Ancora sul buono scuola
Francesco Paolo Catanzaro - 21-09-2002
Sul “ buono scuola” le opposizioni politiche vertono verso una dilemma inquietante: si vuole favorire la politica del “diplomificio privato” e violentare l’istruzione pubblica?
E’ che il problema diventa sempre più contorto perché le discussioni si intestardiscono su posizioni di spaccatura anche della maggioranza al governo. Il dissidio nasce dall’identità dell’istituto non parificato. Il disegno di legge dà la possibilità di usufruire del buono scuola anche alle famiglie che vogliano mandare i propri figli in qualsiasi tipo di istituto privato, dunque, anche ai non paritari, non sempre di qualità ,specialmente quelli non religiosi.
Da una parte, dunque, la Casa delle Libertà rivendica una norma che possa vietare la possibilità di usufruire dei buoni a quelle famiglie che iscrivono i figli nei non parificati. Dall’altra il Presidente Cuffaro non riesce ad essere d’accordo con le prese di posizione della Casa delle Libertà. Infatti il disegno di legge nasce anche per favorire la frequenza delle scuole cattoliche, moltissime delle quali di ottimo livello, ma non ancora paritarie. E la discussione assume toni sempre più accesi.
Il problema del locus di facile produzione dei diplomi potrà essere superato da alcune disposizioni come l’obbligo per le scuole private di garantire agli alunni la frequenza per tutto il ciclo ordinario di studi, che sfateranno la possibilità di “ vendere” un’istruzione non di qualità o a volte fantomatica secondo la formula “ tre anni in uno”.
Non credo, però, che il buono scuola possa significare l’“avvelenamento” dell’istruzione pubblica, perché rimane la libertà delle famiglie di scegliere e di spenderlo tra istruzione pubblica e privata. Sicuramente si incentiverà la concorrenza ed il frutto finale potrà essere il miglioramento della qualità dell’istruzione purché si garantisca la ”sopravvivenza” del ruolo docente che non dovrà subire mortificazioni da speculatori privati, che, approfittando della situazione, continueranno a sfruttare il precariato nel privato, offrendo compensi retributivi miseri anche nonostante l’aumento dell’afflusso di utenza nelle loro scuole e nel loro patrimonio personale.

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