L'orrore
Marino Bocchi - 15-11-2007
E' successo nella mia città, il 31 ottobre, il giorno prima delle vacanze. Una ragazza marocchina dell'Istituto d'arte Venturi arriva tardi in stazione delle Corriere. Abita nella Bassa modenese. Vede la sua corriera partire. Non può aspettare quella che partirà un'ora dopo. Al Venturi si fanno 40 ore settimanali. Troppe.

Correre, correre. .. per raggiungere quella maledetta corriera che sta svoltando verso il piazzale d'uscita. La raggiunge. Scivola. Finisce sotto le ruote motrici posteriori. L'autista non se ne accorge. Alcune mie alunne marocchine e non del Cattaneo, sono sue amiche, vedono a Sara Hamid spappolarsi il cervello. Basma, che era presente, me lo racconta singhiozzando. Altri testimoni filmano la scena, aggiunge scandalizzata. Al rientro dalla mia gita a Roma, Matteo, molto bravo e responsabile, un ragazzo d'oro, mi racconta che vuole organizzare un incontro fra i rappresentanti di classe perché, dice, sui cellulari girano filmati tremendi della ragazza stritolata.

Passano alcuni giorni e la notizia esce su Repubblica, in prima pagina. La leggo in classe. Il Preside del Venturi, che ha denunciato il caso, dice che noi, come insegnanti, abbiamo fallito, perché non siamo più considerati maestri o modelli dagli alunni ma solo "tecnici" (bella scoperta): peccato che lui, preside e gli altri come lui, e tutta una pedagogia alla moda che ci perseguita, da Berlinguer in poi, abbia cercato di convincerci che siamo, appunto dei tecnici. E spesso sulle liste di discussione si leggono interventi tecnici.

E allora? Allora niente. Stiamo tranquilli, noi "tecnici" o "maestri" non c'entriamo un cazzo. I presidi, si sa, come i ministri, come i docenti, sono pagati per il flatus voci quotidiano con cui si guadagnano la pagnotta. Ripetono, ripetiamo, che la scuola può tutto. Poveri guitti che siamo al servizio di un sistema che ci propina ogni giorno la realtà e la violenza come uno spettacolo da consumare, da filmare, da rappresentare, allontanandoci dai fatti.

E allora. Primo fatto: una ragazza muore sotto le ruote di una corriera che avrebbe dovuto portarla a casa.
Secondo fatto: alcuni coetanei la riprendono, godendo dello spettacolo (per loro non reale ma virtuale, secondo l'educazione ricevuta). Altri piangono.
Terzo fatto: i giornali, su denuncia del preside in carriera, fanno il loro solito lavoro sporco: la condizione giovanile, il disagio, i genitori separati (è sempre colpa dei genitori separati), generalizzano, banalizzano come loro solito.

A me rimane il dubbio che i ragazzi che mandano il filmato dell'orrore su Internet, siano figli nostri. Figli della nostra scemenza. Facciamo schifo, se permettete. Facciamo, ho detto. Mi considero il primo della lista, davvero.

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 Annalisa    - 18-11-2007
Orrore, questa è la parola giusta e non ne servono altre. Il fatto che la ragazza sia marocchina non c'entra niente, sarebbe potuto succedere anche ad un'italiana. Noi docenti dobbiamo prenderci le nostre responsabilità, perchè siamo educatori oltre che professori, ma spesso ce ne dimentichiamo, o ce lo fanno dimenticare sotto la mole di burocrazia con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni. Sono educatori anche i genitori, separati o no, benestanti o no . Se tutti insieme torniamo ad educare forse costruiremo dei giovani migliori.

 Sergio Betti    - 18-11-2007
Condivido tutto: avrei potuto scriverlo io.

 Giuseppe Aragno    - 18-11-2007
Non so quanti presidi siano anche genitori, non so nemmeno quanti insegnati abbiano figli e come si faccia, quando i figli ci sono, a distinguere nettamente tra padre e preside, tra docente e genitore. La scuola è parte di un mondo. Ci sono tantissimi attori e conduttori televisivi che sono anche genitori, ci sono giornalistii e imprenditori sposati con prole, politici con mogli e figli. C’è qualcuno disposto a negare che la qualità media della stampa, della televisione e della vita politica sia estranea a ciò che accade nelle scuole? Qualcuno crede davvero che la precarietà del lavoro difesa a spada tratti dagli imprenditori, con ciò che ne consegue, aiuti i ragazzi ad amare la scuola e la vita? C’è chi, in buona fede, se la senta di negare che, nel mondo in cui viviamo, la scuola sarebbe spalle al muro anche se ci mettessimo dentro una marea di insegnanti “maestri”? E c’è qualcuno disposto a sostenere che affondiamo nel fango per colpa dei ragazzi? Ci piaccia o no, il meglio che abbiamo sono ancora loro, i ragazzi. Anche questi dei filmini e dell’indifferenza per la morte di una compagna. Meglio certamente, molto meglio, di chi li ha condotti al punto in cui scopriamo che sono. Marino non ha torto: è uno schifo. Io non credo però che tutte le vacche siano bianche e che, se siamo a questo, ci abbiamo messo tutti del nostro. Credo, piuttosto, che dopo una durissima battaglia, il capitalismo abbia sbaragliato il campo e imposto un suo feroce modello di sviluppo e di società. Le radici – e la responsabilità storica - di quello che accade sono lontane. Non siamo stati però tutti sulla stessa trincea e ognuno ha la sua storia. Io capisco l’orrore e lo sconforto, ma non me la sento di assumere responsabilità che so di non avere. Non sono figlio di alcuna scemenza e non ho fatto schifo. Ho perso, questo sì, e ho pagato e pago di persona. Credo anche che la durissima sconfitta patita non segni automaticamente la fine della guerra. Penso – e sono certo, anche Marino – che molti giovani di una generazione che paga il prezzo della nostra sconfitta saranno buoni soldati in una guerra che sempre più assume i caratteri di lotta per civiltà contro la barbarie. Siano altri a giudicare. Io non rinuncio a seminare dubbi e a cercare di suscitare domande.

 Alberto    - 18-11-2007
Io non sono d'accordo con l'impotenza, la negatività, il senso di sconfitta di Marino; e non perché non abbia ragione, anzi... sono sentimenti inevitabili di fronte ad episodi del genere.
Il discorso è un altro.
Perché una volta (diciamo una cinquantina d'anni fa) non sarebbe venuto in mente a nessuno di filmare e diffondere le immagini di un cadavere straziato? Perché la solidarietà era un valore condiviso. Non c'erano ragioni particolari, non si faceva e basta. Chi lo avesse fatto (con la macchina fotografica, le telecamere erano fantascienza) era considerato, nell'opinione di tutti, una specie di mostro. Persino se era giornalista.
Fine.
Esistevano dei 'paletti' alla libertà di esprimersi, di riprendere, di fare e compiere ed agire. Paletti universalmente riconosciuti e chi li oltrepassava andava incontro alla disapprovazione generale. Nessuno si sentiva limitato nei suoi diritti individuali, nessuno soffriva sotto una (presunta) dittatura dello spirito: e non dipendeva, questo clima, da una particolare religione o da una particolare imposizione di sistema. Valeva per tutti.
Porre in discussione certi paletti, certi limiti, certi pudori è diventato, da un certo tempo in qua, una specie di obbligo. Al punto da diffamare chi ancora li rispetti, da diffidarne addirittura come pericoloso relitto di tempi oscuri.
Io appartengo alla generazione che ha contribuito alla demolizione di determinati 'confini' (io li chiamo, ma sono fuori moda, 'valori') però non credo di avere fatto molto per demolirli, anzi li ho ancora dentro e cerco, come posso, di rispettarli; li propongo ai miei allievi; ne discuto, anche; provo ad essere per loro un esempio. Nei miei limiti, ben s'intende, ma con la responsabilità di chi ha vissuto almeno trent'anni di più. Alla faccia del mio essere tecnico (che pure esiste, io sono orgoglioso di essere 'anche' un tecnico, ma la mia umanità non si esaurisce certo in questo).
E' sufficiente? Ovviamente no. Ho, abbiamo tutti contro: televisione, giornali, mentalità, partiti, opinioni, sistema economico, colleghi (ebbene sì, anche colleghi; e tu lo sai Marino).
Io però lo faccio lo stesso. Perché non sono solo nel mio operare. Perché ho incontrato Cristo e non me ne vergogno; perché questo incontro riempie di senso e di speranza un agire altrimenti insensato.
Tutto qui.

 Marino Bocchi    - 18-11-2007
Si', anch'io caro Geppino cerco di porre dubbi e suscitare domande ma non ho piu' le risposte. Quelle che avevo non mi servono piu' per capire. Quelle che vorrei, non le conosco. Vivo fra i miei studenti, li interrogo, li ascolto. Fra mille incertezze, titubanze, linguaggi e concetti per me astrusi, ogni tanto intravedo un barlume di una speranza nuova. Ma non sono piu' le speranze della mia generazione. Sono altre, che appartengono a loro, non a me. Io non mi sento figlio della sconfitta perche' non ho mai avuto una chiara coscienza politica. Prepolitica, esistenziale, direi piuttosto. Sono sempre stato marxista nel senso di Groucho piu' che di Carlo, se mi passi lo slogan piu' bello del '68 e non di quello che e' venuto dopo. Il mio e' un anticapitalismo resistenziale, nella consapevolezza pero' che il capitalismo, quello vero, ha annientato e frantumato il tessuto sociale, il cuore e i cervelli di troppi giovani, studenti, precari, senza prospettive. E la prospettiva abbiamo contribuito a cancellarla anche noi, che abbiamo creduto nella possibilita' di costruire un paradiso in terra, facendo dell'Utopia una camicia di forza, un aut-aut: o l'Utopia o il deserto. Ci e’ rimasto il deserto. E non mi dispiace. Intanto perche’ un po’ nichilista lo sono e poi perche’ il deserto e’ vita, tracce, sentieri di sabbia, forme di vita sconosciute, da scoprire. Le trovi lungo le piste che attraversi, che non portano da nessuna parte. Ogni tanto un’oasi.

 C66    - 19-11-2007
da "La Stampa" del 16/11/2007 ... un articolo sul quale meditare:

"Caporetto" di Antonio Scurati

Forse ci siamo. È arrivato il giorno dell’Uomo Nuovo. È finalmente giunto il tempo della liberazione da ogni costrizione - quella rivoluzione annunciata da tanti profeti del secolo scorso - il tempo dell’avvento di un essere umano completamente disinibito, reintegrato nella pienezza dei suoi istinti, riconciliato con tutte le sue pulsioni più profonde e irruente.
C’è, però, una sgradevole sorpresa: quest’uomo nuovo puzza di afrori barbarici, si muove guidato dalla stella della predazione, da una voracità del desiderio impellente nel quale si mescolano distruzione e godimento. E c’è una seconda sorpresa, ancora più sgradevole: questo divoratore incontinente non è il romeno clandestino abbrutito da una vita nelle baraccopoli. No. È la ragazzina italiana allevata nel benessere delle nostre case iperammobiliate.
Ed è anche il ragazzo italiano interamente immerso nei piaceri del tempo libero, il sesso occasionale, la musica, lo sport; è il liceale attrezzato tecnologicamente a fare da voyeur dello strazio altrui. Guardiamo a tre episodi della cronaca recente. Ieri a Mortara una sedicenne prende a ceffoni il suo professore. Non contenta, si getta in un corpo a corpo con l’insegnante reo di averle proibito di abbandonare la scuola per unirsi, secondo consuetudine, alle gozzoviglie dei goliardi della sua cittadina. Il preside la punisce con quindici giorni di sospensione. Poi potrà tornare in classe a ricevere un’istruzione dall’insegnante aggredito. Domenica una banda di ultrà mette a ferro e fuoco per ore il centro di Roma, assalta le caserme di polizia e carabinieri, e da quella di Ponte Milvio porta addirittura via la bandiera del reggimento. Il che, in base al linguaggio delle simbologie guerriere, significa che le forze armate dello Stato italiano sono state sconfitte sul campo da una banda di tre o quattrocento giovinastri. La settimana scorsa viene diffuso su internet un video che ritrae una sedicenne travolta da un autobus. Le riprese sono state eseguite dai suoi compagni, le immagini diffuse su YouTube accompagnate da commenti eccitati e risate a sottolineare l’atroce goffaggine di un cadavere scomposto, di un cranio spiaccicato al suolo.

Adolescenti aggressivi, genitori remissivi
Sono tre episodi che raccontano di un Paese in rotta, di una eterna Caporetto, di un’Italia in ritirata disordinata nella quale nessuno più «tiene la posizione». A prima vista sembrerebbe che a travolgere le istituzioni, e con esse i capisaldi del vivere civile, sia l’orda straniera dei nostri stessi figli. L’ultimo rapporto Ispes parla di «pedofobia», rivelando che nelle case italiane i figli spadroneggiano, che bambini e adolescenti diventano sempre più aggressivi dinanzi a genitori timorosi e remissivi. Ma non è così. Non c’è un’umanità adulta, costumata e pacifica di fronte a una gioventù scostumata e violenta. La sfrenatezza sessuale, l’aggressività violenta, la crudeltà voyeuristica dei nostri ragazzi viene costantemente alimentata da un’incitazione al godimento immediato, funzionale alla società degli iperconsumi, da una vero e proprio addomesticamento alla barbarie dello sfogo pulsionale assoluto.
Da quasi trent’anni la scena mediatica è un teatro di ferocia e di eccitazione parossistica, da quasi venti un nuovo ceto politico si fa vanto di attaccare e discreditare le istituzioni dello Stato e gli istituti fondamentali del vivere associato (la magistratura e il fisco su tutte, e poi, subito a ruota, la scuola e l’università).

Stiamo allevando una umanità ferina
La sfrenatezza dei nostri figli che prendono a schiaffi i professori quando richiamati dalla sirena della goliardia, dei giovanotti che assaltano le caserme dei carabinieri senza nemmeno moventi politici, degli scolari di istituti d’arte che godono dello strazio di una loro compagna sedotti da una perversa estetica della crudeltà, tutto questo non indica una regressione alla bestialità primigenia, non un ritorno alla natura. Al contrario: è il frutto di una cultura che al tempo stesso rimpicciolisce l’uomo (nel suo senso morale, civico, estetico) e lo potenzia nella sua sensualità di soggetto di godimento, è il frutto di una società che al tempo stesso inibisce (al rispetto delle istituzioni, alla pietà per il prossimo, alla capacità di pensiero e di immaginazione) e disinibisce a tutto il resto. Una società in preda a una vera e propria metafisica della disinibizione. Sfondato ogni orizzonte umanistico, stiamo allevando un’umanità ferina.
Non ci stupiamo poi se suona l’ora dell’oscenità generale. Come scrive Alain Badiou, «quando il godimento è ciò che ogni vita vorrebbe assicurarsi e si pone come imperativo categorico, ciò di cui si finisce inevitabilmente per godere è l’atrocità».

