Conoscenza: tanto costa il muro di Berlino
Giuseppe Aragno - 13-11-2009
Ci sono pensieri e opere di per sé neutri. Chi si propone di ricavar quattrini dal suo impegno non fa male a nessuno, né fa danni un concetto di formazione e conoscenza che escluda dai propri orizzonti il profitto. Per decenni questi due principi hanno saputo convivere pacificamente e, nonostante limiti, ritardi e insufficienza, scienza economica, prassi politica e dottrine della formazione accettavano l'idea fondante di un modello di crescita sociale che non un bolscevico, ma don Milani, uomo di scuola e di chiesa, aveva riassunto in una formula che aveva la forza dì un assioma: "chi si preoccupa di formazione e istruzione e trascura invece le occasioni di tirar l'acqua al proprio mulino non può far male mai".
Acqua n'è passata sotto i ponti e, tra la caduta del muro di Berlino e la fiction delle "Torri Gemelle", un modello di "eversione dall'alto" ha prodotto il collasso di Istituzioni democratiche partorite con segni di cianosi e a stento sopravvissute alla liquidazione della Resistenza e al riciclaggio del fascismo. Nonostante il naufragio del neoliberismo, da anni una spinta reazionaria di giacobini che hanno in odio il popolo ha rovesciato persino i valori cari alla "borghesia illuminata", sicché conoscenza e formazione sono ormai diventate un attraente "valore di mercato" e, di fronte all'idillio Gelmini-rettori, folgorati sulla via di Damasco, settori minoritari dell'università scoprono dalla sera alla mattina la privatizzazione dell'accademia, contro la quale da tempo si sono scatenate le demagogiche piazzate mediatiche sul "fannullonismo" e le sforbiciate "meritocratiche" subite dai fondi per la ricerca.

E' vero, qualche Laocoonte reduce dalle piazze in subbuglio, dalle scuole e dagli atenei occupati, aveva previsto la débacle, ma gli interessi di parrocchia, una concezione aristocratica e asindacale del ruolo dei docenti universitari, ne ha decretato l'immediato sacrificio. Gli storici diranno domani quale peso hanno avuto sulla Waterloo le oscure concertazioni e l'attendismo dimostrato, mentre la scuola, abbandonata a se stessa, affondava. Sta di fatto, però, che la coscienza civile non s'è svegliata nemmeno quando, in combutta con quei campioni della legalità che, dalla mattanza di Genova agli omicidi Aldovrandi e Cucchi, fanno temere una svolta autoritaria, il neofascismo s'è schierato contro gli studenti a Piazza Navona e in Parlamento.
Cassandra l'aveva previsto - ma si sa, Cassandra è pazza - che il modello aziendale non poneva alla scuola semplicemente la già discutibile questione della ricerca di un "compromesso" tra le preoccupazioni dei nostri "sani imprenditori" e le finalità di "sviluppo integrale" di tutte le classi sociali, figlie delle lotte del Sessantotto. Cassandra aveva "visto" che, in realtà, la pretesa era un'altra: subordinare la conoscenza alle leggi autoreferenziali del mercato e del profitto. Cassandra però è dannata a non esser creduta e, d'altra parte, da tempo la sinistra rabbrividisce quando sente parlare di conoscenza e cultura come "ricchezza che - sosteneva il Che - appartiene al mondo, è forse, come il linguaggio, qualcosa che appartiene alla specie umana".

Nell'assoluta indifferenza dell'accademia, da cui dovrebbe peraltro venire un qualche pensiero pedagogico, l'attacco alla scuola statale ha potuto puntare dritto al "prodotto finito": basta pensiero critico, occorrono militi disciplinati del capitale. E' stato un tracollo. L'etica dell'insegnamento scientifico ha ceduto terreno alla verità per fede del neoclericalismo, la formazione come strumento di emancipazione è stata accantonata per tornare alla trasmissione dei dogmi della cultura dominante, l'autoritarismo ha annichilito l'autorità dell'autorevolezza e alcune delle chiavi di volta della scuola moderna sono state spezzate: messa da parte la didattica modulare per tornare al "maestro unico" e sparita ogni forma di continuità didattica, un attacco selvaggio ha fatto terra bruciata dell'aggiornamento dei docenti, della formazione permanente e del rispetto dei ritmi di apprendimento. Persino il respiro universale del concetto di conoscenza è stato sacrificato sull'altare del più gretto localismo leghista. Nel silenzio complice di buona parte dell'accademia, si sono riprese le crociate e s'è riaperto lo scontro tra guelfi e ghibellini. Ora che tutto sembra perso, c'è chi si accorge che più difficile è il contesto in cui si opera, meno risorse giungeranno, che il "valore della conoscenza" non è rappresentato dal bisogno che ne sente la società - lo stesso che rende preziosa l'aria - ma segue il corso d'una qualunque merce e sopravvive solo se offre opportunità di guadagno a sponsor, strutture private e nicchie di mercato. Dietro l'attacco al Sessantotto - ora sembra chiaro - si nascondeva un principio di carattere puramente economico: un largo accesso al mondo della conoscenza - l'esito del diritto allo studio - equivale a un eccesso di produzione che svaluta la merce e mette a rischio il saggio di profitto. Come per il surplus di pomodori, si fa ricorso al macero. Meno facoltà statali, meno cattedre, meno ricercatori, meno fondi e, di conseguenza, meno ricerca nella formazione pubblica, tutto questo moltiplica la domanda nel privato e fa lievitare i prezzi. Due piccioni con una fava: costi alle stelle in una società classista, con una manovalanza d'ignoranti da trasformare agevolmente in clienti, crumiri e massa di manovra che, per dirla con Antonio Labriola, faccia da "bestiame votante". Con buona pace della sia pur asfittica democrazia borghese.
Tanto "valeva" il muro di Berlino, tanto paghiamo l'incapacità dei partiti storici di ispirazione marxista di trovare un'uscita a sinistra per il naufragio del "socialismo reale".

"il Manifesto", 17 novembre 2009
interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Alessandro Chiarini    - 15-11-2009
Lucido, quanto amaro. Che fare? Che si può fare? Com'è che siamo arrivati a questo punto? Non so quamte volte me lo chiedo da un po'. Forse bisognerebbe cominciare a pensare di andarsene via da un paese così incivile.

 Francesco Masala    - 16-11-2009
(Mi) faccio due domande a voce alta:
- esiste un punto toccato il quale si inizia a risalire?
- se la risposta alla domanda precedente è sì, quale settore della società potrà svegliarsi prima?

Naturalmente se esiste ancora una società, visto che il lavoro di rendere le masse, le classi, come una sommatoria di individui soli sta riuscendo alla grande e non sembra reversibile.
Il massimo della protesta è ormai fare un gruppo su facebook, purtroppo.

 Alessandro Vigilante    - 18-11-2009
Secondo me, più che uno specifico settore della società, dovrebbe svegliarsi una specie di cultura diffusa. Che é poi quella che si è già svegliata da tempo ed è tutta la rete di consumo responsabile, gruppi di acquisto, sviluppo sostenibile, decrescita felice, economia solidale, cooperative e mutue... banca etica, pannelli solari...

(Ringrazio l´autore del testo. Ha tratto lucidità nella mia visione del contesto)