Vincere la violenza anche nel linguaggio
Virginia Mariani - 09-03-2009
Questo dal 2000 al 2010 è il secondo Decennio proclamato dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, unitamente con l'ONU, che le chiese cristiane sono chiamate a celebrare: Decade to overcome violence, il Decennio ecumenico per "Vincere la violenza".
...

Ma chiediamoci, dunque: dove nasce il Cristianesimo? All'interno di una società patriarcale, quella giudaica, di cui più volte Gesù ha denunciato contraddizioni e limiti; dove continuerà il Cristianesimo? Nella società romana definita dalla teologa Fiorenza Schussler "kiriarkale", cioè a forma di piramide con diversi gradi di dominazione e subordinazione nella quale le donne vengono a significare tutto ciò che è debole e si può sottomettere e controllare.

E ancora: chi per secoli ha pensato elaborato e scritto su Dio? Chi per secoli ha avuto accesso all'istruzione e poteva leggere e scrivere?

Per fare qualche esempio, Agostino dice che mentre l'uomo da solo è immagine di Dio, la donna lo diventa soltanto unita col marito (avete, infatti, mai riflettuto sulle parole "patrimonio" e "matrimonio"? Patrimonio: complesso di beni. Da pater. Matrimonio: accordo tra un uomo e una donna. "maternità legale", "perché apparisce più l'ufficio d'esso della madre che del padre...")

Nel Medioevo, poi, da una parte si faceva notare come non fosse decoroso per una donna saper leggere e fare di conto e dall'altra alcune leggi permettevano al marito di picchiare la moglie ma sempre "in modo ragionevole", ossia senza ucciderla.

Si capisce bene che queste idee, oggi contrarie a qualsiasi Costituzione e alla DUDU, garantivano la docilità della donna e la mancanza di SAS (senso di autostima) che non aveva identità propria e la cui dignità derivava unicamente dal legame con un uomo, padre, marito, prete...

Ma se devo ubbidire al capo famiglia che mi usa violenza, se gli abusi sono colpa mia perché sono come Eva, se addirittura la sofferenza che provo mi si dice che mi avvicinerà di più a Cristo... se sono esclusa dal sapere, se per la società non esisto, se non sono nulla, come posso "amare il mio prossimo" se pure linguisticamente il te stessa non esiste fagocitato da un "te stesso" che non mi include? Non sono amata, non mi amo, non posso amare o se amo lo faccio in modo sbagliato perché è un amore che in qualche modo mi si ritorce contro.


Uso non sessista della lingua italiana e linguaggio inclusivo


Sebbene leggere, come per esempio sui libri di Geografia, che "L'uomo modifica il paesaggio..." oppure "L'uomo distrugge l'ambiente..." mi dia un guizzo di gioia facendomi pensare o illudere che noi donne non siamo artefici o complici di tali brutture ai danni della creazione, il fatto che il termine uomo debba includere anche me mi dà una strana sensazione!

Insomma, credo che Nomen est omen (Il nome già contiene un presagio, Plauto) o che Nomina sunt consequentia rerum (I nomi sono corrispondenti alle cose, Giustiniano) e, benché sia un po' forte (blasfemo, sicuramente, per il mondo ebraico) come concetto, credo che anche la nostra parola crea: crea idee, relazioni, situazioni, emozioni. I nomi che usiamo e che diamo alle cose creano quelle cose lì dove prima non c'erano, corrispondono a cose che precedentemente non si pensavano e non esistevano. Così come il nome che non usiamo semplicemente non fa esistere la cosa e non corrisponde a nulla di concreto. Ecco perché è ora fondamentale parlare di femminicidio e non di un più indefinito omicidio.

Nel nostro linguaggio sessista e maschilista il femminile non esiste o fa davvero molta fatica a esserci (architetta è un po' ridicolo...; vigilessa, uhm...; professora suona male, da tempo esiste professoressa; però con pastora ce l'abbiamo fatta!)

Nel nostro linguaggio non esiste inclusione, non esiste la ricchezza della differenza e, dirò di più, il nostro linguaggio è violento e proprio bellicoso.

Pensiamo a più ricorrenti modi di dire: essere alle prime armi (essere alle prime esperienze, agli inizi), fare una guerra a perdere, essere una guerra persa (essere un insuccesso, iniziativa fallimentare), stare all'erta (essere attenti), essere in trincea (trovarsi in posizione di difesa o in condizioni difficili), a prova di bomba (cosa solidissima), bomba calorica, stare sul fronte del, avere un'arma segreta...

A parte i film, i programmi televisivi, le immagini, il nostro modo di parlare è inconsapevolmente violento per non parlare delle relazioni troppo spesso prepotenti e intolleranti.

Quante volte, infatti, diciamo: "Tu hai torto" anziché "Ho un'opinione diversa..."; "Devi, dovete..." invece di "Vorrei che..., Mi piacerebbe che..."; "Si sa..." anziché "Secondo me..."...

Nell'ambito della nonviolenza questa è la comunicazione ecologica che trasforma il potenziale negativo del nostro linguaggio in potenziale positivo (per meglio valorizzare il potenziale di ciascuno senza mistificazioni ipocrisie e mistificazioni).

C'è davvero il rischio, e concludo, che ci abituiamo agli atti di violenza perché viviamo situazioni quotidianamente e sottilmente violente, oltre che di degrado culturale! Perché le parole che usiamo, oltre agli atteggiamenti o all'intonazione, sono nomi che creano e rievocano con prepotenza la violenza!

Non dobbiamo passare sotto silenzio questa piaga della nostra società, come Dorothee Sölle ha denunciato nel suo libro "Violenza: non mi devo abituare" (Düsseldorf 1994).

Deve essere chiaro che ogni forma di violenza sulle donne, sulle bambine e i bambini, sulla parte più debole della società è violenza contro l'intero genere umano.
Molte forme di violenza sono accettate, non si notano più, sono sommerse sotto il silenzio: violenze strutturali, culturali e gli effetti economici della globalizzazione fanno parte del mondo in cui viviamo e anche della nostra vita... il modello patriarcale, kiriarkale, non soltanto è ingiusto ma ha chiaramente fallito in politica, in economia, nella vita di tutti i giorni: bisogna con coraggio e creatività ripensare rinominare e rifare tutto!

interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf