Nota numero 1888
Giuseppe Aragno - 10-09-2007
Che significa discutere di scuola dopo quasi un anno e mezzo di "governo Fioroni"? Me lo chiedo, mentre la penna prende a correre sul foglio: ragionare di questioni "tecniche" come il sostegno, i tagli, le "nuove indicazioni", il finanziamento alle scuole private, l'elevamento dell'obbligo? E' anche questo, mi dico, certo, ma mi pare non basti. Il fatto è che dietro ogni questione "tecnica" c'è una scelta politica, c'è - o dovrebbe esserci - una concezione della vita, un'idea o un progetto di società e, quindi, una filosofia della storia, un quadro di valori ai quali far riferimento.
Un problema tecnico non ha, non può avere, per sua natura, un "colore politico", sicché il sostegno, per fare un esempio, non è rosso o nero. Al contrario, tagliare gli organici e aumentare il numero di alunni per classe è una scelta politica e, come tale, esce da un ambito puramente scolastico.
In questo senso, mi pare evidente, ragionare della scuola di Fioroni vuole dire discutere del governo di centrosinistra.
A quanto pare, non ci sono risorse. Lo sostiene la sinistra, lo conferma la destra, è d'accordo il centro, schierato in ordine sparso tra sinistra e destra. Fingiamo che sia vero e tiriamo le conclusioni: la questione tecnica domanda soluzione. Si può incrementare l'organico, riducendo le spese militari. Farlo, significa evidentemente segnare un confine netto: di qua la politica che guarda al "ruolo internazionale" del paese, di là quella che bada alla gente, ai suoi problemi immediati, ai suoi bisogni reali. Non importa quale sia l'etichetta - centro, sinistra, destra - e non importa nemmeno che questa scelta aprirebbe inevitabilmente uno scontro durissimo tra lo schieramento che governa in nome d'un programma che, nonostante le contraddizioni, nasce da principi, ideali e valori condivisi, e quello che si oppone perché ha altri valori, altri ideali, altri principi. Non è detto che questo sia il paradiso terrestre - ne dubito fortemente - ma, piaccia o meno, è così che dovrebbe funzionare la decantata democrazia. Non è detto nemmeno - e posso essere d'accordo - che, in un sistema di cosiddetta democrazia, la linea tra consenso e dissenso sia sempre nettissima e non sia mai necessario e possibile scendere a compromessi. Tutt'altro. Una maggioranza fragile e composita, che ha di fronte una minoranza forte e combattiva, ha il dovere di rifiutare ogni massimalismo e cercare con grande flessibilità, al suo interno e nello schieramento avversario, linee condivise. E' quanto ha fatto finora la sinistra pseudo radicale per fedeltà ai patti sottoscritti, anche quando la lealtà è diventata così unilaterale da apparire vocazione al suicidio e forse, come escluderlo?, per volgare attaccamento alla poltrona. Sia, come sia, cercare intese politche non è di per sè un errore e la politica è l'arte del compromesso. Ciò che però nessuno dovrebbe consentirsi, quale che sia il suo ruolo - opposizione o maggioranza - quale che sia il livello della responsabilità politica - militante, dirigente, deputato, ministro - quello che nessuno dovrebbe accettare è che il compromesso snaturi i principi.
L'ordine e la salvaguardia dei cittadini, e qui vengo al dunque, a scuola come nelle strade e nelle case, non ha di per sé un'appartenenza politica. Alla destra però appartiene storicamente un'idea della "sicurezza" che tutela chi è nel sistema e annienta chi ne rimane fuori; di qui il mirino puntato su miserabili e vagabondi e il carcere riservato a lavavetri, ambulanti e clochard. Questa disumanità, non lo nego, si configura come un ethos politico e presuppone una concezione della vita, un'idea di società, una filosofia della storia e un quadro di valori di riferimento. Una sicurezza che sorvegli, reprima e punisca senza curarsi della sorte di chi è colpito è, tuttavia, la linea che segna un confine. Storicamente, infatti, la sinistra ha sempre creduto - io e tanti con me ancora ci crediamo - che la sicurezza sia invece messa in pericolo anzitutto dallo sfruttamento che crea i miserabili e gli sfruttati, dal mercato senza regole, dalla speculazione finanziaria, dagli squilibri intollerabili nella divisione della ricchezza, dalla privatizzazione selvaggia di ciò che è pubblico. Attorno a questi principi si è costruito l'ethos della solidarietà, che non ha nulla a che vedere con la carità cristiana e non fa sconti al capitale.
Evidentemente Giuliano Amato, il ministro Fioroni, il partito dei sindaci e quello della modernizzazione razzista da Far West - che non a caso si affida all'americano Veltroni - conoscono poco la storia o, ciò ch'è peggio, fingono d'ignorarla. Il progetto di "sicurezza" disegnato da Amato è la fotocopia della circolare numero 1888 del 5 marzo 1934 che, spedita dai prefetti ai questori su disposizione del Ministero dell'Interno, imponeva l'immediato "rimpatrio" di "immigrati senza possibilità di lavoro". Colpiva i poveracci nell'Italia del duce ed era la maniera fascista di garantire la "sicurezza". Amato e compagni si sono messi apertamente sulla via che fu di Mussolini. E' vero, non lo nego, una maggioranza fragile e composita ha il dovere di essere flessibile e cercare al suo interno linee condivise. Qui però siamo al caso inaccettabile in cui il compromesso snatura i principi. Siamo a scelte politche di stampo fascista. E' così da un anno. La sinistra sedicente "alternativa", entrata nel governo per contrastare Berlusconi, continua a far parte di una maggioranza che sempre più apertamente governa in nome e per conto della reazione.
E' in questo quadro politico che occorre inserire una discussione sulla scuola di Fioroni.

