A inizio secolo - il "
primo del nuovo millennio" ricorda la retorica dei pennivendoli - la terribile risposta del capitalismo ha spento sul nascere una voglia di cambiamento attraversata dai brividi di un'autentica ribellione. Sorpresa dalla luce di un'alba livida, la fragile impalcatura dei sogni, tuttavia, s'è sfasciata e il risveglio è stato doloroso.
Sono passati anni e, a ben vedere, tra i nostri giorni bui e le speranze di Genova 2001 non ci sono solo i "
democratici" alla Fini installati nella cabina di regia della repressione, il colpo mortale tirato a Carlo Giuliani - ma il bersaglio vero qual era? - la Diaz, Bolzaneto e l'intoccabile De Gennaro. C'è, quantomeno, l'insanguinato stillicidio dei "
testimoni scomodi", i giornalisti e quei fotografi che, per dirla con Josef Koudelka, le foto le "
fanno coi piedi" perché camminano per chilometri tra mille rischi, e fissano in uno scatto o in una frase le rare verità che giungono ormai nelle nostre case assediate da menzogne di Stato. Chi ricorda Maria Grazia Cutuli? Chi conserva memoria di Baldoni o di Raffaele Ciriello freddato dal mitra d'un carro israeliano?
C'è dell'altro. E di peggio: un sonno pericoloso della ragione.
Se Tremonti, folgorato con Saulo sulla via di Damasco, si riscopre socialista e carezza con la mano destra i 130.000 precari della scuola che con la sinistra va decimando, non ci sono dubbi: questo decennio di secolo presenta finalmente la sua natura vera, doppia e schizofrenica nei tratti dominanti: la costruzione artificiosa del consenso su base mediatica e puramente virtuale e la manipolazione del reale, per cui tutto è vero, ma vero è anche il contrario di tutto.
La distruzione del sistema formativo, che giunge alla fine del decennio, si incarna metaforicamente in un San Precario che illumina il Tremonti tornato "
socialista", ma non sa e non può parlare al Tremonti ministro e non lo induce a rompere col "
terrorismo psicologico" di quella Confindustria che di Genova s'è servita cinicamente per annientare la resistenza dei lavoratori. Non facciamoci illusioni. Non c'è spazio per la speranza e non ci sono dubbi: il lavoro non verrà da questo miserabile "
gioco delle tre carte". Non verrà, perché è chiaro che il precariato e la critica al precariato sono i due rovesci della stessa medaglia: il capitale "
buono", che cerca consensi alimentando i sogni che la politica di classe si incarica di soffocare con l'inaudita violenza scatenata a Genova. E' meglio dirselo: il miliardo di analfabeti che popolano il pianeta, l'infinita sequela di disperati e morti per fame sono un'umanità di scarto, una merce avariata che non ha mercato. Merce, spiegava non a torto Marx, sono per il capitale i lavoratori, i poveri e gli emarginati. E merce sono i precari d'ogni specie, i clandestini, i lavoratori al nero, i disoccupati che formano l'esercito sterminato dei crumiri. Merce e null'altro, che si vende e si compra a tanto al chilo, come gli studenti rapinati della scuola, gli immigrati respinti in un rinnovato Medio Evo, i cristiani lanciati strumentalmente contro i musulmani, mentre i bianchi tornano "
padroni dei neri" e i neri sono costretti a una nuova servitù.
Il dramma dei precari della scuola è una piccola e dolorosa goccia di sangue nell'emorragia provocata nel corpo sociale dalla sconfitta epocale del socialismo e dall'effimera vittoria d'un capitalismo stretto alla gola dalle sue stesse contraddizioni. E' parte della svalutazione dei diritti elementari - persino quello di vivere - della marginalizzazione e della repressione spietata d'ogni forma di dissenso e di qualsivoglia volontà di riscatto. Il sogno di una nuova "
narrazione del mondo" è morto a Genova, ucciso da una brutalità che pretende il silenzio su ogni vergogna del mercato, anche sui milioni di bambini che lavorano o muoiono di fame, comprati e venduti, merce tra merci, in nome del profitto. D'altra parte è innegabile: abbiamo le nostre colpe. Nuova democrazia, sussidiarietà, sostenibilità ecologica, eredità comune, diritti umani, lavoro, cibo sufficiente e sicuro, equità e diversità, le tante parole d'ordine del nostro "
nuovo mondo" sono state dall'inizio un sogno affascinante che non si è mai tradotto in un programma. E' mancata la consapevolezza. Se un nemico ti affronta con la forza, devi approntare macchine da guerra; noi marciamo invece in ordine sparso e ognuno contratta per la sua parrocchia. Contro la guerra preventiva dichiarata dal capitale siamo divisi e disarmati e questo ci condanna alla sconfitta. Per costruire un mondo nuovo occorrono buone penne, ma anche lettori avvertiti, armi taglienti, ma in mano a buoni soldati. Occorre che sia sveglio l'istinto vitale della legittima difesa. A Tremonti che riscopre l'anima socialista, timoroso delle conseguenze del malgoverno liberista, Robespierre chiederebbe "
come può il tiranno invocare il patto sociale, se egli stesso l'ha distrutto" [1]. E non avrebbe torto: il patto è stato violato.
1) Maximilien Francois Marie Isidore de Robespierre,
Sul processo del re. 3-12-1792, in
Opere complete, IX,
Discuors, (quatriéme partie, Septembre 1792-27 Julliet 1793 Phenix, Ivry, 2000.
oliver - 29-10-2009
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Gli scenari di guerra sono sempre discutibili, immaginare che da una parte ci sia la verità è almeno discutibile; sono d'accordo che marciare sparpagliati sia il male peggiore, credo che i sindacati italiani siano un esempio di separazione vergognosa anche se va riconosciuto ad ognuno di loro le proprie idee. Vorrei, infine sottolineare che loro hanno un capo dalla nostra parte molti vorrebbero essere capi e tracciare le strategie. |