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di Rosetta Zan | |||
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I dati sulla mortalità universitaria ormai li sappiamo tutti: solo un
terzo degli studenti iscritti si laurea. Questo dato rimane pressochè invariato
per la Facoltà di Scienze: si laurea il 36,4% degli studenti che si iscrivono,
e fra questi la percentuale di quelli che finiscono gli studi senza andare
fuori corso è del 20,2% (dati ISTAT riportati in Accascina et al. [1995]
). Qual è il ruolo della matematica in questo quadro desolante? Esiste
in particolare un fenomeno di disagio e/o di ritardi legato agli esami
di Matematica, e quali dimensioni eventualmente ha? Non ho a questo proposito
dati nazionali. Le uniche informazioni di cui dispongo in merito riguardano
l'Università di Pisa in un particolare anno accademico (il '93-'94): se
escludiamo dalla Facoltà di Scienze i corsi di laurea in Matematica, Fisica,
Informatica, in cui l'insegnamento della matematica già al primo anno si
articola in più corsi differenziati, la percentuale degli studenti che
supera in regola, cioè entro la sessione di febbraio, l'esame generale
di Matematica (denominato comunemente Istituzioni di Matematiche), è del
21% circa. Mi sembra che questo dato, per quanto parziale e non omogeneo
con quelli citati all'inizio, autorizzi ad ipotizzare un disagio specifico
per la matematica, e a parlare quindi, oltre che di mortalità universitaria,
di mortalità matematica. Ogni anno allora, davanti ai 150 studenti di biologia,
o di geologia, o di chimica, pronti a seguire la prima lezione di Matematica,
viene naturale chiedersi: Chi ce la farà? Chi invece si perderà, e quando?
Chi cambierà definitivamente strada, e chi riuscirà ad arrivare in fondo?
Ma soprattutto: PERCHE'? Quali sono le cause di questi abbandoni, di questi
ritardi, di questo disagio? E cosa possiamo fare per affrontare, ancora
prima che risolvere, questi problemi? Domande impegnative. L'esperienza,
o meglio la riflessione sull'esperienza, ci può portare solo a fare ipotesi:
e sono ipotesi quelle che voglio proporre in questo intervento. Le risposte
possono venire solo da sperimentazioni serie e valutazioni attente, che
richiedono un investimento mirato di risorse. Le lacune di base in matematica:
le prove d'ingresso. La matematica, fra tutte le discipline scolastiche,
è unanimemente riconosciuta come quella in cui la sequenzialità è più importante.
In particolare dopo la scuola elementare ogni conoscenza ed abilità si
fonda su conoscenze e abilità acquisite in precedenza: eventuali carenze
a livello dei cosiddetti pre-requisiti possono quindi spiegare difficoltà
nell'approccio a nuovi argomenti. Su queste osservazioni si fonda l'uso
dei test d'ingresso in matematica. Indubbiamente sono tante le informazioni
che possiamo ricavare da tali prove, soprattutto se coinvolgono un numero
significativo di soggetti: informazioni sugli effetti dell'istruzione precedente,
e quindi anche verifica della conoscenza di programmi e della validità
delle metodologie utilizzate, che può portare a mettere in discussione
alcune delle scelte didattiche operate; informazioni sul livello medio
iniziale del gruppo classe, e quindi indicazioni sulle scelte didattiche
da operare; a livello del singolo studente, indicazioni sulle carenze da
colmare per poter affrontare i nuovi argomenti. Particolarmente informative
appaiono le indagini che affrontano la problematica delle conoscenze matematiche
degli studenti da più punti di vista. Ad esempio nella ricerca condotta
da Accascina et al. [1995] i vari items di matematica presenti nel questionario
per gli studenti sono stati dati in esame anche a docenti di scuole superiori
ed universitari, con la consegna di fare previsioni sui risultati. L'interesse
dei dati raccolti viene allora amplificato dal confronto fra i tre gruppi
di risposte (questionario degli studenti / previsioni dei docenti di scuola
superiore / previsioni dei docenti universitari): in particolare emergono
in questo modo le convinzioni che i due gruppi di docenti possiedono sulle
conoscenze degli studenti, informazione a mio parere estremamente importante
per interpretare le scelte didattiche effettuate. Ma "contro"
le prove d'ingresso cosiddette oggettive, o meglio contro un uso acritico
e indiscriminato di esse, si registrano anche numerose argomentazioni.
