Il ''Discorso decisivo'' (Fasl al-Maqàl) di Averròe
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Discorso decisivo (Fasl al-Maqàl) di Averròe [1]
(Ibn al-Rusd)


 


A cura di Hassan Reda Raad
Componente del Comitato di Bioetica
Consulente esperto di Bioetica Islamica
Ordine dei Medici Chirurghi di Latina


Il Fasl al‑maqàl, o Discorso decisivo è un trattato composto da Ibn Rusd[2] intorno al 1179, ed incentrato sullo studio dei rapporti che è possibile stabilire tra legge Divina islamica (sàri'a) [3] e filosofia.

Il trattato mette in luce una questione ancora oggi di fondamentale importanza, delineando i limiti e le possibilità della ragione umana all'interno di un sistema giuridico come quello islamico.


Va subito tenuto presente che il trattato non è stato scritto al fine di dimostrare come la religione si armonizzi con la filosofia, ma di dimostrare che la filosofia, intesa come uso corretto della ragione, non si oppone alla Legge religiosa. Inoltre, tale Legge è anche alla base della giurisprudenza islamica. Infatti, nell'Islam, il diritto è diritto sacro. La Legge è stata sancita da Dio per l'uomo nel  Sacro Corano e ad esso bisogna fare riferimento per ogni questione giuridica, morale, di costume così come religiosa. Non deve destare confusione, dunque, la possibile opposizione del mondo giuridico alla filosofia. La filosofia implica una libera ed autonoma attività speculativa per l'uomo che, quindi, alla fine, potrebbe raggiungere delle conseguenze contrarie alle verità della fede. Averroè (Ibn Rusd) riconosce e dimostra, tuttavia, come la ricerca filosofica sia naturalmente portata ed indirizzata verso la verità: per questo, in nessun modo, potrebbe allontanarsi dalla sfera religiosa. L'intima natura della filosofia, spiega Averroè, la determina come ricerca della verità. Questa è una e rivelata: Dio è la prima e l'ultima verità. Ne consegue che la filosofia è necessariamente inserita all'interno del solco tracciato dalla religione:




«Ora dal momento che 1a nostra religione è vera e incita a un'attività speculativa che culmini nella conoscenza di Dio, noi musulmani non possiamo che essere fermamente convinti del fatto che la speculazione dimostrativa non può condurre a conclusioni diverse da quelle rivelate dalla religione, poiché il Vero (al‑haqq) non può contrastare col vero, ma anzi gli si armonizza e gli porta testimonianza»[4].


Ed infatti, la testimonianza che la filosofia porta alla fede è relativa al fatto che essa si occupa degli esseri esistenti, e questi, per il fatto di essere prodotti, «dimostrano di avere un produttore. Tale conoscenza relativa alla produzione delle cose, tanto più è completa quanto più consente una conoscenza completa di colui che le ha prodotte»[5].



Averroè si sforza, così, di dimostrare come il filosofo cerchi di rintracciare ripetutamente i significati teoretici astratti di tali verità, rispondendo, sempre, all'ansia concettualizzatrice propria della ragione umana. Lo studio del filosofo è motivato dalla ricerca della verità, la sua passione dal desiderio conoscitivo ed i suoi strumenti sono argomentazioni rigorose ed oggettive. Averroè è certo della bontà naturale della filosofia e del fatto che il cammino sul quale si muove necessariamente condurrà alla scienza eccelsa e suprema, che riguarda Dio[6] e la fede dell'uomo.


