identità e imperfezione 
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Andrea Cacciavillani
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ECHI
 
PRIMO


Ore 7.45

Il trillo della sveglia gli invase il cervello penetrando facilmente e velocemente dall'orecchio rivolto verso il comodino. Aprì gli occhi: la prima cosa che vide fu il soffitto bianco, sbiadito e il lampadario che pendeva fermo e spento al centro. Si era staccata la copertura e alcuni fili colorati si intravedevano uscire da un piccolo foro.
Aveva la bocca impastata, il naso chiuso, gli occhi velati. Restò qualche attimo immobile e senza pensieri concreti con la sveglia che continuava a suonare eccitandogli le cellule nervose, poi con un movimento lento e disordinato allungò il braccio per pigiare il pulsante di arresto. Si mise a sedere sul letto massaggiandosi gli occhi e poi passandosi la mano tra i capelli scompigliati. Si girò dietro solo per constatare che sua moglie era già uscita. Non l'aveva sentita alzarsi, né vestire, né uscire. Oramai la sua mente si era talmente abituata a quei ritmi che riconosceva perfettamente i rumori e i movimenti a quegli stessi orari e non dava nessun impulso di reazione. Li riconosceva, li accettava, li assorbiva, diventavano come silenzio. Probabilmente si sarebbe svegliato se sua moglie avesse fatto tardi o non si fosse alzata.
Il silenzio non atteso diventa rumore.
Si alzò, avviandosi verso il bagno tenendosi la schiena con le mani.
In piedi di fronte allo specchio si guardava il viso che appariva sempre di più morbido e liscio ad ogni passaggio del rasoio. Quel viso che era stato guardato, ammirato, osservato la sera precedente durante il party svolto in suo onore dalla clinica presso la quale lavorava.
In onore di un medico chirurgo che per la prima volta era riuscito a effettuare un'operazione mai eseguita prima di allora, servendosi solo della sua bravura, del suo coraggio, della sua intuizione e di un macchinario altamente tecnologico ideato, progettato e costruito sotto la sua costante supervisione. Lui e quella macchina gli unici artefici di un miracolo: aveva salvato la vita, anzi aveva restituito la vita ad un ragazzo che non ce l'aveva più da tempo; che da più di un anno passava tutti i secondi della sua esistenza allungato su un letto con il corpo collegato a delle macchine che gli soffiavano la sopravvivenza dentro.
Ma lui ci lavorava da troppo tempo per non sapere che dopo un po' i ruoli si stravolgono: quelle macchine iniziarono loro stesse a "vivere" di lui e non il contrario. Il loro senso era in quella stanza, il loro significato era un corpo costantemente collegato a loro. Quel ragazzo che era improvvisamente, involontariamente, senza un senso reale diventato nient'altro che un bianco altorilievo, una forma tridimensionale che nasceva da un letto, era la loro ragione di esistere. Gli donavano ritmo costante al cuore e al tempo stesso gli assorbivano i suoi lenti e artificiali battiti, i profondi sospiri, gli sussurravano nel silenzio - con i loro bip elettrici - la loro superiorità. Secondo lui si sviluppava uno strambo meccanismo, un passaggio surreale e progressivo come di vasi comunicanti: le macchine si riempivano di vita e a lui cedevano il loro metallico vuoto, la loro plastica immobilità.
La cosa che più di tutte lo sbigottiva era come con il tempo riuscivano persino ad accaparrarsi, estorcendogliele, tutte le attenzioni e tutti gli sguardi; i genitori e gli amici quando lo andavano a trovare solo per restare con il palmo delle mani al di là di quel vetro sempre pulito, spesso, schermo asettico di una tragedia, iniziarono a fissare quelle macchine. Come se quel ragazzo si fosse sparpagliato in ognuno di loro. Il suo cuore, i suoi polmoni, i suoi occhi, la sua pur minima vitalità disseminati in quegli apparecchi.
Le vetrate di una camera di isolamento possono diventare uno specchio interno, un visore delle diapositive della propria impotenza, perché danno la possibilità di guardare dentro, di osservare tutto quello che avviene (o che non avviene) e allo stesso tempo osservi te stesso attraverso un riflesso ondulato, monocolore.
Rivolgeva lo sguardo spesso ai genitori quando andavano a trovare il figlio; osservava le loro lacrime sempre più secche, sempre più dense, i loro occhi mobili e tremolanti rivolti agli apparecchi e non a loro figlio; e tutte quelle volte che si era trovato ad fissare la scena in silenzio, mentre era dietro di loro, alle loro spalle e il suo sguardo attraversava le loro nuche, e poi i loro riflessi, ed entrava nella stanza dritto e appuntito fino al letto dove c'era l'immobilità di una vita; e quando sfocava lo sguardo quello che vedeva era se stesso, il suo riflesso, il suo camice bianco, la targhetta con la sua foto e il suo nome scritto al contrario. Quello che vedeva era il viso ondulato di chi come i genitori o qualsiasi altra persona non può far altro che contemplare immobile una vita immobile.
Immobilità in trasparenza.
Quando chiese ai genitori se volevano sottoporre il figlio ad un'operazione che non era mai stata effettuata prima, che era incerta nella riuscita, ma che era l'unica speranza di farlo svegliare gli fece molto più impressione il loro sguardo che si volse velocemente e meccanicamente verso i macchinari attaccati al corpo del figlio come se l'unica cosa che li spaventava era staccare le apparecchiature e non vederle più. Erano diventate loro e solo loro la vita del figlio.
Mentre operava c'era un silenzio che rasentava l'oppressione; avvertiva gli occhi di tutti i presenti che gli colavano sul viso come le gocce di sudore che brillavano sulla sua fronte prima di scendere velocemente lungo le guance ed essere asciugate dall'infermiera.
Il ragazzo si svegliò dopo due giorni di coma vigile. Ma anche durante quei due giorni il miracolo era avvenuto secondo lui perché comunque, quelli erano i primi istanti che viveva di vita solo sua e non donata dagli apparecchi.
Per quel ragazzo riprendere la propria esistenza corrispose anche alla riconquista degli sguardi, dei sospiri, delle lacrime, e in quel caso anche dei sorrisi; tutte cose che durante le visite gli erano state sottratte.
Per lui, il medico del prodigio, ci furono occhiate di ammirazione, di incredulità; e poi strette di mano, abbracci, sorrisi, tutti con il contorno del timore riverenziale.
Per le macchine, ormai relegate in un angolo della stanza, ci furono i suoi sguardi di chiusura. Gli sembrò, addirittura, che lo ricambiassero con un'espressione spenta e esanime. Lui aveva fatto a loro quello che loro avevano fatto a quel ragazzo in coma: gli aveva sottratto dignità.
Quando ebbe finito di radersi si accarezzò il viso morbido, liscio, caldo.

SECONDO


Ore 7.45

Il movimento meccanico della sua mano verso l'altro lato del letto sembrò come comandato dal rumore della sveglia: un automatismo diretto da un allarme; e mentre lo faceva continuava a tenere gli occhi chiusi; non li aprì neanche per spegnere l'apparecchio che trillava: la sua mano cadde a colpo sicuro sul pulsantino di arresto.
Aprì gli occhi: in casa c'era silenzio. L'armadio di fronte a lui aveva un anta semi aperta, non si riusciva più a chiudere correttamente; quel mobile aveva fatto il suo tempo, si doveva decidere a comprane uno nuovo. Si alzò sulla schiena oscillando e ruotando leggermente il collo indolenzito, mentre da fuori provenivano suoni di clacson, rombi di motore, aderenze di copertoni sull'asfalto.
Si alzò e si chiuse immediatamente in bagno. Mentre si spargeva sul viso la schiuma da barba guardava la mano che gli massaggiava il viso e ripensò immediatamente alle carezze ricevute la sera precedente. Tutte quelle carezze di mani sconosciute, casuali; estremità di braccia che si ergevano come rami al di sotto del palco dove stava facendo il suo concerto.
Era la sua prima grande esibizione e ritrovarsi sul quell'enorme palcoscenico con un microfono stretto tra le mani, l'auricolare nell'orecchio che gli spandeva e spalmava nel cervello la sua stessa voce, i musicisti dietro di lui, i fari che sparavano nell'aria circostante e sul suo collo luce e calore gli indolenziva le percezioni.
La sua voce oramai la sentiva solo attraverso gli auricolari, come se fosse registrata e riprodotta successivamente; si era talmente immerso in quell'atmosfera surreale e densa che gli sembrava di stare sotto decine di metri cubi di acqua a muovere la bocca nel silenzio più assoluto, con i movimenti rallentati e pesanti, il corpo in continua compressione. Sentiva, invece, le urla, i fischi; ascoltava gridare il suo nome con la vocale finale allungata all'inverosimile: finché usciva fiato; si sentiva chiamare ininterrottamente da tutte le direzioni ma senza che ne riuscisse a determinarne origine e posizione. Lo stordiva, lo inorgogliva tutta quella folla che sembrava una distesa senza orizzonte, un lago in perenne movimento. Era tutta per lui, erano andati li per sentirlo cantare, per sentire le sue canzoni, per vederlo
E poi tutte quelle dita che cercavano di afferrarlo, di toccarlo, di raccogliere brandelli di esistenza del loro idolo per poi riportarseli indietro, insieme al desiderio di avere avuto qualcosa da ricordare davvero..
Prima che iniziasse il concerto, mentre era dietro le quinte a sbirciare nascosto quella massa indistinta di teste e capelli in attesa; osservava e pensava che tutte quelle persone gli erano sconosciute e a come, in fondo, la loro situazione era simile: loro erano talmente tanti e talmente anonimi da perdere completamente consistenza reale, da non sembrare davvero esistenti; così come era lui per loro, che avevano sentito e sentivano continuamente le sue canzoni, le compravano, le imparavano a memoria, le cantavano in macchina insieme agli amici, le strimpellavano con la chitarra; lo avevano fatto schizzare ai vertici di tutte le classifiche, loro erano lì spiaccicati, pressati, sudati e stanchi per vederlo e inconsciamente per rendersi conto della sua esistenza.
Per questo aveva deciso di andare ai bordi del palco rischiando di farsi tirare giù, con gli uomini della sicurezza che arrancavano, faticavano, scalpitavano per fare in modo che non venisse "aggredito" e risucchiato in quelle sabbie mobili di delirio che si era sviluppato appena lo avevano visto avvicinarsi. Ma doveva toccare e essere toccato da qualcuno di loro, dai più fortunati e intrepidi delle prime file. Glie lo doveva. E lo doveva a se stesso: sentire quelle mani che lo tiravano, lo tastavano, lo palpavano; respirare i loro aliti, i loro sorrisi; aspirare profondamente il loro sudore, la loro stanchezza e felicità era un modo per sentirli più veri, meno sconosciuti.
In quel momento esistevano davvero. E anche lui.
Ma il desiderio di tastare, di esaminare quell'esistenza lo aggredì insinuandosi dentro di lui per arrivare in fretta alle sue braccia che si distesero improvvisamente per prendere, per afferrare due mani aperte e piccole che puntavano verso di lui. Era in uno stato di confusione e trasporto tale che non avvertì il minimo sforzo per aver tirato su quella ragazza. Era una tra le tante, ma in quel momento era la rappresentazione e la rappresentanza di tutta quell'esistenza; e lui ce l'aveva al suo fianco con la piccola mano calda-sudata che gli stringeva forte le dita. Guidarla insieme a lui al centro del palcoscenico era come portarli tutti vicino a lui; insieme a lui.
Lo fece senza smettere di cantare, mentre sentiva alle sue spalle l'enorme folla che aveva iniziato ad urlare a squarciagola quando aveva visto che una ragazza era insieme a lui sul palco. Ci furono momenti di tensione che si svilupparono dietro di lui con gli uomini della sicurezza che cercavano in tutti i modi, anche i più brutali, di ricacciare indietro coloro che cercavano di salire.
Quando si fermò per girarsi lentamente di fronte al pubblico, diede un occhiata alla ragazza al suo fianco e nonostante l'atmosfera, rarefatta dalle urla, dalle luci, dai suoni, nella quale si muovevano, gli avesse sopito tutti i sensi, rimase molto colpito dal suo sguardo, dal suo atteggiamento: era agitatissima, ma non era solo emozione; muoveva in continuazione le mani, i piedi, il busto; non si girava a guardarlo nonostante lui fosse lì a pochi centimetri da lei. Cercava qualcosa con gli occhi, ma dritta davanti a se.
Voleva andare via. Era paradossale ma era così. Probabilmente mentre era sotto il palco con le braccia protese al massimo della loro estensione era completamente posseduta dal desiderio di essere presa per mano da lui e tirata su. E nel momento in cui ciò era davvero successo, a quello si era istantaneamente sostituito il desiderio di andare via, con quell'esperienza marcata sulle mani, sui vestiti, sugli occhi, sul sorriso. Voleva tornare di corsa di nuovo in mezzo agli amici, per accogliere i loro sguardi di invidia e di ammirazione. Doveva raccontare quello che aveva provato.
Ci sono sogni che per essere realizzati devono terminare. O se vogliamo ci sono sogni che sono strumentali ad altri sogni.
Quella ragazza non voleva stare con lui sul palco…lei voleva poterlo raccontare.
Per questo quando le fece un piccolo cenno con la mano sulla spalla appena terminata la canzone, non esitò a correre via senza rivolgergli neanche una piccola occhiata come se lui le avesse dato il segnale che il sogno poteva essere completato. La vide allontanarsi di corsa, finché non sparì di nuovo tra la folla, confondendosi, mischiandosi di nuovo alla sua stessa sostanza.
Tornò ad essere folla.
I suoni bassi della musica serpeggiavano tra le assi del palcoscenico fino a risalire le sue gambe per arrivare allo stomaco in pause circolari.
Quando ebbe finito di radersi si accarezzò il viso morbido, liscio, caldo.


