento, come spiegano Fullan e Hargreaves (4), citando Rosenholtz e la sua definizione di "scuole bloccate" e scuole in movimento".
La narrazione, come ci insegnano molti autori tra i quali Duccio Demetrio, è peraltro una possibilità preziosa di "cura di sé" (5). Un momento di ricarica psicologica, così come di riflessione metacognitiva efficace, che può favorire la dimensione dell'apprendimento continuo, anch'esso in grado di contribuire al benessere personale e indispensabile per chi vuole motivare gli studenti ad apprendere.
Quando di parla di valutazione delle scuole occorre tenere altresì presente che la scuola italiana realizza spesso situazioni di eccellenza. Dei buoni decisori al vertice dovrebbero valorizzare queste esperienze "meritevoli", spesso riconosciute a livello internazionale, e sondare la possibilità di una loro diffusione.
Se sussistono problemi gravi come posizioni disastrose nelle rilevazioni OCSE-PISA o preoccupazioni relative al bullismo nelle scuole perché continuiamo a richiedere la produzione di nuovi progetti senza effettuare studi su quali sono state le sperimentazioni più efficaci per poi provare ad estenderle?
Nella scuola italiana ci sono state sperimentazioni durate venti anni senza che nessuno si preoccupasse di valutarle. Quando poi si è deciso di ridurre la spesa ciò è stato fatto indiscriminatamente. Ignorando quali sperimentazioni potevano essere considerate esperienze d'eccellenza e quali semplici sprechi.
Risultato: un enorme spreco di conoscenze, esperienze e risorse umane.
Le scuole in grado di produrre risultati di alto livello sono state penalizzate tanto quanto quelle i cui risultati non erano apprezzabili. Per il semplice fatto che nessuno ha valutato i risultati ed agito sulla base del semplice principio: se non funziona una strategia ne provo un'altra, se funziona la estendo dove ci sono problemi analoghi. Se avessimo esteso a tutte le scuole d'Italia le sperimentazioni che hanno avuto successo, con le dovute contestualizzazioni, quale livello qualitativo avrebbe la scuola italiana oggi?



1. Young M., The rise of the meritocracy, New Brunswick, New Jersey, Transaction Publishers, 1994, p. XV-XVI. In questa introduzione del 1994 Michael Young chiarisce il suo intento, smentendo coloro che citarono il suo libro quasi come un manifesto della meritocrazia: "They have neglected, or not noticed, the fact that the book is satirical ...". E ancora: "I wanted to show how overweening a meritocracy could be ...".

2. Per ulteriori riflessioni sul tema: democrazia, partecipazione, o governo dei saggi, può essere interessante la lettura del capitolo "Educare alla democrazia" in Bencivegna E., La filosofia come strumento di liberazione, Milano, Raffaello e Cortina, 2010.

3. http://www.burnout.blogscuola.it/?page_id=2
Lodolo D'Oria V., Studio Getsemani, http://www.edscuola.it/archivio/psicologia/burnout.pdf
Lodolo D'Oria V., Scuola di follia, Armando Editore, Roma, 2005
Lodolo D'Oria V., La scuola paziente, Alpes, Roma, 2009
Studi apprezzati anche dalla Direzione Generale per il Personale della Scuola del Ministero della Pubblica Istruzione con nota Prot. N° 419/Uff. VII del 13.12.05

4. Fullan M., Hargreaves A., Cosa vale la pena cambiare nella nostra scuola? Erickson, Trento, 1991

5. Demetrio D., Raccontarsi. L'autobiografia come cura di sé, Cortina Raffaello, Milano 1996


Tags: merito, meritocrazia, Mastrocola


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