identità e imperfezione 
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Andrea Cacciavillani
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UNPLUGGED - Parte Terza
 
Si svegliò con una linea di sole che passava sul petto entrando dalla finestra. Quando aprì gli occhi, si accorse subito, senza dover girare la testa, che di fianco a lui nel letto non c'era nessuno. Si alzò sul busto cercando di dare ai suoi capelli un aspetto ordinato e puntando l'orecchio verso la porta del bagno; non sapeva se farsi trovare così da Stefania o alzarsi e mettersi qualcosa addosso velocemente.
Lei lo aveva visto. Probabilmente era stata ad osservare chissà per quanto tempo il suo viso mentre dormiva e lui non aveva neanche sentito quando si era alzata nuda, e ancora non sapeva minimamente com'era.
Il cuore iniziò a battergli forte quando realizzò che stava per vederla davvero. Cercò di assumere un atteggiamento rilassato, dritto, con la schiena poggiata sulla spalliera del letto pensava a cosa dire, a quale espressione dare al suo viso quando Stefania sarebbe uscita dal bagno. Si guardava attorno nervoso nella stanza illuminata dalla luce del sole e vedeva l'armadio di fronte a lui, il tavolino dove la sera prima aveva posato le chiavi della camera che erano ancora lì, il colore del pavimento, il lampadario che non era stato acceso.
Vicino la porta vide i suoi vestiti e le sue scarpe per terra aggrovigliati a pacco, come se fossero stati sfilati insieme contemporaneamente.
Non vedeva i vestiti di Stefania, anzi a guardare bene, non c'era niente in quella stanza, nessun oggetto, nessun segno della sua presenza e solo allora si accorse che anche dal bagno non provenivano rumori. Decise di vestirsi; non sapeva dove fosse Stefania, ma non voleva farsi trovare allungato nel letto nudo, disorientato e imbarazzato.
Quella stanza gli era più familiare nella penombra e nell'incertezza delle sue dimensioni che in quel suo essere illuminata e così concreta. Un po' come Stefania, che lo aveva amato impetuosamente al buio nell'incertezza e nell'oscurità dei suoi tratti e anche della sua voce.
Era diventato ancora più nervoso e non perché era arrivato il momento di vederla ma aleggiava una strana atmosfera in quella stanza. Una pesantezza silenziosa.
Si alzò e si vesti silenziosamente e velocemente senza staccare gli occhi dalla porta del bagno; con i suoi indumenti addosso si sentiva più protetto per pensare e agire in quell'atmosfera ambigua che si stava infittendo. Posò delicatamente l'orecchio sulla porta senza avvertire nessun movimento o scroscio d'acqua. Picchiò e la chiamò, poi aprì: buio.
Quando accese la luce, si accorse che non era stato assolutamente utilizzato: la tavoletta del water chiusa e avvolta con la fascia della pulizia igienica, gli asciugamani ripiegati su uno sgabello, il lavandino perfettamente smaltato e senza gocce.
Tornò indietro con un'ansia che lo avvolgeva sempre di più come una nebbia che diventava progressiva man mano che i secondi passavano. Si girò verso il letto per accertarsi che c'era stato qualcuno con lui quella notte; guardò i cuscini schiacciati che portavano ancora i segni delle teste che vi erano state poggiate, le lenzuola che erano spiegazzate da entrambi i lati. Si avvicinò al cuscino di Stefania e lo annusò cercando di ritrovare il profumo che aveva sentito su di lei ma del quale aveva perso traccia; tastò il cuscino, lo osservò da vicino per trovare capelli o qualunque altra cosa che potesse raccontargli del suo passaggio. Si aprì la camicia e cercò sulle spalle, sulle braccia, sul petto. Niente.
Quando si fermò un istante a riflettere sul vuoto di quella camera che gli faceva ruotare nella testa come un sogno quello che era successo, si accorse che le coperte da quel lato erano scostate. Qualcuno si era alzato di lì.
Non sapeva cosa fare. Doveva aspettare? Se fosse uscito fuori per cercarla avrebbe dovuto chiamare a voce alta tutte le donne che incontrava perché non sapeva assolutamente com'era fatta Stefania. Aveva fatto l'amore con lei, incontrandone il respiro, la pelle, il profumo, le labbra, la lingua, l'impetuosità ma non ne conosceva i colori, i tratti e questo pensiero gli fece contrarre lo stomaco e la gola. Si affacciò alla finestra sporgendosi: c'era gente in strada che si muoveva e camminava, rumori di clacson, puzza di smog. Cercò le sigarette nella giacca e ne accese una fumando nervosamente appoggiato di nuovo, come la sera prima, di spalle al davanzale.