Vorrei qui ricordare solo: la difficoltà di costruire prove valide, complete,
informative (per quanto riguarda la matematica, indicazioni interessanti
in tal senso si trovano in Ferrari [1996]); l'influenza dei fattori emozionali
sulla prestazione del singolo studente; il rischio (presente a livello
pre-universitario) che in base ai risultati delle prove il docente si formi
convinzioni e aspettative che possono poi influenzare le possibilità di
riuscita o comunque il rendimento dello studente, come hanno messo in evidenza
le ricerche sul cosiddetto effetto Pigmalione (cfr. Rosenthal e Jacobson
[1991]).
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![]() Osservare i prodotti / osservare i processi Ma il problema che qui interessa affrontare è un altro. Le carenze a livello di conoscenze e abilità che emergono da queste prove possono giustificare errori, difficoltà e fallimenti circoscritti alla risoluzione di esercizi e problemi. Ma questi fallimenti "locali" sono in grado di spiegare quella che abbiamo chiamato mortalità matematica? Questa sorta di "fotografia" dei nostri studenti che facciamo all'inizio di un corso riesce a cogliere i loro aspetti significativi, o invece ci sono degli elementi importanti che sfuggono a tale analisi per sua natura statica? In particolare questa fotografia che dà informazioni su quello che un soggetto "sa" in un certo istante, riesce a descrivere come il soggetto stesso "sa imparare"? "Saper imparare" è attualmente riconosciuto obiettivo prioritario dell'educazione scolastica in una società caratterizzata da un'enorme quantità di informazioni continuamente in evoluzione: le conoscenze necessarie per interpretare e controllare la realtà di oggi non saranno probabilmente adeguate per interpretare e controllare quella di domani. Diventa fondamentale, allora, più che avere un corpo stabile di conoscenze e informazioni, sviluppare la capacità di acquisirle in modo autonomo e continuativo. In questa ottica l'attenzione si sposta dai prodotti al processo stesso dell'apprendimento (cfr. Plessi [1996]). Se saper apprendere va considerato un obiettivo significativo dell'educazione scolastica in ogni contesto disciplinare, in matematica esso assume una rilevanza particolare dato che la conoscenza e la gestione dei risultati in tale disciplina poggia comunque sulla consapevolezza dei processi sottostanti. E allora diventa particolarmente importante poter valutare la capacità di apprendere in matematica attraverso strumenti di osservazione dinamici, in grado di cogliere i cambiamenti nel tempo: se l'attenzione si sposta dai prodotti ai processi, sarà necessario osservare i processi. Un filmato quindi, piuttosto che una fotografia. E allora immaginiamo che i nostri studenti, fissati in modo un po' innaturale in quel fotogramma iniziale, comincino a muoversi. I 150 ragazzi che hanno risposto alle nostre domande di logica, di algebra, di geometria, adesso vivono il loro primo anno di esperienza universitaria: frequentano, prendono appunti, studiano, in definitiva agiscono. Questo filmato, che è quello che ogni docente del primo anno rivede ogni volta, mette in evidenza differenze profonde di comportamento anche fra ragazzi che nella fotografia iniziale si distinguevano a malapena. Alcuni comportamenti in particolare ci sembrano fallimentari, frutto di decisioni inadeguate o addirittura automatici se non casuali: non si tratta solo di comportamenti locali, circoscritti agli esercizi di matematica (quelli che tradizionalmente chiamiamo errori) ma anche e soprattutto di modi di agire generali. Un osservatorio interessante di tali comportamenti è costituito dalle occasioni che un docente ha di vedere gli studenti mentre fanno matematica: i colloqui di ricevimento, i compiti scritti, gli esami orali, le stesse lezioni. Certo è un osservatorio parziale per tanti motivi: il tempo a disposizione è comunque piuttosto breve, molti studenti poi si perdono ben prima degli esami, e gli esami stessi sono condizionati dalle finalità di valutazione che li caratterizzano. Ciò nonostante possiamo trarre da queste occasioni delle informazioni importanti, e raccogliere in particolare un repertorio di comportamenti significativi piuttosto tipici e frequenti che sfuggono ad un'analisi quale quella delle prove oggettive d'ingresso. Riporto una selezione di questi comportamenti, iniziando da quelli più locali, consistenti in risposte a singole domande di matematica, continuando e concludendo con comportamenti globali, che riguardano la gestione degli esami o addirittura la preparazione agli esami: | |||