Non vi è motivo, allora, per Averroè, di ripudiare questa cospicua eredità:




«... E' necessario per noi filosofi che, nel caso reperissimo presso i nostri predecessori, appartenessero pure a popoli più antichi, qualcuno che ha già approfondito l'analisi e l'esame della realtà esistente applicando le regole previste dalla dimostrazione, ci preoccupiamo di studiare le affermazioni contenute nei loro libri. E ciò che costoro hanno detto di conforme alla verità, lo accetteremo con gioia e gliene saremo grati; mentre ciò che hanno detto di difforme alla verità, lo evidenzieremo e ne differiremo, pur perdonandoli per l'errore commesso. Da ciò è chiaro che lo studio dei libri degli antichi è obbligatorio per la legge, poiché il loro fine è identico a quello cui ci sprona la legge. Chi proibisce a qualcuno che ne avrebbe la capacità, cioè a qualcuno che possiede intelligenza naturale unita ad integrità religiosa e a virtuosa dirittura sapienziale e morale, di applicarvisi, sbarra la porta attraverso la quale la legge chiama gli uomini alla conoscenza di Dio. E poiché si tratta della porta dello studio teoretico, l'unica che conduce a un'autentica penetrazione della verità divina, tale proibizione costituisce un atto di ignoranza e di estraniazione dell'Altissimo»[7].


Nel discorso decisivo (Fasl al‑maqàl), Averroè parla da giurista ed egli stesso si definisce, all'inizio dell'opera, giurisperito (faqìh), ossia giurisperito, nobile ed eccellente e giudice (qàdi), equo, nonché primissimo tra i sapienti. Si esclude, pertanto, che il trattato possa essere un'opera specificamente filosofica. Si potrebbe avanzare l'ipotesi che esso sia, piuttosto, un responso o fatwà giuridico religiosa ed, in effetti, l'analisi della forma espositiva del trattato darebbe sostegno a questa idea. Tuttavia, va tenuto presente che la fatwd era un responso giuridico esclusivamente emesso dall'autorità religiosa suprema (mufti) un faqjh, ossia un esperto di diritto, nominato proprio a questo scopo dalle autorità o legittimato dalla sua stessa fama. Il mufti era, dunque, una figura di sostegno al gran giudice che, come afferma il ricercatore Hussam Behair, si occupava "dell'applicazione dei concetti astratti della legge islamica ai casi concretri".[8]. Tuttavia, Averroè non fu mai mufti, bensì, come già detto, gran giudice; perciò è da escludere anche la natura di fatwà giuridico ­religiosa attribuibile, nonostante la sua forma, al Trattato. In via conclusiva non rimane altro da pensare che Averroè intese scrivere un discorso in favore della filosofia, intesa come speculazione dimostrativa e corretto ragionamento applicato alla Legge. Nel discorso decisivo (Fasl al‑maqàl) l'esigenza della speculazione è chiamata in causa direttamente dalla legge religiosa, as‑sai`. Dunque, Averroè, compose un'opera il cui contenuto va, in un certo senso, al di là della semplice apologia della filosofia, intesa come scienza affine a quella teologica nella ricerca e nella conoscenza della verità. La filosofia non è giustificata in seguito alla scoperta della sua non contraddittorietà con la religione, ma per il fatto che, la sua ricerca è richiesta, voluta e ritenuta necessaria dalla stessa Legge religiosa. Questa prospettiva è la grande novità apportata dalla geniale e profonda erudizione giuridica e filosofica di Averroè, il quale molto chiaramente, a tal proposito, afferma:



  «Che la Legge religiosa (as‑sar') chiami (da `a) a un'indagine intellettuale (i'tíbàr bi‑l 'aql) sugli esseri esistenti (al-­mawgúdàt) e richieda (tat allaba) la sua conoscenza (ma'arifataha), risulta chiaro da parecchi versetti del Libro di Dio, benedetto ed eccelso» [9] . 


L'asserzione di Averroè è fondata sui termini da'à e tat allaba, qui intesi, riportando la traduzione del Campanini, rispettivamente con chiamare e richiedere. Tuttavia, è possibile avanzare, di essi, una diversa interpretazione avvalorata, per altro, dal loro significato più proprio.