TERZO


Ore 7.45

Fissava la sveglia con la guancia poggiata sul cuscino già da diverso tempo aspettando che suonasse. Guardava la lancetta dei minuti che si muoveva con piccoli, veloci e improvvisi scatti. Quando iniziò a trillare allungò subito il braccio per spegnerla.
Rimase ancora qualche minuto immobile con la testa, spostando solo di qualche centimetro lo sguardo sulla parete di fronte: i raggi di sole che entravano dalla finestra correvano dritti e polverosi verso il vetro del quadro naif rimbalzando con riverberi colorati e accesi. Gli piaceva molto quella stampa. Non ne capiva i disegni e le forme ma lo attraevano i tanti colori che si intrecciavano e si mischiavano in danze e movimenti di cui non aveva una comprensione logica. Era solo questo il motivo che lo aveva spinto ad acquistarlo per corrispondenza insieme ad altre cinque stampe dello stesso genere rimaste nello sgabuzzino ancora chiuse nella loro confezione in attesa che si decidesse ad appenderle.
Attraverso il riflesso del vetro riusciva a vedere anche la parete opposta e l'appendiabiti di sua moglie. Un'immagine distorta, disturbata, sgranata.
Mentre era in bagno avvertiva un cerchio alla testa e leggeri, quasi impercettibili giramenti inaspettati. Si stropicciò gli occhi e si guardò allo specchio, appoggiando le mani ai bordi del lavandino.
Sentiva la schiuma da barba avvolgergli il viso morbida, delicata, profumata; era un po' come lo sguardo che sua moglie gli aveva fatto la sera prima, mentre erano a cena in un ristorante e un giornalista suo amico, entrando di fretta si era avvicinato mettendogli un braccio attorno alle spalle e gli aveva annunciato che aveva avuto una nomination all'oscar come migliore attore straniero. Mentre il giornalista gli porgeva la mano non smise un attimo di guardare sua moglie che nonostante il tono sommesso era riuscita a sentire e gli sorrideva dal basso inviandogli continui impulsi di ammirazione, soddisfazione, orgoglio, amore. Quando rimase solo con lei non riusciva a smettere di sorridere neanche mentre parlava non poteva non inarcare le labbra e le parole che pronunciava venivano fuori gonfie, con un tono deformato dalla felicità.
I suoi occhi erano diventati lucidi, riflettevano qualsiasi cosa li colpisse, come uno specchio; come il vetro della cornice del quadro naif in camera sua. Occhi sui quali rimbalzavano le delicate e flebili luci del locale che lui elaborava, amplificava e guidava per dipingere la sua vita, e quella serata con colori ardenti e abbaglianti uniti in girotondi persistenti, in danze confuse e ritmiche. Una vita che gli si era si praticamente modificata istantaneamente a metà filetto, in un ristornate mezzo vuoto, silenzioso, posto in una strada di cui non conosceva neanche il nome.
Iniziò a girarsi attorno staccandosi ogni tanto dallo sguardo fisso e sorridente della moglie la quale anche se lentamente continuava a smangiucchiare; guardava le altre persone presenti nella sala che masticavano, bisbigliavano, sorridevano e pensava a come qualche istante prima era come loro: tranquillo, rilassato, senza pensieri degni di nota. Invece improvvisamente era accaduto qualcosa di straordinario e tutto davanti ai loro occhi. Anche se non sapevano quello che era successo. In fondo tutti gli altri avevano solo visto entrare un uomo che dopo aver scambiato con lui poche parole lo aveva abbracciato e gli aveva stretto la mano. Probabilmente qualcuno più attento aveva notato anche il cambiamento e la metamorfosi del suo sguardo, del suo viso e di quello di sua moglie. Ma in quel momento per loro era tornata la normalità. Per loro.
