Marie Rose Moro - I principi della clinica transculturale. L’universalità psichica
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SEMINARIO INTRODUTTIVO ALLA CLINICA TRANSCULTURALE
Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano
- settembre 2000 -

I principi della clinica transculturale
L’universalità psichica

Marie Rose Moro
Psicoterapeuta, Responsabile Servizio di psicopatologia del bambino e dell'adolescente dell'Ospedale
Avicenne di Bobigny (Università Parigi 13)



Prenderò ora in esame i quattro principi teorici alla base della pratica transculturale: il primo è la nozione di universalità psichica; il secondo è quello di codifica culturale; il terzo è il principio del trauma dell’esilio; e il quarto è costituito da elementi che consentono di differenziare le problematiche fra la prima e seconda generazione.

1)
L’universalità psichica - Il primo principio riguarda appunto l’universalità psichica, un concetto veramente fondamentale. Siamo tutti esseri umani, quindi siamo tutti uguali e questo elemento umano fa in modo che l’incontro terapeutico sia possibile e ricco allo stesso tempo. Forse voi potreste dirmi, a questo punto, che il concetto di universalità psichica si può dare per scontato.

Questo non è vero. A mio parere, bisogna riaffermarlo fortemente perché, certe donne e famiglie, in Francia ma credo anche qui, non vengono rispettate e sono giudicate sulla base delle rappresentazioni culturali dominanti. Questo significa che non abbiamo integrato un principio essenziale, quello che tutte le produzioni umane hanno uno stesso valore. Tutte le produzioni umane, infatti, sono utili per capire e curare, e anche questo a volte è sorprendente.

Mi capita di incontrare terapeuti, in Francia o in altri paesi, che mi dicono: «Sì, è vero, ma io rispetto le credenze di altri paesi, le convinzioni dei miei pazienti». Io non penso che si tratti di accettare o rispettare, perché quello che noi definiamo «credenze» non sono altro che le rappresentazioni che altri hanno della realtà e hanno lo stesso valore delle nostre rappresentazioni «scientifiche». Anche io come psichiatra devo basare il mio lavoro su teorie che cambiano molto velocemente, su convinzioni che, come quelle dei miei pazienti, non possono essere considerate immutabili. Certamente ci sono cose che possiamo dimostrare, d’accordo, ma quando si parla del problema dell’incontro con il paziente, dell’universalità psichica, tutte le rappresentazioni hanno il medesimo valore. È solo una questione di rappresentazioni, individuali o collettive, di cui abbiamo bisogno per essere noi stessi. Nella nostra professione, la formazione spesso consiste nella creazione di rappresentazioni comuni che ci consentano di poter agire. A chi mi parla di rispetto, io rispondo che il rispetto non basta, perché è un atteggiamento che rivela che noi pensiamo che ciò che dice il paziente non ha valore, che non è frutto dell’universalità psichica. Quindi la nozione di universalità psichica è un principio etico, ma è anche qualcosa di più forte, di più profondo, direi che è insieme un principio filosofico e tecnico.

Vorrei farvi un esempio, si tratta di un caso trattato durante una consultazione a Bobigny. Una madre berbera del sud del Marocco si presenta al consultorio con un bambino di quattordici giorni, accompagnata da un pediatra e da uno psicologo di un servizio che noi in Francia chiamiamo PMI (Protection Maternelle Enfantine).

La sua è una situazione di emergenza, dal suo ritorno a casa dopo il parto la donna continua a piangere e si rifiuta di occuparsi del bambino, sostenendo che il bambino è strano, bizzarro, molto scuro di pelle; in realtà è solo un po’ più scuro di lei, che ha una carnagione piuttosto chiara. La donna ha già un altro maschio e una femminuccia e rifiuta questo terzo figlio, lo lascia piangere tutta la notte e si occupano del piccolo il padre e una donna della famiglia. Agli inviti della famiglia e del medico perché la donna si prenda cura del piccolo, la donna risponde: «Ma se io lo tocco mi succederà qualcosa di male, qualcosa di negativo». La donna sembra avere dei pensieri molto negativi che tiene solo per sé, appare spaventata e tristissima. L’équipe che la accompagna (spesso noi realizziamo le consultazioni insieme ai professionisti che seguono le pazienti) insiste sulla necessità di trovare una rapida soluzione, in quanto il padre non può continuare a occuparsi del bambino tutte le notti e poi andare a lavorare di giorno e la giovane donna che lo aiuta sta per ripartire. Il padre è molto preoccupato ed è fondamentale trovare una soluzione che eviti l’allontanamento del bambino e il suo affidamento a una struttura. Naturalmente, si tratta di una decisione molto grave quella di togliere un bambino a una famiglia e metterlo in un nido, in cui qualcuno se ne possa occupare, e nessuno vuole arrivare a questo punto. La madre, informata di ciò, ha detto durante un incontro al consultorio: «Non ha importanza, fate quello che volete con questo bambino, io non me ne posso occupare». Quindi, questo è il quadro della situazione.

Chiedo alla donna che cosa vuole fare e lei mi risponde: «Affidarlo ad altri, proprio come stanno dicendo». (Devo sottolineare che questa conversazione ha avuto luogo con un traduttore in lingua berbera, perché la donna parlava molto male francese, quindi c’era una mediazione linguistica in questo senso). Allora le chiediamo perché. Non è una domanda che bisognerebbe fare, ma le situazioni d’emergenza sono cattive consigliere. Lei infatti mi guarda e mi risponde: «È incredibile, sono venuta a vederla perché mi hanno detto che lei è una specialista di questi problemi e lei mi fa delle domande? Io sono venuta perché lei mi dica qualcosa, non perché mi faccia delle domande». Vedete le conseguenze di una domanda sbagliata…

A questo punto io comincio a parlare del fatto che lei considera questo bambino diverso dagli altri bambini che aveva avuto. Lei mi dice: «Sì, questo bambino è diverso». Io provo a introdurre questo discorso: «Nel vostro paese so che si parla di bambini diversi che vengono da altrove». E lei mi risponde: «Sì, però io non ho voglia di parlare di questo». Io comincio a sentire che la donna non ha voglia di parlare neppure della  rappresentazione culturale che sta alla base del suo rifiuto, la nostra proposta di parlarne non provoca nessuna interazione con lei, quindi niente incontro.

Dopo un’ora sono molto inquieta, ho la sensazione che non si sia stabilito alcun legame, alcuna alleanza. Allora le dico: «Ma di che cosa ha bisogno un bambino? Di che cosa ha realmente bisogno? Possiamo trovare un accordo, negoziare e capire, provare a definire di che cosa ha bisogno?» Lei mi guarda e mi dice: «Mi fa veramente delle domande strane, dovrebbe saperlo lei stessa». A questo punto faccio intervenire ognuno dei terapeuti e ognuno inizia a esprimere la propria opinione. Uno dice che il bambino ha bisogno di essere nutrito, la donna ribatte che non è venuta lì per farselo dire, lo sa, ma non riesce comunque a nutrirlo. Qualcun altro dice che ha bisogno di tenerezza, di amore, di calore, di essere conosciuto, poi uno dice: «Il bambino ha bisogno di ricevere il nome giusto».

A questo punto la donna sembra più interessata e dice: «Sì, mio figlio ha il nome sbagliato».

Comincia a raccontare che questo bambino è il secondo figlio maschio e avrebbe dovuto avere, per tradizione, il nome del nonno paterno. La tradizione vuole infatti che il primo figlio della famiglia porti il nome di un profeta per proteggerlo e il secondo il nome del padre del padre, soprattutto se questo è defunto, ed è il caso di questo bambino. Solo che la gravidanza di questa donna era stata difficile, anche se nessuno se ne era reso conto. La donna racconta di avere avuto moltissima angoscia, di avere pianto molto e di avere pensato alla morte dei suoi cari, in particolare alla morte di suo padre, che era deceduto in occasione della nascita del secondo figlio (il fratello di questa donna). La donna racconta di avere sempre pensato, che se lei avesse avuto un secondo figlio, sarebbe successo qualcosa di grave, qualcosa di brutto perché quando sua madre aveva avuto quel secondo figlio aveva perduto il proprio marito. Quindi aveva la sensazione, identificandosi con sua madre, che se avesse avuto un secondo maschio sarebbe successo qualcosa di grave. Nel corso della gravidanza, appena saputo che era un maschio, aveva cominciato a piangere; anche durante la stessa ecografia, quando le avevano comunicato che il bambino era un maschio, era scoppiata a piangere e questo mi è stato in seguito confermato dall’ecografista, stupita di questa reazione in una donna maghrebina, solitamente felice di avere figli maschi.

La donna, quindi, aveva vissuto con grande angoscia la gravidanza, in un quadro famigliare che non le permetteva di esprimere questa angoscia, per paura di essere considerata pazza. Il parto era stato molto difficile e doloroso, perché in realtà questa donna non riusciva a spingere e alla fine aveva avuto un cesareo.