Infatti, il termine da'à[10]  che per se stesso traduce chiamare, accompagnato, come nel testo di Ibn Rusd, dalla particella ila, rafforza il suo significato, assumendo quello più perentorio di esigere, pretendere, oppure quello ancor più speculativo di "causare". In questo senso, la filosofia troverebbe la sua origine nella stessa Legge religiosa che la pretende e l'esige, perché ne è causa, origine. Il verbo da'à assume l'accezione ontologica del biblico chiamare che è, più precisamente, un "chiamare ad essere"[11]. Infatti, la Legge religiosa chiama ad essere la filosofia, indagine più propria e certa sugli esseri esistenti, perché è il modo più consono alla natura umana di avvicinarsi, attraverso l'intelletto, al Creatore. Allo stesso modo il termine esige (tat allaba)[12], non implica una semplice esigenza richiesta, ma il fatto che il risultato della richiesta sia necessario ed stessa. In tal modo, è probabilmente possibile rendere merito all'intenzione dell'autore, del tutto impegnata nella dimostrazione della cogenza giuridico religiosa del ragionamento filosofico.


Al fine di ben comprendere la prospettiva dell'autore che vede nello studio della filosofia un atto obbligatorio per il fedele musulmano, si tenga presente che la "giurisprudenza islamica", sin dal suo nascere, ha classificato e distinto gli atti del fedele in cinque categorie (al‑ahkám al-hamsa, le cinque qualificazioni): atti obbligatori o doverosi (wàgib); atti raccomandati (sunna, mandúb, mustahabb); atti indifferenti (mubàh); atti riprovevoli o disapprovati (makrúh) ed in fine atti proibiti (haràm). Esse definiscono la possibilità, obbligatorietà/cogenza o impossibilità delle azioni stesse. La classificazione propone una valutazione polivoca degli atti del fedele che vengono analizzati in base alla loro natura, alle loro conseguenze, e ai vantaggi o alle punizioni che derivano al fedele dalla loro esecuzione o inadempienza. La classificazione procede polarmente per atti contrari. Come estremi presenta gli atti obbligatori o proibiti; come intermedi gli atti raccomandabili o sconsigliati; ed infine, una categoria singola raggruppante tutti gli atti indifferenti, la cui esecuzione non comporta né vantaggi né svantaggi. Gli atti obbligatori prevedono una ricompensa per coloro che li compiono ed una punizione per tutti gli inadempienti. Gli atti proibiti, invece, prevedono il massimo favore per la loro non applicazione ed il massimo sfavore per la loro applicazione. Le categorie degli atti raccomandabili e sconsigliati, non prevedono punizioni, ma soltanto ricompense e precisamente, per 1'adempienza dell'azione nel primo caso e per l'inadempienza nel secondo. Averroè, argomentando in questo senso più da giurista che da filosofo, intende mettere in luce come lo studio della filosofia sia un atto non solo raccomandabile, ma addirittura obbligatorio:




 «Il fine (al-garada) di questo scritto è indagare, dal punto di vista ('ala gihati) dello studio della scienza religiosa (an‑naz ari as‑sar'i), se la speculazione filosofica (an‑naz ar fi'l‑falsafa) e le scienze logiche siano lecite secondo lo sar'o proibite o obbligatorie, sia perché commendevoli, sia perché necessarie» [13].