![]() Esempio 1. [alla prova orale] F. deve moltiplicare il numero n+1 per la quantità n+k . Scrive: n + 1 × (n + k) Dovendo poi moltiplicare n+1 per il numero n+1+k scrive così: n+1 × [(n+1) + k] Esempio 2. [alla prova orale] Dovendo dimostrare che "esiste almeno un punto x0, a<x0<b tale che: f(x0)=0". R. dice: "Dimostro per assurdo. Suppongo che f(x0) sia diverso da 0." Esempio 3. [colloquio di ricevimento] G.: "Mi può controllare se questi esercizi sui numeri complessi vanno bene?" Dopo aver guardato i primi tre o quattro il docente viene preso da un dubbio: "Ma tu sai che cosa sono i numeri complessi?" G.: "No. Lo studio dopo. Intanto voglio imparare a fare gli esercizi." Esempio 4. [a ricevimento] "Questo esercizio non mi torna." "Cos'è che non ti torna?" "Non lo so. Non mi torna come mi dovrebbe tornare." Esempio 5. [al compito scritto] S. sa di avere a disposizione tre ore per un compito di 5 esercizi, e sa che gli esercizi vengono valutati nello stesso modo. Comincia a lavorare sullo studio di funzione, ma incontra difficoltà e dopo due ore non ha ancora concluso l'esercizio. Esempio 6. [alla prova orale] Prima domanda: sugli integrali. Scena muta. Seconda domanda: sugli integrali. Scena muta. Terza domanda: sugli integrali. Scena muta. M. viene bocciato. Si giustifica: "Sa, gli integrali non li ho fatti. Non ho fatto in tempo a finire il programma." Esempio 7. [alla prova orale] T. viene bocciato, in particolare dopo aver scritto una serie di definizioni di limite prive di significato. Si sfoga: "Ci vuole troppa memoria per ricordare tutte queste cose! Io ho dato tanti altri esami, ma in matematica ci sono troppe cose da ricordare!" Ogni insegnante di matematica potrebbe arricchire questa galleria di ulteriori "quadri", ma quelli presentati hanno solo la funzione di stimolare qualche riflessione. | |||
![]() Linguaggio e logica I primi due esempi mettono in evidenza carenze a livello linguistico e logico molto diffuse. Il linguaggio usato dagli studenti in matematica è spesso personale: molti soggetti usano i simboli matematici come segni di una stenografia a proprio uso e consumo, cioè come abbreviazioni (gradite perchè fanno risparmiare fatica) che loro stessi dovranno decifrare. Significativo come esempio l'uso che molti studenti fanno delle parentesi. Lo studente spesso omette la parentesi se dentro di sé ha ben chiaro l'ordine delle operazioni da eseguire, o viceversa la mette se vuole rimarcare a se stesso un ordine che non gli è immediatamente evidente. Analizziamo da vicino il comportamento descritto nell'esempio 1. F. deve moltiplicare il numero intero n+1 per la quantità n+k . Lo studente scrive: n + 1 × (n + k) Non sente il bisogno della prima parentesi perchè vede il numero n+1 come numero "unico" (ci sta lavorando da un po', è ormai un numero familiare...). Se i passaggi non sono molti, e più che altro se le difficoltà di calcolo non sono tali da offuscare il significato della scrittura iniziale, tale scrittura viene risolta come se la parentesi ci fosse: n + 1 × (n + k) = n2 + nk + n + k Non ci sono, alla fine, errori: è difficile convincere F. che ha fatto/scritto qualcosa di sbagliato. La (naturale) correzione assumerà solo il sapore di un'inutile pignoleria! Queste regole personali di scrittura e di lettura delle parentesi portano anche a mettere parentesi là dove non servirebbero. Nello stesso esempio di prima, F., dovendo moltiplicare il suo n+1 con il numero n+1+k (cioè il suo n+1 sommato a k) scrive così: n+1 × [(n+1) + k] stando molto attento a utilizzare parentesi quadre fuori dalle tonde. F. sta evidentemente usando i simboli come una stenografia personale da utilizzare in passaggi provvisori (sono ragionamenti scritti, o meglio appuntati, per non perdere il filo del discorso...) che verranno cancellati o comunque perderanno di senso quando avrà raggiunto il risultato. Non vede nell'uso dei segni alcuna funzione di comunicazione: l'unica cosa che vuole comunicare è il risultato, e quello è giusto. Il secondo esempio mette invece in evidenza problemi di tipo logico. Ogni docente di matematica sa bene che questo tipo di difficoltà è molto frequente e pone problemi didattici notevoli. Ma la capacità di utilizzare il pensiero formale, in