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 da Altrenotizie    - 10-09-2007
Quando la sinistra s'innamora della destra

Le diverse generazioni che dagli anni sessanta ad oggi si sono susseguite nel calpestare le non sempre rette vie del nostro Paese, hanno ritenuto, con maggiore o con minore convinzione, che la criminalità italiana avesse due sostanziali caratteristiche: una di essere “sistema”, l’altra di produrre ingovernabilità sociale e politica proporzionale alle ricchezze che generava. C’era semmai un dubbio, relativo alla commistione tra associazioni criminali e alcuni partiti politici; il dubbio era se fossero le prime ad aver infiltrato i secondi o viceversa. Alla fine, il dubbio si dimostrava ozioso, risultando chiaro che in quel tipo di società alcuni partiti e le cosche divenivano azionisti di maggioranza o di minoranza in corrispondenza di fasi diverse, ma sostanzialmente erano (sono?) elementi distinti di un progetto comune. Adesso però, finalmente, ci rendiamo conto di quanto quelle ipotesi delle diverse generazioni fossero sbagliate, perché sbagliati erano i presupposti (ideologici, certamente) che le determinavano. Sappiamo oggi, infatti, grazie ad un’opera di chiarificazione storica e sociale di alto profilo, che l’illegalità italiana non è fatta di Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona, Mafia del Brenta o bande di tante magliane; di logge massoniche, colletti bianchi e di narcomafie, di racket delle estorsioni o di trafficanti di droghe e armi. Oggi ci è tutto più chiaro: la criminalità italiana è fatta di lavavetri, writers e disperati clandestini.

Pare che l’elemento della pericolosità sociale sia stato dunque sostituito dal disturbo sociale, che i tentacoli della piovra abbiano lasciato il posto ai bastoni tergivetro e che le menti della criminalità siano da ricercare ai semafori invece che nell’Aspromonte o in Barbagia. Illuminate, sottili menti, folgorate sulla via della reazione, ci spiegano che i sottoufficiali della disperazione, ancorati ai semafori della dannazione, siano carne da macello per il racket. Che quindi renderli illegali sia, in fondo, un modo efficace per colpire il racket suddetto. Sia chiaro: gli immigrati non sono tutti delinquenti e non sono, com’è ovvio, tutti santi. Tra gli immigrati - come tra gli italiani - vi sono criminali. Ma proprio i criminali si guardano bene dal lavorare ai semafori perché, da criminali appunto, rapinano, uccidono, sfruttano, rubano; non lavano parabrezza.

C’informano però (le sottili menti) che rendere inevasa la domanda di sicurezza, a lungo andare può risvegliare “la tigre del fascismo”, come se l’antipolitica e il senso comune reazionario dilagante non fossero il prodotto di una politica che non propone domande e non offre risposte e appare ogni giorno lo specchio opaco dentro il quale si riflettono i nostri peggiori difetti. Sembrano (le sottili menti) dimenticare che proprio la cultura autoritaria, quella che propone “ordine e disciplina” sia il substrato naturale del fascismo.

I pericoli veri di fascismo derivano dalle spinte e dalle suggestioni della cultura e della politica di normalizzazione autoritaria della società, che impone l’equazione tra “normalità” e “legalità” e tra “illegalità” e “criminalità”. Gioverebbe ricordare che, nel passato, il passo è stato breve: nei manicomi veniva sbattuto chi minacciava la pericolosità sociale, non solo tutti i malati di mente ma anche i mendicanti e i senza fissa dimora. Invece l’equazione tra disordine sociale e criminalità non è affatto dimostrata. Atteso che nessuno assegna al disordine un valore in sé, nemmeno però si può sostenere una normalizzazione autoritaria della società rimuovendo il tema vero: quello della povertà. Che colpisce milioni di italiani e quasi tutti gli stranieri. Chi evoca il pericolo del fascismo, dovrebbe contrastare questa deriva con lavoro, case, politiche sociali inclusive, non accarezzando l’intestino degli impauriti. Che sono tali anche per l’incapacità dei gruppi dirigenti di svolgere la loro funzione. Almeno la dotte mente del dottore sottile, pontificatore della tuttologia ed esperto di galleggiamenti, dovrebbe ricordarlo.