Dunque, il fine dello scritto, al-garada, è compiuto e realizzato in relazione alla prospettiva che in esso si assume, che non è semplicemente secondo la sari'a, come Legge religiosa in sé compiuta e data come immodificabile, ma, più propriamente, secondo lo studio che di essa si effettua. Infatti, Averroè afferma che la speculazione filosofica, ossia il naz ar fì'l-falsafa, è legittimata nel suo orsi, non d'altro che dalla sari'u tramite il suo naz ar. Altrimenti, la possibilità della giustificazione della speculazione filosofica deriva alla filosofia stessa, dal fatto che lo sar', pur essendo soggetto indipendente in relazione a qualsiasi altra scienza che ad esso si relazioni, è, tuttavia, oggetto a se stesso tramite il suo naz ar: Ma la filosofia in quanto naz ar fi'l‑mawgudat, ossia riflessione sugli esseri esistenti, condivide con lo sar' lo statuto di relazione stabilito col naz ar. La differenza si stabilisce tra le due discipline a partire dai termini del naz ar stesso; esso, infatti, è medio tra le due, ma stabilisce una relazione di soggettualità con lo sar' che è di esso soggetto legittimante e di oggettualità con la falsafa che ne è il contenuto. Sia la speculazione filosofica, sia la logica sono figlie del naz ar, ma questo, prima di essere bi'l‑falsafa è sar'i.  Ciò significa che nel Fasl al-maqàl Averroè pone una condizione tale per cui, è possibile stabilire non tanto, come e se la legge religiosa sia indagabile tramite gli strumenti della filosofia, ma, piuttosto, dimostrare come gli strumenti logici adoperati nello studio del sar', siano, in quanto tali, universali ed applicabili anche alla scienza filosofica.


Premesso che lo sar', la Legge è autoreferente e perciò stesso immodificabile, Averroè dimostra, tuttavia, come sia non solo lecita, ma addirittura cogente, l'indagine, i'tibàr, sugli esseri esistenti, al‑mawgudat, coincidente con il naz ar fi'l-falsafa. Quindi, l'oggetto del Trattato è lo studio filosofico e la dimostrazione della sua liceità, mentre il soggetto, ossia il protagonista dell'indagine, è lo sar in relazione, non tanto, al suo contenuto, ma dal punto di vista del suo studio: ovvero, lo sar' in relazione non alle sue fonti scritturistiche, Corano e Sunna, ima in relazione a quelle che ne determinano la struttura a partire dalla logicità del naz ar, ossia: il qiyàs (ragionamento analogico) e 1'igma' (consenso dei mugtahid)[14].


L'oggetto del Trattato, cioè il naz ar fi'l‑falsafa è analizzato dal punto di vista dello studio legale, naz ar as-sar'i . Quindi, presupponendo soggetto del trattato stesso lo sar' ; è possibile affermare che, il legame tra il soggetto del testo, as‑sar', ed il suo oggetto, la falsala, è dato dal termine medio che è lo studio. Si dà vita, così, ad un sillogistico qiyàs, fondato sul presupposto che, la corrispondenza fra lo sar' e la falsafa sia garantita da una 'illa comune, ossia da una comune ragion d'essere, che è il termine medio an‑naz ar'. La relazione centrale che lega il soggetto, la legge, all'oggetto, la filosofia, è l'universalità implicita nelle capacità dello studio, che abbraccia due prospettive parallele e all'infinito convergenti. Come detto, la legge esiste di per sé ed in sé reca gli elementi necessari alla propria identificazione. E' la legge stessa, quindi, che determina, vuole e giustifica il suo studio. Da soggetto non può che diventare oggetto di se stessa. Nel fasl al‑maqàl il naz ar sar'i, legittimato dallo sar', diviene, in un secondo momento, l'elemento giustificante, dialetticamente, lo studio .medesimo, nel suo oggettivarsi nel campo delle mawgúdat. Ma se il naz ar fi'l‑mawgudat, coincide con la falsafa[15], e se il naz ar fi'l‑mawgudat è giustificato dallo sar' in quanto naz ar; allora anche la falsafa, per lo stesso medio, è giustificata dallo sar'. Ma, dal momento che, come afferma Averroè la speculazione e l'indagine razionale sugli esseri esistenti «non consiste in altro che nella deduzione (istinbàt) e nella derivazione (istihrag) dell'ignoto (al‑maghul) dal già noto (min al‑ma'lum)»[16] e dal momento che «questo è ciò che si chiama sillogismo (qiyàs), ovvero ciò che si ottiene per mezzo del sillogismo (bi'l‑qiyàs)»[17] pure ne consegue, ulteriormente che, il secondo equivalente, il qiyàs, è egualmente equivalente alla falsafa, rispetto allo sar'. Da ciò segue anche la coincidenza concettuale dei termini naz ar fi' 1‑falsafa, i'tibar fi' l‑mawgudat, qiyàs e qiyàs al'aqli (ragionamento intellettuale) o bi'l‑burhàn (dimostrativo). Infatti, per Averroè, questa attività filosofica (an‑naz ar fi‑falsafa), coincidente con l'indagine sugli esseri esistenti (i'tíbàr fi'l­mawgudat), a sua volta coincidente con la deduzione dell'ignoto dal noto (qiyàs), è la forma più perfetta di ragionamento (qiyàs al‑'aqli), «cioè quella che si chiama dimostrazione apodittica (burhanan)»[18].


