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di Alfonso Cardamone | |||
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"Se penso a una luce che ha impressionato, nella vera notte dei tempi, la pellicola del pensiero, se penso a una storia recitata prima di tutte le storie, se penso a un incanto che ha pervaso la vita primordiale, penso alla luna". Per Giuseppe Sermonti, il pallido astro, "capace di suscitare immagini senza fine", sarebbe all’origine di concetti e di parole primigenie, suscitatore di una saggezza lieve depositatasi "nei milioni di anni, nelle centinaia di milioni di anni, sui tessuti della vita". In modo particolare, sarebbe alla base delle più antiche storie del mondo, delle fiabe, cioè, così come delle leggende e dei miti. "Tante trame fiabesche e mitologiche acquistano dalla luna un senso profondo e fatale".
Tra le fiabe sottoposte ad analisi secondo il suddetto schema di riferimento, nell’opera "Fiabe di luna" (Rusconi, 1986), intenderò soffermarmi con particolare attenzione su quella di Cenerentola, giustamente dal Sermonti ripresa nella versione dei Grimm, come quella più prossima alla tradizione orale e dunque al nucleo originario della narrazione. Questo perché uno straordinario parallelismo con una storia algonchina potrà consentire conclusioni inedite e suggerimenti sorprendenti, ben oltre la pur implicita conferma dell’intuizione del Sermonti.
Dunque, per comprendere il rapporto di Cenerentola con le due sorellastre, dovremo tenere presente che la luna è una entità dotata di un triplice aspetto: nella eterna successione delle sue fasi si presenta volta per volta come nova, cava, plena. A questi tre aspetti si riconducono rispettivamente la protagonista e le antagoniste della fiaba: le sorellastre rappresentate come fanciulle belle e bianche di viso, ma brutte e nere di cuore, e Cenerentola, fuligginosa e modesta ma sempre buona. Le prime possono essere interpretate come allusioni/rappresentazioni dei due aspetti trionfanti e superbi, luminosi della luna; la seconda come allusione/rappresentazione della fase declinante e funebre, luna nova, o, appunto, cinerea. Questa interpretazione non dà semplicemente ragione dell’aspetto dei personaggi, ma trova conferma dallo snodarsi della vicenda, dai connotati delle relazioni che tra quei personaggi si vengono a stabilire. Una volta preso possesso della casa paterna di Cenerentola, le sorellastre le tolsero i suoi bei vestiti, le fecero indossare una vecchia palandrana grigia e le diedero un paio di zoccoli. Se i "bei vestiti" sono metafora trasparente delle luci della luna splendente quando si viene a trovare in opposizione al sole (il fuoco del focolare!), la "palandrana grigia", che quei vestiti viene a sostituire, può ben esserlo dell’ombra che succede alla luna splendente quando, nella fase di congiunzione solare, la occulta come cinerea. Il "paio di zoccoli", a loro volta, in quanto calzature affatto inadatte al ballo celeste, si attagliano perfettamente alla sorte di chi, ormai oscura ed oscurata, si trova relegata a languire (non più in opposizione, ma in congiunzione solare!) accanto alla fiamma del focolare.
Ma una luna nuova, una luna morta deve sempre resuscitare, a conferma della vicenda astrale e, insieme, del simbolismo di speranza e resurrezione che è legato al ciclo lunare. Così, Cenerentola si fa portare dal padre un "rametto di nocciolo", che pianta sulla tomba della madre, e quindi riprende la via della luce (il rametto, scrive Sermonti, "è un pezzetto di luna, ma crescerà e fiorirà, come getto della vecchia luna (dalla tomba)"). Ed eccola, Cenerentola, alla festa del Principe (Principe solare!), vestita di oro e di argento, intenta per tre notti a ballare: "la festa è il plenilunio, che appunto dura tre giorni, allorché la luna è splendente di fronte al sole (in opposizione) nel passo più bello della sua danza. La veglia al castello è in contrapposizione al sonno davanti al focolare". E mentre "la modesta Cenerentola", danzando la danza celeste, "celebra la luce, le sorelle la perdono, private degli occhi". Seducente interpretazione, anche se qua e là mostra le corde di qualche forzatura. Ma a convincerci della legittimità sostanziale dell’operazione ecco, incredibilmente, una storia pellerossa, che sprofonda la materia della fiaba europea nel sostrato più profondo della mitologia, cosiddetta primitiva, del popolo algonchino.
"Piccola Faccia Bruciata" (si veda Leggende Indiane, a cura di Pierluigi D’Oro, Fabbri 1989) è una leggenda algonchina, in parte contaminazione della celebre fiaba europea importata dai conquistatori bianchi, in parte riproposizione di temi e di figure prorompenti dal più antico sostrato mitologico originario del popolo algonchino.