 Giuseppe Aragno    - 19-11-2007
Caro Marino, te lo dico sommessamente, ed è una risposta che ti propongo solo come ipotesi di ragionamento, perché davvero ho vissuto la mia vita rifiutando ogni certezza. Sommessamente e sperando di essere chiaro, come temo di essere assai di rado e come purtroppo non è mai facile ottenere da se stessi. Non conta che abbiano le nostre speranze. Conta che ne abbiano. Saranno come saranno, né Groucho, né Carlo. Avranno umanità, quanta ne abbiamo avuta noi, e la tireranno fuori dalle incertezze di oggi, dalle titubanze, dai linguaggi e dai concetti che sono astrusi per noi, quanto i nostri lo furono per altri al tempo nostro. Tutto questo accadrà, lo spero e ci credo, accadrà è legge della storia, che può fare certamente passi indietro, ma non può spegnere del tutto intelligenze e speranze. Accadrà, se prima non ci annienta un irrimediabile collasso ambientale o non so che possibile catastrofe.
Non sono io a inventarmelo, tu lo scrivi: “vivo fra i miei studenti, li interrogo, li ascolto”. Fai la tua parte, quindi, la stai facendo e la farai ancora. Testimone d’un tempo, passi il testimone, com’è giusto che sia. Non altro, penso, tu possa aspettarti da te. In quanto al resto, insisto, senza pretendere di aver ragione. Libertari o, come temo ti mi veda, “autoritari”, non credo che la nostra generazione abbia creduto nella possibilità di “costruire un paradiso in terra”. Tutt’altro. Si trattava di evitare che ci conducessero all’inferno come sta accadendo: “socialismo o barbarie” potrei dire, anche quella pseudo socialista, e, se non sbaglio, avevamo con noi non solo Marx, ma Rosa Luxemburg, Marcuse e magari, perché no?, anche Benjamin. Quello che sta accadendo noi l'abbiamo combattuto. Il deserto, tu dici. D’accordo. Ma non lasciamoci derubare anche delle oasi. Partiamo da qui: non è del tutto vero che le oasi siano “nessuna parte”, quando si ammette che il paesaggio è un deserto. Esse sono probabilmente ciò che tu chiami utopia. Molti, sotto il sole implacabile del deserto, allucinati, credono di vederle e non ci sono. Questo non vuol dire però che non esistono e che in un deserto non serve cercarle. Le oasi sono valori. E i valori sono necessari come l'acqua. Ogni generazione ha i suoi, e i ragazzi lo sanno: stanno cercando i propri in un mondo ridotto a un deserto. I ragazzi lo sanno, come lo sapevamo noi nel tempo in cui fummo ragazzi. Occorre ricordarlo e, per quanto mi riguarda, cerco dentro di me l’umiltà per tornare ad imparare.

 Marino Bocchi    - 19-11-2007
Caro Geppino, autoritario tu? Non scherziamo. Tu che hai curato il Dizionario biografico degli anarchici italiani? Tu, con la tua umanità, la tua sensibilità'? No, io mi riferivo agli ortodossi. Ti riconosci fra gli ortodossi? Tu eretico, tu cane sciolto, come me e come tanti altri? Perché non siamo pochi, questo lo so anch'io. Il deserto è il nostro campo di esplorazione, le oasi il nostro approdo. Verso dove? Cosa troveremo non lo so. Ma ti ricordi le Cinque anatre di Guccini? "Cinque anatre andavano a sud
forse una soltanto vedremo arrivare
ma quel suo volo certo vuole dire che bisognava volare". Bisogna volare. Un abbraccio.

 oliver    - 20-11-2007
Sono d'accordo con te FACCIAMO SCHIFO, questa società del nulla, dell'apparire della sopraffazione della non capacità di dialogo, della mancanza di sensibilità è allo sfascio, molto presto i processi di violenza aumenteranno sempre più e gli stessi che oggi sorridono di una disgrazia saranno vittime di questa violenza gratuita.

 Giuseppe Aragno    - 20-11-2007
Grazie, Marino, ma non merito tanti elogi, credimi. Guccini però risveglia ricordi e speranze ed è vero: bisogna volare. Un abbraccio anche a te.