particolare di gestire in modo corretto connettivi e quantificatori, non può essere considerata una conquista naturale del pensiero adulto, che in generale riesce a dominare certe forme di ragionamento soltanto in contesti di esperienza conosciuti e padroneggiati (cfr. Legrenzi [1975] citato in Pontecorvo C.e Pontecorvo M. [1986]). Tale capacità va quindi costruita, in particolare "Se la nozione di conseguenza logica è esclusiva della matematica, sarebbe bene trovare uno spazio, al momento opportuno, per parlarne un po' nella classe di matematica, invece di continuare a celebrare il ragionamento senza capire di cosa si tratta. In generale il ragionamento è celebrato in matematica come se si trattasse della manifestazione di una delle (più alte) facoltà umane naturali, proprio caratterizzante (l'uomo è un animale raziocinante), e quindi si dà per scontato che ne abbiamo in abbondanza, e basta tirarlo fuori. Invece se è naturale lo è solo nel senso di una natura costruita, modellata con fatica. Non si nasce ragionatori allo stesso modo di come si nasce parlanti." (Lolli, [1996], pag.78-79). | |||
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La grande lacuna di base: il problem solving Le carenze evidenziate negli altri esempi non sono specifiche della matematica. Se accettiamo la definizione classica di problema che lo caratterizza come situazione in cui un soggetto ha un obiettivo da raggiungere ma non sa come raggiungerlo, possiamo riconoscere nella maggior parte dei comportamenti descritti: difficoltà a risolvere situazioni di problema; ma ancora prima: a riconoscere una situazione di problema; ed anche: ad affrontarla in modo strategico. Voglio sottolineare esplicitamente che i problemi cui faccio riferimento in questo contesto possono essere più o meno "locali": si può trattare quindi del singolo problema di matematica, ma anche del problema di superare l'esame di Matematica, o addirittura del problema di rimanere in regola con gli esami. A monte delle difficoltà generali descritte ci sono carenze di vario tipo. Ad esempio: . nella individuazione e nell'analisi degli obiettivi che il soggetto vuole raggiungere; . a livello di consapevolezza delle risorse disponibili (perché è da un bilancio fra le risorse disponibili e l'obiettivo da raggiungere che una situazione viene riconosciuta come problema); . nella pianificazione dei comportamenti da seguire per raggiungere gli obiettivi, e quindi nella messa in atto di processi decisionali. Queste carenze sono di natura generale e possono quindi provocare grosse difficoltà in attività di risoluzione di problemi di qualsiasi tipo. E proprio come problema si presenta per uno studente l'esperienza del 1° anno di Università. Tale esperienza non consente infatti comportamenti automatici: non ci sono obiettivi validi per tutti, né tantomeno regole generali da seguire per raggiungere obiettivi "ufficiali". Lo studente si trova a dover prendere continuamente decisioni complesse. Improvvisamente. Non si tratta solo di scegliere se frequentare, se prendere appunti, se preparare un esame, se studiare, ma piuttosto di decidere come frequentare, come prendere appunti, come preparare un esame, come studiare: in altre parole si tratta di costruire delle strategie, di assumersi completamente la responsabilità dell'apprendimento. Per molti studenti è la prima volta che questo accade. Alle scuole superiori in genere altri valutavano continuamente la sua preparazione, e decidevano se e quando farlo, segnalando poi errori e risposte corrette. Anche per la frequenza alle lezioni c'era un controllo esterno deciso e attivato da altri. Ma soprattutto altri dicevano allo studente cosa studiare, dove studiare, e addirittura quando studiare. L'unica cosa che veniva taciuta era proprio la più importante: come studiare. In definitiva lo studente non doveva assumersi la responsabilità dell'apprendimento, prendere decisioni, risolvere problemi: ed ora improvvisamente, senza che nemmeno sia stato in qualche modo esplicitato, gli viene richiesto tutto questo e lui si ritrova solo e, spesso senza accorgersene, in difficoltà. La frattura è enorme, e viene esasperata dal fatto che, a prescindere dalle scelte didattiche operate, l'autonomia del soggetto che apprende non è mai considerata oggetto di intervento. Le carenze sottolineate a livello di riconoscimento, approccio e risoluzione di problemi, e quindi di