 


 


 




              Sar'                                                       naz ar                                                falsafa


                                                                  Qiyàs al 'aqli


 


Naz ar as‑sar'i                                                                                                naz ar fi'l‑falsafa


 


Qiyàs as‑sar'i


 


 



Quindi, lo studio è dato allo sar' per essere giustificato, e nello stesso tempo, lo sar' è il dato dello studio, mentre la falsafa è lo studio oggetto dello sar' secondo il suo studio, che è fi'l-­mawgudat. Inoltre, intanto in quanto il naz ar è qiyàs al'aqli rispetto a se stesso, diventa qiyàs as-sar'i rispetto allo sar' e, per ciò stesso, in relazione alla falsafa, il qiyàs diventa lo strumento tramite il quale il naz ar raggiunge la sua garada che è l'indagine sul mawgudat.


In relazione alla reciprocità dei rapporti intercorrenti tra il medio naz ar dato allo sar' per essere legittimato come studio di se stesso come soggetto e soggetto alla falsafa che ne è, invece, l'oggetto dato a sua volta, si può così concludere: «C'è un soggetto che lo sar' risulta essere nei confronti della falsafa, che risulta essere oggetto nei confronti dello sar' che risulta essere soggetto proprio nei confronti dell'oggetto che la falsafa risulta essere così reciprocamente e specularmente nei confronti di quell'essere oggetto che risulta essere lo sar' nei suoi confronti. E la mediazione è data dal naz ar che ha la relazione di soggettualità con lo sar' e di oggettualità con la falsafa: dato è il punto d vista dallo sar', dato è il termine dalla falsafa, data è la mediazione dal naz ar: La questione si presenta, allora, radicata alla datità rispetto al suo soggetto, al suo oggetto e al suo medio: la radice della questione sta tutta nella datità che la pone come questione, perché è la datità così triplicata che pone la necessità di affrontare la questione del rapporto del dato al dato mediante il dato. Il medio è doppio perché è relazione al dato e al dato, ma non è identico, perché in relazione al dato dello sar' è secondo soggettualità, mentre in relazione al dato della filosofia (falsafa) è secondo 1'oggettualità»[19].


Riassumendo il Fasl al‑maqàl giustifica il naz ar fì'l‑falsafa, attraverso la legittimazione che ad esso viene data dal naz ar as‑sar'i. Infatti, il naz ar, per se stesso inteso come raziocinio sugli esseri esistenti, è, in quanto tale, coincidente con la falsafa in quanto, aristotelicamente intesa, secondo quanto compreso nel concetto di Metafisica che ne costituisce la parte più nobile. Infatti, la filosofia, afferma Aristotele, è la scienza che studia l'ente in quanto ente  e le proprietà che gli competono in quanto tale. In cui, lo stuio dell'ente altro non è se non il lo studio degli esseri (naz ar fi'l-­mawgudat). Si è raggiunta, in tal modo, l'evidenza implicita nel fine da dimostrare, ossia la giustificazione della falsafa operata dallo sar' tramite il naz ar. Ed inoltre, tramite questa mediazione deriva anche il carattere di necessità che le scienze logiche e la filosofia hanno nel naz ar as‑sar'i. Quindi, parafrasando Averroè, è stato dimostrato che la speculazione filosofica e le scienze logiche sono lecite secondo il sar' dal punto di vista dello studio della legge religiosa e che esse sono obbligatorie, perché necessarie, e non proibite perché commendevoli[20].