La donna racconta di un incubo avuto in gravidanza, in cui aveva visto un bambino neonato che le aveva detto in sogno: «Io voglio portare il nome di mio nonno materno». Svegliatasi di soprassalto, ne aveva parlato al marito che le aveva risposto: «Ma che cosa stai dicendo? Non ne posso più, è dall’inizio di questa gravidanza che hai dei problemi, sei strana, non sei più come prima». Il marito era stanco, non capiva che cosa stava accadendo alla moglie e c’era stata una discussione tra i due, la donna lo raccontava piangendo. Normalmente, in quella cultura, quando si fa un incubo di questo genere relativo al nome da dare al nascituro, ne segue una negoziazione che porta al cambiamento del nome, perché si riconosce il significato di questo presagio. La donna dice infatti: «Se fossi stata al paese, qualcuno sarebbe potuto intervenire per spiegare, ma qui che cosa potevo fare?» Il marito si era rifiutato di cambiare il nome e, nato il bambino, la donna aveva acconsentito di dare al figlio il nome del nonno paterno, ma continuava a considerare questo nome sbagliato.

Sin dall’inizio della gravidanza e poi durante il parto, qualcosa non aveva funzionato nel rapporto tra madre e figlio, ma nessuno se ne era accorto. La situazione di angoscia in cui si trovava a questo punto la donna si può comprendere solo prendendo in esame tutti questi elementi. Ho dimenticato di aggiungere che, dopo aver raccontato la storia, la donna ribadisce ancora: «Ecco, quello di cui ha veramente bisogno un bambino è di ricevere il nome giusto e di portare davvero il suo nome». Tutto quello che si era detto prima, sui bisogni del bambino, diventava secondario. Il bambino ha bisogno di calore a tutti i livelli, e si può pensare che tutti siano d’accordo su questo, ma in realtà la nozione di bisogno del bambino, o meglio la gerarchia di questi bisogni e la sua espressione non sono universali, ma possono variare. Quindi, se si discute dell’universalità di questi bisogni ci si renderà conto che le situazioni sono diverse e che non è a questo livello che bisogna operare, ma bisogna ricostruire i racconti, in relazione a singole situazioni.

Grazie al racconto della donna, eravamo riusciti a definire un quadro, ma non avevamo a quel punto fatto alcuna proposta. Il semplice fatto che la donna potesse raccontare quello che era accaduto, che noi potessimo capire quello che era successo, accompagnarla nel suo racconto e aiutarla a lavorare sull’interpretazione di questo sogno, il fatto che noi avessimo riconosciuto che la gravidanza era stata difficile e attraversata da tutte queste inquietudini, ha permesso alla donna di riuscire a guardare il bambino per la prima volta dall’inizio della consultazione. Alla fine ha detto: «Ma effettivamente questo bambino non è così nero, così scuro». Questo è stato un elemento molto importante, un buon punto d’inizio: non è più necessario sbarazzarsi, per così dire, del bambino perché la madre cominci a cambiare il proprio sguardo su di lui, a cambiare la propria rappresentazione del figlio.

È una storia molto lunga e ci ho messo anche molto tempo a raccontarvela. In sintesi, la sua rappresentazione del figlio si basava su rappresentazioni culturali che attribuiscono importanza al dare il nome giusto al bambino, importanza che è ancora più grande in situazione migratoria, dove l’attenzione all’identità del bambino, dei nostri figli, è cruciale.

Per concludere, vorrei tornare sul tema dell’universalità, che è qualcosa di molto concreto, non solo una dimensione etica ma anche molto pragmatica, è la necessità di comprendere dall’interno gli elementi che profondamente influenzano il corpo, l’ambiente e il pensiero. Nel caso della donna in questione, si è riusciti a negoziare con il padre, con le donne della famiglia e questo bambino alla fine ha avuto due nomi, un doppio nome. Io non ho fatto la proposta immediatamente, ma ho aspettato che il marito fosse presente e si mettesse a lavorare con noi.

Prima ancora di fare una proposta, tuttavia, abbiamo creato il quadro che ha permesso alla donna di esprimere la sua rappresentazione, e questo ci ha consentito di avere accesso al suo prodotto interno che appartiene all’universalità psichica, creando un’alleanza, un legame. L’universalità psichica è quindi il primo punto e si tratta di qualcosa di complesso, bisogna cercarla, non bisogna semplificare la situazione e pensare che sia tutto facile. C’è la complessità dell’essere umano da considerare.


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