processi decisionali, seppure di carattere generale, diventano particolarmente evidenti nel contesto delle decisioni connesse in qualche modo con la matematica: dal frequentare il corso di matematica, a prendere appunti di matematica, a preparare l'esame di matematica, ad affrontare il compito scritto di matematica, a studiare matematica. L'analisi degli obiettivi, la pianificazione delle strategie da attivare, la individuazione di sotto-obiettivi sono infatti molto influenzate dalle conoscenze e dalle convinzioni che un soggetto ha a riguardo. Le conoscenze limitate o addirittura scorrette acquistano allora una duplice importanza: non solo producono errori e impediscono l'acquisizione di altre conoscenze, ma incoraggiano una visione globale distorta della matematica e dei suoi metodi. Alla elaborazione di questa visione epistemologicamente scorretta della matematica contribuiscono le conoscenze soggettive (convinzioni) che il soggetto costruisce nel tentativo di dare un senso alla propria esperienza scolastica. In particolare gli studenti interpretano il successo e il fallimento in matematica, e costruiscono a riguardo teorie caratterizzate spesso da convinzioni ingombranti quali: -in matematica basta capire, non occorre studiare (tipica degli studenti "bravi"); ma più spesso: -in matematica le regole vanno memorizzate: fatica inutile tentare di ricostruirle; -lo studio della matematica consiste nel fare tanti esercizi; -più in generale: in matematica i prodotti sono più importanti dei processi. A tali convinzioni di carattere generale si aggiungono le convinzioni su di sé elaborate nel tentativo di interpretare la propria esperienza, in particolare i propri fallimenti. Molto spesso gli studenti non sono in grado di ricavare da un insuccesso le informazioni utili per ri-orientare l'impegno (ed una enorme responsabilità in questo va riconosciuta all'approccio tradizionale all'errore) e percepiscono il fallimento in una prestazione come fallimento globale e personale, come dimostrazione della propria incapacità. Nascono così convinzioni quali: -io ho troppe lacune di base; -io non posso riuscire; -io non sono portato per la matematica. Le convinzioni che gli studenti hanno costruito in un feedback continuo con la realtà nel tentativo di interpretare la propria esperienza matematica, costituiscono una sorta di cornice all'interno della quale essi agiscono e prendono decisioni (cfr. Cobb [1985]). Se tale cornice è ben strutturata, lo studente avrà una guida verso decisioni adeguate: in questo caso (ed è quello che accade per molti studenti) la consapevolezza delle proprie conoscenze unitamente ad un impegno mirato potrà permettergli di colmare eventuali lacune. Ma se viceversa le convinzioni sono frutto di un'interpretazione distorta dell'esperienza matematica, la cornice diventa una gabbia che impedisce l'attivazione di strategie adeguate, e dirige invece verso comportamenti inefficaci. In particolare la convinzione che la matematica è una disciplina incontrollabile (o per sua natura, o perché è il soggetto a sentirsi inadeguato) impedisce l'investimento delle risorse disponibili e attraverso la rinuncia al controllo sui processi di pensiero incoraggia risposte casuali, cui il soggetto è il primo a non credere. Lo stesso accade se il soggetto attribuisce sistematicamente le cause del proprio insuccesso a fattori esterni (la severità del professore, la difficoltà della materia, la sfortuna...). Questa percezione di non poter controllare la realtà oltre ad impedire l'assunzione della responsabilità dell'apprendimento genera anche emozioni vissute come negative, quali ansia, frustrazione, ma anche rabbia. Alcune di queste convinzioni, che tutto sommato "funzionavano" nella scuola superiore, vengono messe in discussione dall'impatto con una realtà completamente diversa come quella universitaria. L'esperienza di molti studenti (per lo più bravi) che "in matematica basta capire, non occorre studiare" si confronterà con un'altra esperienza, quella delle lezioni universitarie in cui la comprensione di un certo argomento presuppone l'apprendimento, e non solo la comprensione, di argomenti precedenti. Altre convinzioni invece, soprattutto quelle provenienti da fallimenti precedenti, rischiano di non entrare mai in crisi, anzi, di consolidarsi in fallimenti successivi, dando luogo ad un circolo vizioso in cui la consapevolezza di non poter controllare