E come la sera prima si mise di nuovo ad aspettare che la porta si aprisse, ma questa volta con i pensieri completamente accartocciati e sgualciti senza riferimenti e immagini.
La porta non si aprì. Era passata più di mezz'ora e aveva fumato due sigarette che gli avevano bruciato la gola e ridotto ancora di più lo stomaco.
Prese il suo zaino e senza convinzione, con movimenti lenti e di attesa, si avviò verso la porta. Rimase fermo sul corridoio guardandosi intorno senza avvertire rumori o voci; l'unica cosa che sentiva forte dentro era un'ansia imponderabile e uno sconcerto al quale non riusciva a dare una spiegazione e una forma comprensibile.
Quando la porta dell'ascensore si aprì, esitò ad entrare: se si fosse potuto sdoppiare lo avrebbe fatto per scendere sia con l'ascensore che a piedi ed evitare di non incontrarla. Alla fine decise di fare i tre piani di scale e lo fece lentamente, perché non sapeva cosa dire alla reception e - soprattutto - non sapeva ancora se doveva andare via o aspettare. Tutto quello gli sembrava assurdo e ad ogni gradino cercava di riprendere dalle sensazioni della sera prima immagini che potessero dare a quegli istanti della sua vita una parvenza di realtà. Aveva immaginato di tutto per quell'incontro, qualsiasi finale, da quello più bello a quello più brutto, ma non si aspettava che non ci sarebbe stato un finale. Si sentiva come se fosse rimasto imprigionato in un sogno e in quell'albergo.
Quando arrivò al piano terra, vide la receptionist che parlava a telefono: si fermò un attimo pensando cosa chiederle. Lei dovette accorgersi della sua presenza e alzò il viso tenendo la cornetta ferma con la spalla sull'orecchio. Lo guardava fisso con un'espressione seria, senza sorriso, continuando a parlare.
Quando ripose il telefono, il sorriso si aprì e lui iniziò a fare dei passi stentati verso di lei. La ragazza non gli toglieva gli occhi di dosso e lui non riusciva a estrapolare dalla sua mente la domanda meno tendenziosa per chiederle e per sapere che fine avesse fatto Stefania.
Lei l'aveva vista entrare e probabilmente uscire e adesso invidiava i suoi occhi perché avevano avuto questa opportunità. Lo sguardo fisso e pesante della receptionist lo imbarazzava e lo confondeva ancora di più come se lei sapesse qualcosa che lui non sapeva o come se leggesse il suo imbarazzo e il suo sbigottimento per quello che non era successo.
Quando arrivò al bancone, cercò di assumere un atteggiamento naturale e rilassato anche se lo sguardo interrogativo e indagatore della receptionist non gli lasciava molto scampo.
- Ehm! Mi scusi, la persona che era con me in camera, non sa dove è andata?
Era la domanda più stupida che poteva farle ma era anche l'unica. Perché altrimenti avrebbe dovuto chiederle: Non sa dove è andata la donna che è stata con me questa notte e, visto che lei l'ha vista e io no, mi dice come è fatta, così provo a cercarla?
- Le ha lasciato detto dove andava?
Cercava di recuperare la situazione tirandosi fuori dall'imbarazzo dando anche alla sua domanda una vestito naturale. Ma la ragazza non sembrava convinta del suo atteggiamento e continuava a scrutarlo con una luce negli occhi che sembrava volesse entrargli dentro.
- Veramente è uscita questa mattina molto presto. Non mi ha lasciato detto niente.
Non sorrideva più come se volesse partecipare al suo dramma personale, come se volesse fargli capire che le dispiaceva per quella situazione anomala e incomprensibile nella quale si era trovato, nella quale si era risvegliato.
- Ha pagato la camera ed è andata via.
Sentì improvvisamente l'aria dell'atrio che iniziava a schiacciarlo e comprimerlo come se fosse diventata di una pesantezza e di una densità insostenibile, sembrava che qualcuno lo avesse preso per una caviglia e portato giù a decine di metri sotto il livello del mare e, più scendeva, più la pressione del suo sconvolgimento lo opprimeva dall'esterno dilatandosi dall'interno.
- Mi dispiace.
Eccolo. Mi dispiace. Era come se si aspettasse che glielo dicesse. Non si vedeva, ma sentiva di avere un'espressione orrenda e tragica allo stesso tempo: forse si vedeva la sua imminente implosione; doveva essere per forza così per farsi dire "mi dispiace" da una persona che non sapeva quello che stava succedendo dentro di lui. Probabilmente il volto che aveva in quel momento era quello, sconvolto, di chi è stato abbandonato nel letto inaspettatamente e rocambolescamente.
Ed in effetti era stato abbandonato e se ne rendeva conto sempre di più, ma da una persona della quale non conosceva il volto. L'unica coordinata che aveva era il suo indirizzo di posta elettronica, cioè qualcosa che per poter essere minimamente reale doveva essere scritto su un foglio.
Quindi non aveva niente di lei. Neanche i ricordi della notte precedente, che erano ridondanti ma confusi e scoloriti come se fossero stati lasciati tra le pareti di quella camera.
- Ok. Salve.
In quel momento l'unica cosa che desiderava era uscire da quell'albergo, risalire le profondità dentro le quali era stato ricacciato e tornare a respirare aria e realtà, non il liquido denso di quel sogno che non si era neanche minimamente avvicinato alla più brutta delle sue sensazioni.
Si avviò con un passo di fuga verso l'uscita, sperando di ritrovarsi, una volta uscito di lì, come d'incanto senza una buona parte dei suoi pensieri.
La porta a vetri si avvicinava ai suoi respiri, ai suoi occhi mentre la voglia di scappare da lì dentro lo spingeva come una mano che lo tirava e attanagliandoli il collo.
- Gianni??!
Si immobilizzò come una statua di creta: pensieri senza immagini corrispondenti, sensazioni troppo veloci e violente per poterle fare sue e cavalcarle liberamente.
Si voltò bianco in volto, e subito dopo livido con la speranza che fosse stata Stefania a chiamarlo.
Forse era salita con l'ascensore e non si erano incrociati. Era entrata in camera e non lo aveva trovato e allora era uscita di corsa trovandolo proprio mentre stava andando via. È vero, lui era di spalle ma lei aveva avuto l'opportunità di vederlo disteso nel letto assorto nel sonno.
Si girò lento come una bambolina su un carillon, seguendo il comando dal rullo dentato delle sue emozioni:
- Mi scusi, signore. La sua carta di identità.
Vide la receptionist con un'espressione tra il divertito e il dispiaciuto, sempre dietro il bancone con il suo documento in mano, stretto tra le dita. Si guardò lo stesso attorno seguendo un riflesso condizionato, ma non c'era nessun altro. Non voleva andare a riprenderla, non voleva di nuovo entrare in quell'hotel, avrebbe voluto farsela lanciare invece di avvicinarsi.
Mentre andava in stazione con un i passi pesanti come l'ansia, percepiva dentro di sé che non l'avrebbe più sentita. Era quasi una certezza sul treno e lo diventava sempre di più sull'autobus fino ad avere l'amara conferma a casa, davanti al PC, che non ci sarebbe stata nessuna mail di Stefania.
Nessuna, neanche nei giorni successivi.


Probabilmente Gianni capirà e troverà un po' alla volta note stonate in quella che a lui sembrava una sinfonia perfetta. Troverà pezzi di mosaico che, a guardarli bene, non combaceranno perfettamente, tasselli sbagliati all'origine.
Adesso che può solo ripercorrere tutto a ritroso e in lungo e in largo a suo piacimento.
Potrebbe, invece, capire tutto e subito se solo rientrasse in quell'hotel, magari invisibile e nascosto per ascoltare questo dialogo:
- Buonasera
- Buonasera signor Tommasi. Il viaggio è andato bene?
- Sì, ma quando si viaggia per lavoro, per andare bene, deve concludersi l'affare. Per adesso sembra che siano rimasti soddisfatti della proposta di franchising di questa catena di hotel. Ho mostrato loro i conti, le valutazioni. Insomma, ho dato loro i miei dati e ho lanciato l'idea, adesso aspettiamo che decidano. Ma sono ottimista. E stanco.
- Ha chiamato anche il signor Gennari. Gli ho detto che lo avrebbe richiamato lei appena possibile.
- Sì, lo chiamo domani. L'affluenza qui in hotel?
- Per la maggior parte sono stati turisti. Qualcuno è ancora qui. Poi vediamo: un uomo che è rimasto il fine settimana e una coppia che ha preso una stanza per una notte, ieri sera.
- E la tua targhetta?
- Ah sì, l'ho tolta perché ho lavato la divisa. Adesso la rimetto.
- Io vado a casa. Se mi cerca qualcuno, prendi un appunto, poi lo richiamo. Non credo possano cercarmi i Francesi perché è ancora troppo presto, ma solo in quel caso, fammelo sapere subito.
- Ok! Buonanotte signor Tommasi.
- Buonanotte Stefania.