Cos'é e come si fa una riforma della scuola
Gianni Gandola, Federico Niccoli - 12-11-2008
Che la cosiddetta "riforma Gelmini" in realtà non sia una riforma è stato riconosciuto da più parti, di diverso orientamento. Non solo dalla Cgil e dall'opposizione politica ma persino da Emma Marcegaglia che - come ha scritto su Repubblica Eugenio Scalfari - di certo bolscevica non è, fino a Famiglia Cristiana o al Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (Azione cattolica). Tutti quanti a sottolineare il fatto che si tratta di un puro e semplice taglio di spesa.
Ma, al di là del contenuto, quello che colpisce - e che indispone - è il metodo seguito per arrivare all'approvazione del decreto 137 ed alla sua conversione in legge. Anche qui, come è stato da più parti rilevato, non c'è stato nessun confronto con il mondo della scuola, con le associazioni professionali, con i pedagogisti. E nessun serio dibattito parlamentare. Questa è forse la cosa più grave, in una democrazia degna di questo nome.

Visto che al centro dell'attenzione è balzato il tema del maestro unico, vale a dire del sovvertimento radicale dell'assetto ordinamentale della scuola elementare, vale la pena di soffermarsi sull'ultima grande riforma di questo ordine di scuola e di fare qualche riflessione su come ci si è arrivati.
Ci sembra molto parziale e imprecisa la ricostruzione che ne ha fatto recentemente Mario Pirani su Repubblica (1). Innanzi tutto Franca Falcucci, "mitico ministro democristiano" che oggi è sicuramente da rimpiangere, non era ministro dell'istruzione nel 1990, al tempo dell'approvazione della riforma degli ordinamenti, ma semmai nel 1985 al tempo dell'approvazione dei nuovi programmi. Nel 1987 infatti le successe Giovanni Galloni (il ministro della "sperimentazione" dei moduli) e quindi nel 1989-90, al tempo della legge di riforma n.148, Sergio Mattarella. E' del tutto improprio quindi parlare della legge 148, che introdusse i moduli e confermò il tempo pieno nella scuola primaria, come della "riforma Falcucci"!

Inoltre non corrisponde al vero che l'istituzione e la generalizzazione dei moduli nella scuola elementare sono stati il diretto risultato di pressioni sindacali per aumentare gli organici dei docenti. Ha scritto opportunamente Sergio Mattarella che "la ragione della riforma del '90 non è stata, al contrario di quanto incautamente dice la Gelmini, "aumentare il numero degli insegnanti" che non è aumentato, e neppure quello di mantenerne il livello a fronte del calo demografico. La ragione è stata la consapevolezza del grande ampliamento dell'ambito dei saperi che la scuola elementare era chiamata a impartire ai bambini verso il duemila."
E aggiunge: "La riforma del '90 fu il risultato di un lungo e approfondito dibattito; non soltanto politico e parlamentare, ma anche della cultura, anzitutto tra i pedagogisti, del mondo della scuola, tra le associazioni di docenti e nel sindacato." (2)

A dimostrazione di questo assunto basta richiamare alcune delle tappe che hanno segnato il percorso attraverso il quale si arrivò alla legge 148, un percorso intrapreso addirittura all'inizio degli anni '80.
Allora si poneva infatti il problema del superamento dei programmi del 1955 (quelli che avevano al centro la religione cattolica "fondamento e coronamento" dell'istruzione). Nel 1981 il ministro Guido Bodrato (democristiano) istituì una commissione di lavoro, presieduta dall'on. Giuseppe Fassino (PLI) e dal pedagogista Mauro Laeng con il compito di rielaborare i programmi della scuola elementare. Dopo qualche anno la commissione (composta da pedagogisti e rappresentanti delle varie associazioni professionali, di diverso orientamento culturale) presentò una bozza provvisoria che venne discussa e diffusa nelle scuole. Nel 1985, dopo alcune modifiche apportate tra l'altro dallo stesso ministro allora in carica, Franca Falcucci, i programmi vengono approvati da un ampio schieramento parlamentare.
Una volta definito il "contenuto" (finalità, obiettivi e contenuti dell'insegnamento) si pose il problema di quale fosse il "contenitore" (il modello organizzativo) più adatto, maggiormente funzionale alla attuazione dei programmi stessi, incentrati sugli ambiti disciplinari e sulle educazioni.

Indubbiamente pesò, come modello di riferimento, l'esperienza della scuola a tempo pieno, presente in alcune realtà del paese come "sperimentazione" di una didattica innovativa. Non era pensabile una generalizzazione del tempo pieno (ipotesi sostenuta da alcuni) da un lato perché in molte aree del paese non vi erano le strutture idonee (mensa, ecc.), dall'altro perché un unico modello orario di tempo lungo sembrava eccessivo. Venne così avviata la sperimentazione dei moduli didattici (ministro Giovanni Galloni, DC) che del tempo pieno riprendeva comunque un punto di forza (l'idea del team docente, della programmazione collegiale e dell'articolazione flessibile del monte-ore) ma che proponeva un tempo scuola più contenuto, limitato ad alcuni rientri pomeridiani.
Occorre ricordare - in quanto fatto significativo - che quando Fassino e Laeng consegnarono il testo dei nuovi programmi al ministro Falcucci, lo fecero con una "lettera di accompagnamento" nella quale si diceva esplicitamente che per poter attuare quei programmi erano indispensabili alcune condizioni. Fra queste "condizioni di fattibilità" figuravano innanzi tutto il superamento della figura del maestro unico, considerato inadeguato e non più sufficiente, e conseguentemente la proposta della pluralità dei docenti e il "tempo necessario", individuato in 30 ore di lezione, allo scopo di favorire "tempi distesi" per l'apprendimento degli alunni. Queste due condizioni furono alla base dell'organizzazione modulare (e dello stesso tempo pieno, al netto del tempo mensa). Alla fine della sperimentazione triennale dei "moduli didattici", sperimentazione assistita e verificata dagli ispettori tecnici, si arrivo alla legge n.148 del 5 giugno 1990 "Riforma dell'ordinamento della scuola elementare".

Altro aspetto importante che giova ricordare. Per preparare il terreno ai nuovi insegnamenti previsti dai programmi e dai nuovi modelli organizzativi, si predispose un piano quinquennale di aggiornamento che coinvolse, come formazione obbligatoria, tutti i docenti della scuola elementare.
Questo per dire che si arrivò alla legge di riforma del 1990, n.148, con un lungo percorso che teneva insieme nuovi programmi di insegnamento, nuovi modelli organizzativi e formazione dei docenti.

Due considerazioni finali, allora. La prima: come è agevole vedere l'evoluzione dei modelli didattici e organizzativi della scuola elementare c'entra ben poco con il '68. La Gelmini e Tremonti hanno sostenuto che vi sarebbero "quarant'anni da smantellare", riconducendo tutti i mali della scuola al '68 (3). Bisognerebbe tornare dunque al passato, a prima del '68 (quindi al maestro unico, ai voti numerici, ecc.). Ora, come abbiamo ripetutamente sottolineato nel testo dell'articolo, tutti i grandi cambiamenti e le innovazioni prodotte nella scuola primaria (dalla legge n.820 del 1971 in poi) sono avvenuti sotto l'alto patrocinio di ministri dell'istruzione democristiani e con il contributo rilevante (anche) di pedagogisti di area cattolica. Altro che '68!
Seconda considerazione. Una riforma seria della scuola non può prescindere dalla scuola reale. Prende spunto dalle esperienze più innovative e dalla loro verifica. Coinvolge nelle proposte di cambiamento il mondo della scuola, i docenti, i dirigenti, le associazioni professionali. Si confronta con le forze politiche e sindacali. Necessita di un confronto serio e di tempi lunghi. Tutto quello che non è stato fatto in questi mesi. Basti dire che se ci sono voluti 9 anni per arrivare alla riforma del 1990, sono bastati 9 minuti (così, è stato detto, è durato il Consiglio dei ministri) per varare la "riforma" Gelmini.

Gianni Gandola, Federico Niccoli


Note

(1) Mario Pirani, "La scuola e le sue spine. La verità sulla riforma Gelmini", La Repubblica 10 novembre 2008
(2) Sergio Mattarella, "Così la scuola torna a De Amicis", quotidiano Europa 7.9.2008
(3) vedi articoli sul Corriere della Sera del 22 agosto scorso di Gelmini ("Quarant'anni da smantellare") e Tremonti ("Il passato e il buon senso")

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 Francesco Di Lorenzo    - 12-11-2008
Bravi. Giusta, esatta e oggettiva la ricostruzione della vicenda legata al maestro unico. Il problema è che su questo argomento si è giocato con gli istinti profondi del popolo, che si sa, sono a dir poco moderati se non reazionari. Si è avuto quindi buon gioco a scompaginate le cose. Poi, il secondo problema è che nello specchietto sono caduti anche quelli che avrebbero potuto e dovuto sostenere che il ritorno al maestro unico è un'idea inaccettabile attualmente (per essere educati). Ma come avete benissimo ricostruito, si parla di cose di scuola senza conoscere bene la materia del contendere. Ormai, è uno sport, un po’ come parlare della formazione della nazionale di calcio. Parlano tutti, alcuni palesemente pagati per difendere posizioni, altri, invece, ancora peggio, parlano non sapendo o confondendo. Oppure dando anche loro libero sfogo agli istinti intimi, che seppure da posizioni che si vorrebbero progressiste, sono istinti retrivi e antiquati. Un’ultima riflessione, sul ’68. Dai discorsi dei ministri in carica si parla di ’68 come di una piccola cosetta di un gruppo di ragazzetti italiani impertinenti, da dimenticare al più presto. Ma cos’è? È mancanza di conoscenza, di senso della storia, voler ignorare che la rivolta studentesca nel sessantotto investì Berkeley, Berlino, Nanterre, Tokyo, Londra, Milano…e tutte le altre città e cittadine di mezzo mondo, ad essere buoni. La rivolta iniziata nei campus universitari americani con il movimento contro la segregazione razziale e la guerra in Vietnam, esplose in Europa e in Giappone e si trasformò in una protesta contro l’ordine sociale, la guerra, la famiglia, i valori della società borghese. Spontanea, gioiosa, libertaria e creativa, ma anche violenta, rivendicava “l’immaginazione al potere” e consacrò la nascita di una ‘controcultura’.
Loro dicono di voler tornare a prima del ’68. Beati loro, e buona fortuna.


 Francesco Di Lorenzo    - 13-11-2008
Stamattina nella mia classe una ragazza, Veronica, nello stendere il resoconto di una discussione fatta, ha scritto che abbiamo parlato di ministro unico. Geniale, il lapsus: ministro unico. Né Tremonti, né Mercegaglia, né Brunetta. Rivogliamo il ministro unico.