i propri risultati genera fallimento, e tale fallimento rinforza la percezione di incontrollabilità. Nell'approccio con le nuove esperienze infine alcune convinzioni si adatteranno semplicemente alla realtà universitaria, come questa viene interpretata dal soggetto. Ad esempio la divisione tradizionale dell'esame in prova scritta e prova orale può modificare la convinzione che "studiare matematica consiste nel fare esercizi" in un'altra, più adatta alla nuova realtà: "per l'esame scritto occorre fare tanti esercizi e non serve la teoria, che andrà eventualmente studiata per l'esame orale". In definitiva molti studenti riusciranno ad utilizzare le nuove esperienze per sviluppare un atteggiamento più costruttivo nei confronti della matematica: per alcuni di essi questo processo di re-interpretazione richiederà del tempo, e potranno essere anche necessari dei fallimenti. Altri studenti però non percepiranno la diversità della nuova realtà, o la percepiranno in modo inadeguato, e non modificheranno quindi i propri schemi interpretativi, se non adattandoli ad una percezione ancora distorta dell'esperienza . | |||
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Conclusioni Alla luce di queste considerazioni si può ipotizzare che i fallimenti di molti studenti del primo anno, in particolare quelli legati in qualche modo alla matematica, siano dovuti non solo a quello che il soggetto "non sa", ma anche al fatto che non possiede gli strumenti per apprendere. Questi strumenti sono innanzitutto di natura linguistica e logica, e, come ho già sottolineato, vanno conquistati attraverso attività che si pongono questi obiettivi specifici. Se il ragionamento formale va allenato, è importante però che questo accada in contesti significativi. Troppo spesso invece le capacità logiche degli studenti vengono verificate (e, ancora prima, esercitate) utilizzando contesti "usualmente governati da logiche diverse" [Ferrari, 1996]. I libri di testo d'altra parte non aiutano certo gli insegnanti ad individuare attività logiche sensate. Come osserva Villani [1994] "gli argomenti di logica sono particolarmente infarciti di errori, imprecisioni, affermazioni incomprensibili o astruse." (pag.13). Villani prosegue chiedendosi (e chiedendo): "Ma perché poi tanti autori si sentono in dovere di inserire uno specifico capitolo sulla logica, e- per di più- nella parte iniziale dei primi volumi dei loro testi, destinati quindi ad allievi del primo anno della scuola secondaria superiore, allievi che a quel punto non hanno ancora alcuna familiarità con ragionamenti ipotetico deduttivi in contesti significativi? Non so trovare risposte convincenti a questo interrogativo. Certo sarebbe ingiusto attribuire la colpa alle proposte dei programmi Brocca, dove si legge: «Gli elementi di logica non devono essere visti come una premessa metodologica all'attività dimostrativa, ma come una riflessione che si sviluppa man mano che matura l'esperienza matematica dello studente. [...] Solo nella fase terminale del biennio si può pervenire allo studio esplicito delle regole di deduzione.» La scelta didattica di una formalizzazione troppo spinta e prematura, a mio avviso criticabile di per se stessa, è resa ancor più criticabile dalla mancanza di applicazioni significative, di esempi ed esercizi interessanti o semplicemente curiosi, di riflessioni critiche, di collegamenti con altri settori della matematica." (pg. 13-14). Ma oltre a carenze a livello linguistico e logico, possiamo individuare a monte delle difficoltà evidenziate da molti studenti carenze a livello metacognitivo, convinzioni (alcune con una forte componente affettiva, come quelle che un soggetto ha su di sé), atteggiamenti, che interagiscono nel favorire un approccio alla matematica poco produttivo. Più in particolare: . sistemi di convinzioni (sulla matematica, su di sé, sul successo in matematica, sulle aspettative dei docenti...), che si strutturano in una sorta di epistemologia "distorta" e contribuiscono alla nascita e al consolidamento di atteggiamenti ed emozioni negativi; . una scarsa consapevolezza delle proprie risorse ( ma più in generale, una scarsa conoscenza di sé); . un atteggiamento poco strategico, dovuto in particolare a difficoltà nel regolare il proprio comportamento in base alle risorse disponibili e alle caratteristiche del problema. Queste ipotesi, frutto di riflessioni a loro volta stimolate