Berluscocrazia: anche a Orwell verrebbero i brividi...
Federico Brusadelli sul Secolo d'Italia - 22-11-2010
Conflitto di interessi ed epurazioni. Ma soprattutto, la riscrittura della realtà

di Federico Brusadelli


George Orwell aveva immaginato il Ministero dell'Amore, è vero. Ma chissà cosa direbbe se sapesse che, ventisei anni dopo il "1984", è arrivato per davvero, e proprio nel democratico Occidente, addirittura un Partito dell'Amore. E chissà che penserebbe, se potesse leggere (sui giornali di un paese europeo del 2010) montagne di cronache politiche infarcite di "deferimenti ai probiviri", "documenti di espulsione", "interrogatori ai funzionari locali", "servizi deviati", "dossier", "killeraggi". Parole così maledettamente simili a quelle usate per descrivere i metodi e i meccanismi del Minamor. Parole che gettano un'ombra sul quel "grande, grande, grande partito liberale di massa" che doveva essere il Popolo della libertà.

Parole sinistre. Che lasciano trasparire, sempre più definita, un'identità ambigua, troppo vicina al profilo di quel famigerato e inflessibile custode dell'ortodossia di un partito unico, di quello spietato comitato di controllo, di quel monolite preposto a "convertire gli eretici", o in caso contrario a "giudicarli", a "colpire i dissidenti".

Eppure il Ministero dell'amore è la colonna vertebrale di una dittatura inumana, è il pilastro di un sistema totalitario che annulla l'individuo e ne calpesta la dignità. Non scherziamo. È roba lontana anni luce dalle democrazie occidentali, che pure hanno i loro difetti. Insomma, pochi dubbi: è solo fantascienza. E il Partito dell'Amore è solo un partito. Discutibile quanto si vuole, ma pur sempre protagonista di una stagione democratica. Di totalitario la nostra Repubblica non ha nulla, per fortuna. E la Costituzione garantisce la "democraticità" del sistema.

Eppure c'è poco da fare. A Orwell i brividi resterebbero. E resterebbe il dubbio, silenzioso ma insistente, che il Partito dell'amore (ma soprattutto il berlusconismo che ne è anima ed essenza) potrebbe trasformarsi nel cuore malato di un sistema non pienamente democratico. Di un sistema certamente non dittatoriale, sicuramente non totalitario, ma forse "morbidamente autoritario". Si tratterebbe di un progetto destinato a fallire, con ogni probabilità. Ma insidioso. Forse ancora più pericoloso dei foschi scenari orwelliani, proprio perché più avvolgente, più "normale". Più morbido, appunto.

La "psicopolizia" e la caccia all'eterodossia; la riscrittura della storia e la manipolazione della verità; il Grande Fratello e il potere delle telecomunicazioni; l'occhio dei media e le bocche dell'informazione. Sì, i brividi restano.

E resta la convinzione, sempre più solida, che il nostro Partito dell'amore, la nostra casa dei moderati, il nostro gioioso e accogliente popolo della libertà, si stia costruendo una sua concezione distorta e slabbrata della democrazia. Gli elementi, e qui il romanzo di Orwell funge quasi da manuale, ci sono tutti. In filigrana, ovviamente. Adattati a un contesto democratico, tanto per essere chiari. Ma ci sono. In potenza, c'è tutto. E qualche volte c'è già "in atto".

C'è, tanto per fare un esempio, la commistione ormai quasi mostruosa e difficilmente disricabile, tra governo e comunicazione, tra propaganda di partito e informazione, tra verità e opinione. C'è, per esser chiari, un grumo unico di potere politico, mediatico ed economico che si raccoglie attorno a un'unica persona, a un solo uomo. Una figura, peraltro, dal carisma "potente" e divoratore. Un uomo che si circonda di consiglieri di Palazzo (un tempo si sarebbero chiamati cortigiani) che praticano un culto della personalità ormai sfacciato e a tratti infantile, e che assecondano le sue battaglie sempre e comunque. Anche quando le sfide da politiche si fanno personali, anche quando rischiano di massacrare un paese intero, anche quando rischiano di trascinare nel fango le istituzioni, anche quando rischiano di portare al suicidio una maggioranza, un governo, un partito. C'è la prassi ormai quasi scontata di infangare gli avversari politici attraverso i giornali di proprietà e le televisioni di Stato. C'è la tentazione sempre più irrefrenabile di censurare, occultare, imbavagliare.

C'è la ferrea volontà di trasformare l'Italia nello scenario di una resa dei conti tutta personale, tutta privata, che sia contro i giudici, che sia contro i "comunisti", che sia contro chi ha osato alzare il dito o la voce, che sia contro chi ha stonato nell'intonare "Meno male che Silvio c'è". C'è il cinismo di una politica estera che passa, senza altra bussola che non sia quella dell'interesse economico, dalla fratellanza atlantica alla genuflessione libica, dal ranch alla dacia senza batter ciglio. C'è una retorica dei "valori" tanto declamata a voce quanto smentita nei fatti e nei comportamenti C'è un'inesorabile legge del doppiopesismo, per cui i "nostri" hanno sempre ragione e gli "altri" hanno sempre torto, per cui chi è nel "cerchio magico" è innocente a prescindere e gli altri sono comunque colpevoli, bugiardi, cattivi. C'è il richiamo martellante a categorie medievali: la lealtà personale, la fedeltà, il premio. C'è il gusto della compravendita. C'è l'idea aziendale e imprenditoriale della politica. Sì, i tasselli ci sono tutti. Manca l'ingrediente decisivo, per fortuna: manca la spinta "totalitaria". Ma gli ingredienti per un autoritarismo "morbido" e "culturale", prima che politico, nascosto dietro il paravento sgargiante del consenso popolare, ci sono tutti.