Poi c'era la moglie che suo malgrado si era ritrovata ad essere spettatrice attiva e non incolume di quel cambiamento repentino, anzi istantaneo; era come se il giornalista fosse arrivato lì dentro recidendogli di netto l'esistenza e innestandogliene contemporaneamente un'altra che prevedeva percorsi completamente diversi. Direzioni completamente diverse.
Guardava la moglie che lo osservava con le mani incrociate sotto il mento, il suo filetto nel piatto, il bicchiere di vino, ma non li vedeva quasi più: era rapito da se stesso, dal suo possibile futuro che si manifestava con immagini quasi oniriche che invadevano e occupavano il suo campo visivo e sensoriale. Occhi come cineprese che proiettavano (o registravano) quello che gli sarebbe successo da quel momento in poi: le interviste, le foto, le continue richieste per partecipare ad altri film. E poi:
La sala dove si svolgeva la cerimonia di consegna degli oscar, illuminata e colma di profumi, tailleur, scollature e smoking; il personaggio famoso di turno sul palco estrae il foglio bianco e rigido dalla busta, il suo sorriso che si apre, i suoi occhi che scrutano la platea, la sua voce amplificata che con un italiano non conosciuto e imparato a memoria proclama il vincitore e chiama il suo nome.
E poi applausi deboli e incerti che partono dalle prime file e dopo qualche istante si avviano procedendo velocemente indietro ingrossandosi sempre di più, riempiendosi di mani ad ogni fila scavalcata fino ad arrivare alla sua oltrepassandola. Lui si sente in un attimo invaso, colpito, schiaffeggiato da quell'onda che continua la sua corsa, schiumosa, confusa e determinata fino alla galleria per ridiscendere giù: fino a quando non c'è più mare da cavalcare; si alza dalla sua poltroncina rivestita di velluto, sorridendo, guardando l'enorme sala che è diventata sua. La moglie che dal basso - ancora una volta diventa involontaria e passiva - lo cerca con lo sguardo, lo chiama con il sorriso; lui le prende la mano per non farla "annegare" e sparire in quel mare in burrasca e tenerla a galla e vicino a se.
Mormorii, sguardi e ancora applausi attestati sullo scroscio accompagnano e spingono i suoi passi verso il palcoscenico Il personaggio famoso che lo guarda avvicinarsi con un sorriso sempre più scintillante come la statuina stretta nella sua mano che cattura e ricaccia indietro con sottili e luminosi riflessi le luci della sala.
Sente il sangue rifluirgli nella testa come se stesse andando tutto lì senza ridiscendere. Lo sente girare vorticosamente, lambirgli tutti i tessuti cerebrali; gli ottura le orecchie, gli infuoca il volto. Ogni passo sulla gradinata che porta sul palco è una scarica di brividi che gli sensibilizza la pelle allo smoking, e gli gonfia le vene del collo che pulsano costrette, e strette dal colletto della camicia.
Si ritrova improvvisamente in piedi sul palco con l'oscar in mano a cercare la moglie - tra il bianco confuso dei sorrisi e gli applausi che erano cresciuti di intensità - come se un esperto del montaggio avesse tagliato alcuni fotogrammi, riuscendo a lasciare intatta la continuità della scena.
Nei film si possono saltare fasi superflue (sempre che ce ne siano) nella vita no (chissà perché?). In fondo se sei bravo non si perde la comprensione dell'azione: è una questione di "economia".