La protagonista della storia si presenta incontestabilmente come un calco del personaggio di Cenerentola. Terza di tre sorelle, di cui le più grandi "abili e carine, ma pensavano solo a se stesse", era "molto bella, ma timida e fragile". Come Cenerentola, anche l’eroina pellerossa è orfana di madre, abbandonata ed esposta spesso alle angherie delle prepotenti sorelle maggiori (il padre il più delle volte "partiva per dei lunghi viaggi di caccia, affidando la figlia più piccola alle cure delle sorelle più grandi"), che non solo la caricavano della soma dei lavori domestici, deridendola "continuamente per l’aspetto dimesso e i vestiti laceri" (la sera, si legge, si sedeva sola accanto al fuoco e si addormentava subito, senza neanche mangiare per la stanchezza), ma alcune volte, con crudeltà incredibile, la facevano "avvicinare al fuoco così tanto che le si era bruciata la pelle del viso e delle braccia". Anche i capelli erano bruciacchiati dappertutto dalle scintille del focolare.
L’introduzione, dunque, della storia coincide e corrisponde perfettamente (fatti i debiti adattamenti di civiltà) con quella della fiaba popolare europea. Ma più avanti la storia pellerossa vira completamente, abbandona il tracciato superficiale proposto dal calco della fiaba europea e si sprofonda nell’autoctono e ancestrale sostrato mitico, quasi a evidenziare le implicazioni più nascoste e profonde suggerite da quel tracciato.
Sull’altra sponda del lago di Piccola Faccia Bruciata viveva, insieme con la sorella, uno strano e misterioso personaggio: si favoleggiava che fosse bellissimo e molto forte, ma nessuno aveva mai visto né lui, né la sua ombra. Era chiamato l’ Invisibile. E, anzi, neanche si può dire che vivesse in quella capanna sull’altra riva del lago, ma a quella capanna sempre tornava la sera, quando il sole tramontava, non visto da alcuno, ma solo annunciato dal rumore che faceva la pagaia della sua canoa sull’acqua.
L’ Invisibile è, nell’economia della storia, il corrispettivo funzionale del Principe di Cenerentola (come quello, anche lui "stava cercando moglie" e le aspiranti, come nella fiaba europea, vengono sottoposte a prove speciali), ma è anche, e prima di ogni altra cosa, in maniera estremamente trasparente (molto di più che il Principe solare della fiaba dei Grimm), il protagonista di un preesistente mito solare e lunare. A tal proposito, le sue attribuzioni e prerogative parlano chiaro. Intanto, egli rientra alla propria dimora ogni sera al tramonto, invisibile ad occhi umani, attraversando le acque (acque infere, accesso ad un mondo altro proibito ai mortali). In secondo luogo, la corda del suo arco è l’arcobaleno e la cinghia per la caccia è la Via Lattea. Non ci possono essere dubbi: l’ Invisibile è il Sole, il Dio Sole che, compiuto il giro diurno, sprofonda, ormai non più visibile ad occhi umani, nell’oscura dimora situata nel mondo infero, al di là delle acque. E Piccola Faccia Bruciata, unica fanciulla in grado di superare la prova (scorgere l’ Invisibile e darne contezza dichiarando alla di lui sorella di che cosa sono fatte le corde dell’arco e la cinghia per la caccia), è con tutta evidenza una personificazione della Luna, la Dea Luna del popolo algonchino.
Come la lunare Cenerentola dell’interpretazione del Sermonti, anche Piccola Faccia Bruciata, prima di recarsi al fatidico incontro, "si lavò ben bene le mani e il volto", anzi andò al lago a fare il bagno. E se il lavaggio dalla polvere, o cenere può simboleggiare, come vorrebbe il Sermonti, "l’illuminarsi della luna", il togliersi di dosso "l’odore di vivo", "di donna" per rendersi divina, quest’ipotesi risulta confermata e rivelata dai riferimenti contenuti nella leggenda algonchina: la lunga tunica di bianca corteccia di betulla che la fanciulla indossa dopo il bagno, la bellissima collana, che ella allaccia attorno al collo, composta di conchiglie bianche donatele dal padre (allusione alle stelle che la luna raccoglie nel suo percorso zodiacale), i grandi mocassini di suo padre, che dovette legare alla caviglia per non perderli. Questo dei calzari è un elemento particolarmente significativo e rivelatore. Piccola Faccia Bruciata quando si presenta alla capanna dell’ Invisibile calza calzature ancora grossolane come gli zoccoli della Cenerentola/Luna in fase cinerea, inadatti alla danza celeste della rigenerazione luminosa. Ma quando avrà dato prova, con le sue risposte ai rituali quesiti, di essere la predestinata alle fatidiche nozze, ottiene dalla sorella dell’ Invisibile (che intanto l’avrà per una volta ancora lavata con una odorosa acqua risanatrice delle cicatrici che la deturpavano, e pettinata fino a che i capelli "diventarono lunghi e luminosi come le ali di un uccello") dei piccoli mocassini, nella misura almeno equivalenti della scarpina di Cenerentola, cioè della "sottile luminosa falce con cui inizia il percorso celeste della luna", perfettamente idonei ai passi della danza celeste che la fanciulla si accinge ad eseguire. Ormai, infatti, Piccola Faccia Bruciata è di fronte all’ Invisibile: "poi si sedettero insieme davanti alla capanna, mentre le ombre della sera scendevano sul grande lago". La Luna, ormai plena e splendente, è in
opposizione al Sole e, calzando i giusti calzari, come ballerina è pronta a ruotargli di fronte.
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