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Voglia di pedagogia televisiva
Europaquotidiano.it - 23-02-2011
di Stefano Balassone

Saviano tre mesi fa e Benigni a Sanremo hanno fatto pedagogia alla grande. Hanno cioè costruito una narrazione e strutturato un significato utilizzando come materiale di costruzione nozioni comunemente diffuse, vuoi attorno alle cricche vuoi attorno alla storia della unità d'Italia, riuscendo a mettere in contatto i loro concetti con la vita e l'esperienza di tutti. Non riusciamo a immaginare pedagogia più efficace, ma potrebbe stupire che ciò sia avvenuto proprio in tv, il luogo più antipedagogico che ci sia, perché non si riesce a fare un discorso filato, il pubblico scappa, la pubblicità incombe, etc etc.

Potremmo cavarcela dicendo che due eccezioni, per quanto ben riuscite, non smentiscono la regola. Ma la questione è troppo stimolante per cavarsela così a buon mercato. Perché Saviano e Benigni hanno dimostrato comunque che a una capacità di fare pedagogia corrisponde una effettiva domanda. I milioni di spettatori fuori ordinanza e l'eco successiva stanno a provarlo. Certo, non tutte le sere c'è la forza logica dell'autore di Gomorra o l'energia poetica di Benigni. Ma insomma, ci si potrebbe aspettare che, sia pure a livelli più correnti, la tv si esponesse tentando di dire qualcosa anziché dare l'impressione di tirare semplicemente la carretta. La causa di questa neghittosità non sta, a nostro parere, in particolari tare culturali o morali di chi fa la tv, ma nel fatto che in Italia si è smantellata la tv "generalista", intesa come la tv per tutti. Sicché i talenti narrativi trovano l'occasione giusta solo in occasione di eventi che momentaneamente ricreano quella tv che di regola ormai manca. Tutto nasce dal fatto che da noi il pubblico più popolare è diviso in compartimenti stagni.

Unico al mondo, l'Italia è infatti il Paese che ha inventato le imprese televisive dotate ciascuna non di un solo canale free terrestrial (come le corporation americane, TF1, Antena3 e Telecinco, l'ITV sul terzo canale inglese etc) ma di tre. Sappiamo che ciò è avvenuto non per disegno, ma per accumulazione progressiva delle reti messe indipendentemente in piedi a fine anni '70 da editori (Mondadori, Rusconi) privi delle spalle politico/finanziarie necessarie di fronte a un boiardo di regime come Berlusconi. Sta di fatto che questa tripletta, una volta che si è realizzata nelle mani di Mediaset (che ci tiene moltissimo perché ciò che essa controlla non può essere utilizzato da altri per introdurre concorrenza) ha prodotto una creatura tutta particolare: il "generalismo segmentato", ovvero una specie di contraddizione in termini.

Dove così non è, e ciascuna impresa dispone di una sola rete generalista (finanziata dalla pubblicità, accessibile a tutti etc) questa viene necessariamente costruita come un racconto "omnibus", distribuito lungo il flusso della giornata, con contenuti e linguaggi che devono cercare di tenere insieme, esattamente come a Sanremo, ceti e tipi umani tra i più diversi. Più ci riesce, più audience raccoglie e meglio se la cava rispetto ai concorrenti. Dunque ogni sforzo è volto alla sintesi e non alla segmentazione. L'opposto vale per l'Italia. Man mano che acquisiva dagli stremati editori prima Italia1 e poi Rete4, che finché vivevano facevano al suo Canale 5 una concorrenza a 360 gradi, Berlusconi, che non poteva continuare su quella linea altrimenti avrebbe fatto concorrenza a se stesso, le trasformò nella "rete per giovani" e nella "rete per vecchi".

La prima trendy, la seconda tradizionalista, con Emilio Fede in funzione di custode dell'ospizio e di conversatore per le sue ospiti. Diciamo che chiunque al posto di Berlusconi avrebbe fatto lo stesso: questione di semplice razionalità nelle condizioni date. Ma erano per l'appunto irrazionali le condizioni che gli avevano messo in mano l'intero territorio della televisione. I vecchi dirigenti della RAI, ai tempi del monopolio, la sapevano lunga e per questo avevano posto ogni cura a mantenere il primato di Rai Uno, inaugurando il secondo canale negli anni '60, ma in funzione di rincalzo. Poi vennero le reti di partito, che crearono tre generalismi in concorrenza. E la cosa poteva funzionare proprio perché la concorrenza c'era, come se facessero parte di imprese diverse. Abbiamo visto che a Berlusconi le circostanze hanno invece consentito , a partire dalla metà degli anni '80, l'ossimoro del generalismo segmentato. Sulla stessa strada fu in seguito avviata la RAI quando arrivarono i professori e la burocrazia, che mai aveva digerito la autonomia delle reti, colse l'occasione per lanciare il modello dell'ammiraglia -Rai 1- e delle navi scorta (Rai2 e Rai3). In sostanza, mutatis mutandis, il trasferimento nell'azienda pubblica del modello Mediaset.

Noi pensiamo che, messo in queste condizioni, il nostro sistema televisivo abbia inevitabilmente, inavvertitamente, giorno dopo giorno, cancellato i palinsesti adatti alla pedagogia di cui Saviano e Benigni hanno manifestato uno sprazzo potente, lasciando in compenso agire una "pedagogia senza discorso", abituando la gente a delimitare il proprio mondo/modo di entertainment, a fare a meno degli altri, a non guardare nel loro piatto, a restarsene sempre soddisfatti del proprio. In sostanza la nostra tv ha lavorato, senza saperlo -per come era combinata, non per quel che mandava in onda- per rendere reciprocamente invisibili culture, bisogni, sensibilità. Non mancano le analisi, potremo tornarci, che mostrano una affezione tribale di decine di milioni di spettatori e spettatrici, sempre delle classi meno provviste di moneta e cultura, nei confronti di questa o quella rete. Sono quelli, specie donne, specie anziane e specie al sud, che passano anche otto ore al giorno davanti alla loro tv e perdono il contatto con il resto della società. Schiavi nella caverna, direbbe il filosofo. Un fenomeno patologico, cui sfuggono, non a caso, le elites (beate loro, ma non è una novità).

Al tirare delle somme, siamo in presenza di un fenomeno culturale, ma anche -in profondità- politico, che discende da fattori strutturali. Capiamo che l'agenda dell'alternativa è già fitta di cose importanti. Ma forse sarebbe utile prendere in mano questi temi e cercare di capire se c'è ancora la possibilità di fare qualcosa per interrompere la deriva dei continenti della televisione generalista italiana. Senza illudersi che il salto nella multimedialità e altri miracoli digitali possano risolvere da soli i problemi. Si tratta infatti di fenomeni che, per fare una analogia urbanistica, determinano lo sviluppo delle vie laterali, ma non annullano la funzione delle piazze e dei viali dove tutti si possono incontrare e formare crocchi spontanei dove si parla delle cose di comune interesse. Chi vorrebbe una città senza grandi piazze? O con piazzette dove si incontra sempre la stessa gente?


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