E però ce n'è un altro di ingrediente, che è terribilmente orwelliano e che rinforza la convinzione che questo Partito dell'amore rischi di subire una brutta metamorfosi, e che finisca con il rivelarsi, col tempo, parente non troppo lontano del Ministero dell'amore.

Perché non è certo un caso se qualche tempo fa sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista, per raccontare questo "nuovo corso" del Pdl, si è servito di uno degli artifici più noti del romanzo orwelliano: la "Neolingua": «una poderosa neolingua che ha soppiantato il lessico della vecchia "rivoluzione liberale", scomparsa con illacrimata sepoltura». Ed ecco, spiegava Battista, che «il dissenso, bollato come sabotaggio e slealtà anti-partito, diventa così, per miracolo lessicale, "controcanto quotidiano". Chi viene cacciato, un "fuoruscito", anziché, come vorrebbero la logica e il buon senso, un "fuorimandato": un espulso, insomma. Chi è a capo dei dissidenti, stando alle dichiarazioni del cattolico-liberale Maurizio Lupi, si trasforma nel "capo di una fazione"». Ancora: «gli umori sostituiscono i contenuti e gli argomenti del "rinnegato" diventano disturbi caratteriali, deplorevoli "ambizioni personali"», «chi parla, "sparla"», «chi non è d'accordo, "fa ostruzionismo"», «chi butta fuori i dissidenti è "liberale", chi è buttato fuori è "illiberale"».

Scriveva Orwell che il «fine della Neolingua era rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata, un pensiero eretico sarebbe stato letteralmente impensabile».

Ecco, allora, quell'ingrediente di pericolo in più. Ecco l'elemento che completa il quadro del berlusconismo, consegnandogli una tinta cupa e preoccupante: la tentazione del controllo delle idee, della ridefinizione delle cose. Non è questione da poco, se anche Confucio - uno che, piaccia o no, di politica ne capiva qualcosa - ammoniva i suoi discepoli così: "Per ben governare, bisogna innanzitutto rettificare i nomi". E non è un sofisma, non è un'ardita metafora: è realtà, è potere. La corrispondenza tra le parole e le cose (o le idee) è un formidabile strumento di controllo. Chi riesce a "ordinare" la realtà, la gestisce. E chi riesce a dominare le parole, allora domina le teste degli uomini. E non è poco.

C'è questo, alla radice della Berluscocrazia? È questo l'aspetto più orwelliano del berlusconismo? Forse sì. Al di là del conflitto di interessi e del controllo dei media, al di là dei nodi giudiziari, al di là dei conflitti istituzionali, al di là della china populista (anche perché il rapporto tra leader è popolo non è certamente un male, a patto che non si tramuti in un antidoto, buono per tutte le stagioni, per difendersi dalle regole e dai meccanismi della democrazia). Al di là anche delle facili critiche "estetiche", dai vulcani finti al machismo fuori tempo. Sì. C'è, al cuore del berlusconismo, nel nucleo più profondo del suo progetto, l'aspirazione al controllo delle immagini e delle parole. C'è l'ambizione di riscrivere metodicamente ciò che è importante e ciò che non lo è; c'è la costante ricalibratura del peso dei fatti. La Neolingua, insomma.

Un caso su tutti? La stucchevole storia della casa di Montecarlo. È grazie alla ridefinizione dei nomi, sorretta dalla potenza di un apparato di informazione sempre più monolitico e sempre più "controllato", che la compravendita di una casa, una questione tra privati, è diventata uno scandalo internazionale. Ed è grazie alla Neolingua che, in nome del talismano del "garantismo", è calato il silenzio sui veri scandali della nostra politica. Ma i nostri sono vittime, e gli altri sono carnefici. E la realtà si plasma, le emozioni si guidano più o meno dolcemente, il "nemico" si etichetta, si addita e si intrappola in una rete di specchi. Per poi annullarlo. E intanto il superfluo diventa essenziale, l'essenziale si diluisce e si perde. Ma i tentacoli della neolingua si allungano anche sul passato: la storia si riscrive, si deforma a seconda delle esigenze contingenti. Gli amici di adesso sono sempre stati amici, e i nemici sono sempre stati nemici. I comunisti mangiano ancora i bambini. La destra l'abbiamo sdoganata noi. Noi siamo la vera destra. C'è un complotto per farci fuori. E così i fantasmi del passato assumono consistenza, aleggiano sulla storia e ne condizionano gli esiti.

Anche questa è Neolingua. Anzi, per essere più precisi, è Bispensiero. È quel meccanismo psicologico, racconta Orwell, che consente di credere che tutto possa farsi e disfarsi. È la volontà, e la capacità al tempo stesso, di sostenere un'idea e il suo opposto. È l'ancora di salvezza per non trovarsi mai al di fuori dell'ortodossia: si dimentica il cambio di opinione e nello stesso istante si dimentica l'atto stesso del dimenticare. O ci si convince di esserselo dimenticato.

Due più due, da sempre, fa cinque: è così che si esercita il Potere.

Pubblicato sul Secolo d'Italia del 26 settembre 2010

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