Quando ebbe finito di radersi si accarezzò il viso morbido, liscio, caldo.


QUARTO


Ore 7,45

Dimenticarsi di togliere la programmazione della sveglia quando si va a dormire è molto scocciante, ma capire dopo qualche trillo - rifiutato dal corpo, e dalla mente - che la si può spegnere tranquillamente e continuare a dormire perché da quel giorno iniziano le ferie pasquali, compensa del disturbo. Ampiamente. Fece un piccolo sorriso mentre si girava dall'altra parte dopo aver interrotto velocemente quel rumore diventato inopportuno per evitare che la moglie si svegliasse completamente.
Quando si voltò la vide con la fronte corrugata e gli occhi chiusi. Respirava ancora profondamente. Era un respiro in bilico tra sonno e veglia. Tra sogno e realtà. Le accarezzò il viso dolcemente e lei si girò dall'altra parte mettendosi nella sua posizione preferita per il sonno: semi fetale sul fianco destro. Si stava riappropriando completamente del sonno.
Lui restò con gli occhi aperti, il corpo rilassato, la mente in stand by. Nonostante le tapparelle fossero state serrate completamente, la luce trovava comunque dei varchi per entrare; sfruttava dei piccoli fori e delle imperfezioni per infiltrarsi nella stanza in filini luminescenti troppo deboli e sottili per arrivare al quadro naif che senza illuminazione sembrava un'enorme macchia scura sul muro.
Poteva (anzi doveva) approfittare di quei giorni di libertà per trovare un posto anche alle altre stampe chiuse nello sgabuzzino. La moglie gli aveva detto che dovevano assolutamente passare in qualche mobilificio per comprare un altro armadio perché non sopportava più l'anta che si riapriva continuamente di quello che avevano in camera. Ma la prima cosa che avrebbe fatto appena sveglio e in piedi, era riparare il lampadario per rimettere la copertura al suo posto e nascondere i fili elettrici che sbucavano dal foro al centro del soffitto.
Si accarezzò il viso e sentì sulla pelle i peli della barba che immancabilmente si erano riproposti, ma radersi non rientrava assolutamente tra i suoi programmi della mattinata. Iniziavano le ferie.
Poteva anche sognare di essere un grande chirurgo, un idolatrato cantante o un bravissimo attore ma lo avrebbe fatto nel letto ad occhi chiusi e con il viso ruvido e caldo.
Si girò verso la moglie, l'abbracciò assumendo la sua stessa posizione per incastrarsi al suo corpo e si riaddormentò profondamente.