 








[1] Si contano, in tutto, tra gli scritti di Averroè, tre trattati incentrati sui rapporti esistenti tra la legge religiosa e la filosofia, oltre al già citato Kitab fàsl al‑maqàl wa taqrir ma bayn as‑sari'a wa l hikma min al‑ittisàl, si annoverano: al- manàhig al‑adilla fi aqa'id al‑milla (Metodi di prova sui dogmi della religione) e la d amina li‑mas'alat al‑ilm  al‑qadim (Appendice sulla questione della scienza eterna).



[2] Filosofo e scienziato arabo‑spagnolo, noto all'occidente sotto il nome di Averroè. Nasce a Cordoba nel 1126, discendente da un'illustre famiglia di giuristi, fu lui stesso nominato gran qàdi di Siviglia nel 1169, e di Cordoba nel 1182. Muore dopo un lungo esilio nel 1198 a Marrakes.



[3] Legge religiosa islamica.



[4] Cfr. Averroè, Il Trattato, p. 61



[5] Averroè, Il Trattato, p. 47.



[6] L'utilizzo delle facoltà superiori dell'uomo è stato da sempre riconosciuto come un'attività addirittura divina, basti a questo proposito ricordare le parole di Platone: "Per quanto riguarda quella specie più importante della nostra anima (intelligibile), dobbiamo pensare che il dio l'ha donata a ciascuno di noi come uno spirito tutelare, la quale come dicevamo, abita sulla solennità del nostro corpo, e ci solleva da terra verso la nostra affinità celeste, come piante celesti, e non terrene: e queste nostre affermazioni sono gíustissime" (Platone, Timeo, 90a)



[7] Averroè, Il Trattato, p. 55‑57.



[8] Cfr. Hussam Behair, II ruolo della lega degli stati arabi nel processo di unificazione del diritto privato, dottorato di ricerca all'università di Roma Torvergata, Roma 2001, p. 12. In proposito si veda anche F. Castro, Faqih (pl. Fuqaha ), in Digesto, IV ed., vo1.VIII Civile, UTET 1993.



[9] Cfr. Averroè, II Trattato, p. 47.



[10] Cfr. Vocabolario arabo‑italiano, s.v. da'a



[11] Cfr. La Bibbia di Gerusalemme, EDB, 1995 Genesi, cap. 1 « Dio disse : " Sia la luce!. "E la luce fu». Gli esseri vengono chiamati ad essere e ad esistere da Dio, dal suo appello, progressivamente per ordine di importanza crescente sino all'uomo, creato , insieme al firmamento, non solo per mezzo della parola, ma anche attraverso l'atto.



[12] Cfr. Vocabolario arabo‑italiano, s.v. tat allaba :«esigere, chiedere come condizione necessaria ed indispensabile»



[13] Cfr. Averroè, Il Trattato, p. 45



[14] Comune accordo all'interno di una consulta di saggi.



[15] Cfr. Averroè, Il Trattato, p. 23. Fanaqúl: inna kàna fi'lu al‑falsafa Iaysa say'an aktara min an‑naz ar fi'1-mawgudat. Si stabilisce da parte di Averroè la natura dello studio filosofico, come studio sugli esseri esistenti.



[16] Cfr. Averroè, Il Trattato, p. 47



[17] Ibidem



[18] Ibidem, p. 49



[19] Cfr. G. Roccaro, Il discorso tra logos e dialettica, p. 61.



[20] Cfr. Averroè II Trattato,. p. 47 «La legge religiosa autorizza , e anzi stimola la riflessione su ciò che esiste (al-­mawgudat), per cui è evidennte che l'attività indicata col nome di filosofia, è considerata necessaria dalla legge religiosa, o per lo meno, ne è autorizzata»


http://digilander.libero.it/filosofiaescienza/hassan4_giugno03_averroe.htm



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