Sottili come sono, le menti si affaticano con i numeri. Che dicono, per esempio, come l’immigrazione in Italia sia sulle percentuali più basse in Europa, ma di converso indicano nel Belpaese uno dei tassi più alti dell’intolleranza verso gli “estranei”. Che sono stranieri, quando hanno i soldi, immigrati quando non li hanno. Dimenticano non solo quanto il nostro passato sia straordinariamente pieno d’immigrazione e povertà ma anche quanto persino il nostro presente sia di nuovo alle prese con l’immigrazione interna scopo lavoro e sopravvivenza. Ci dicono poi, le sottili menti, che i sondaggi danno ragione all’intolleranza sistemica: quella che vede nella strada, ad esclusione delle vetrine, un unicum di fastidio. Non stupisce. La funzione pedagogica dei partiti da molto tempo è entrata in clandestinità, soppiantata dalle leggi del marketing elettorale. Il risultato è che il mercato della circolazione delle idee è stato pensionato dalla nuova leva dei pensatori: da una testa a un voto si è passati ad un voto senza testa.

Nessuno è così stupido da non cogliere l’odiosità sociale della microcriminalità, quella fatta di reati contro il patrimonio, violenze ai più deboli, mancanza di sicurezza nelle strade. Ma sarà dura convincerci che non si tratti del portato di leggi darwiniane che producono disperazione da un lato e fascismo sociale dall’altro. La patria del Law and Order, quella a cui tutti s’ispirano ammirati, è la più grande concentrazione di criminalità e devianza del pianeta, accompagnata - non a caso - dal maggiore distanza tra “garantiti” e “non garantiti”. I sindaci d’Italia, passati da amministratori lanciati sulla vetrina nazionale della politica a sceriffi senza West, cavalcano l’onda.

Condonatori a man bassa di ogni nefandezza urbanistica, perdonisti a tempo indeterminato di ogni abuso dei loro bottegai, hanno scelto di dichiarare guerra a chi vorrebbe solo sopravvivere. In cerca di visibilità per scopi elettorali, non usano i poteri di cui dispongono per fare applicare le leggi, ma chiedono più poteri per abusare delle stesse, visto che l’elemosina - per ora - non è sanzionata dai codici. Il loro mito, l’ex-sindaco Giuliani, che rese famosa la politica di “tolleranza zero” (che indica chiaramente il senso di giustizia e l'equilibrio di chi l’ispira), vide come risultato solo lo spostamento della mole di reati dal centro alla periferia, ma riempì i tribunali di processi contro gli abusi delle forze dell’ordine. In assenza dei disperati, gli sceriffi, si sa, cercano comunque il livello sociale più basso per scatenare le pulsioni autoritarie con le quali vengono cibati.

Pare che la nascita dei nuovi aggregati o partiti, siano essi guidati da menti sottili a sinistra o da giarrettiere furbine a destra, abbia individuato nel solleticare le pulsioni più basse la medicina contro il pensiero. Il bello è che c’invitano ad associarci, perché nulla li eccita più che la sinistra che diventi destra, mentre i candidati alla guida del nuovo carrozzone gareggiano senza esclusione di colpi. Ci si dice, sottilmente, che la sicurezza non è tema di destra o di sinistra: è vero, ma di destra o di sinistra sono le ricette per garantirla. Inclusione o esclusione, ad esempio, corrispondono a due idee della società che dovrebbero contraddistinguere, appunto, destra o sinistra. E non perché una accogliente e l'altra respingente, ma perché una é giusta e l'altra é sbagliata.

Veniamo però informati che la sinistra ha le ricette della destra: quindi - dice il sottile pensiero - per battere la destra si va più a destra. Nessuna idea su come affrontare distorsioni, contraddizioni, degenerazioni del “libero mercato”, che fa volare i capitali ed imprigiona le persone. Il problema non è più ricercare una società più equilibrata attraverso il ruolo di uno Stato regolatore: il problema diventa come far scomparire i problemi che non si riescono a risolvere. Se la disperazione circola, non serve affrontarla e combatterla, basta cancellarla dalla vista, che le vetrine piene di cose che pochi ormai possono comprare luccicano meglio. Sembra che la guerra alla povertà sia la nuova bandiera. La nausea monta.

Fabrizio Casari

 Anna Maria Milanesi    - 16-09-2007
Pienamente d'accordo. Facciamola la discussione che tu suggerisci. Dicano la loro, soprattutto, quelli che su questa rivista giustificano sempre tutto ciò che fa il governo.