dall'osservazione di fatti, suggeriscono l'opportunità di sperimentare nuove modalità d'intervento sulle difficoltà in matematica, a livello di recupero e di prevenzione. A questo proposito vorrei riportare due esperienze. La prima riguarda un corso di recupero di matematica da me realizzato, attraverso un intervento esplicito sulle capacità metacognitive e sulle convinzioni, con un gruppo di studenti di Scienze Biologiche che avevano alle spalle numerosi fallimenti all'esame di Istituzioni di Matematiche (cfr. Zan [1996a]). L'esito positivo dell'iniziativa dimostra che le carenze a livello metacognitivo e motivazionale possono effettivamente inibire la corretta utilizzazione delle conoscenze, tanto che la promozione di capacità legate alla gestione delle proprie risorse (e quindi ai processi decisionali) e la rimozione di certe convinzioni possono avere come effetto un cambiamento anche radicale a livello di rendimento. Questa ricerca lascia aperta un'altra questione, estremamente importante dal punto di vista operativo: se è possibile recuperare un soggetto attraverso un intervento esplicito a livello metacognitivo / affettivo, è possibile con le stesse modalità prevenire il suo fallimento? Nell'a.a. '96-'97 ho sperimentato un intervento preventivo del tipo descritto all'interno di un pre-corso destinato agli studenti di alcuni corsi della Facoltà di Scienze dell'Università di Pisa. Il programma prevedeva: a] Una parte "teorica", in cui veniva affrontata la questione di come imparare a prendere decisioni razionali nel contesto del primo anno di università. I temi trattati in classe sono stati: importanza dei processi decisionali per affrontare in modo positivo l'esperienza universitaria ; considerazioni generali sul problem solving, finalizzate ad imparare a prendere decisioni adeguate: importanza dell'analisi dell'obiettivo, dell'ambiente, e delle risorse personali; applicazione delle considerazioni generali precedenti ai problemi connessi con la matematica. Gli studenti avevano a disposizione per ulteriori riflessioni più personali un fascicolo in cui tali temi erano trattati in modo più approfondito, e in cui la partecipazione personale veniva sollecitata dalla presenza di continue domande. b] Una parte "pratica", in cui gli studenti dovevano allenarsi a prendere le decisioni coinvolte nello studio della matematica. Questa parte prevedeva lo studio degli argomenti ritenuti basilari per costruire un approccio corretto alla matematica: n insiemi e logica; n numeri; n teoremi e dimostrazioni. Ogni argomento prevedeva varie fasi: . agli studenti veniva consegnato un questionario sull'argomento per aumentare la consapevolezza delle conoscenze e delle abilità di partenza, e per dirigere quindi l'attenzione nel corso della lezione successiva; tale questionario era diviso in due colonne in ognuna della quali erano riportate le stesse domande: la colonna di sinistra andava riempita PRIMA di studiare, quella di sinistra DOPO aver studiato; . veniva tenuta una breve lezione sull'argomento; . gli studenti dovevano studiare per proprio conto e sui propri appunti l'argomento spiegato; . agli studenti veniva riconsegnato lo stesso questionario dato al punto 1, che andava compilato nella colonna DOPO: veniva richiesto quindi il confronto fra le risposte date prima e quelle date dopo; . c'era una breve discussione in classe di chiarimento su eventuali dubbi e domande puntuali poste dagli studenti. Non è stato possibile realizzare quest'esperienza con gli accorgimenti metodologici necessari per garantire una sperimentazione veramente informativa: in particolare è mancato il gruppo di controllo, gli studenti erano troppo numerosi, e non è stato possibile monitorarli tutti per osservare gli effetti dell'intervento. Una sperimentazione seria richiede del resto un investimento di risorse: se i singoli docenti possono farsi carico della "formazione" di un centinaio di soggetti, non possono certo gestire il monitoraggio nel corso dell'anno di tutti gli studenti del gruppo sperimentale e di quello di controllo! Nonostante i limiti dell'esperienza (ma qualche indicazione si potrà avere dai risultati agli esami della sessione estiva) mi sembra interessante riportare alcuni dati ricavati dalle risposte che gli studenti hanno dato ad un questionario finale anonimo in cui veniva richiesta una valutazione del pre-corso. Alla domanda: "Il pre-corso ha cambiato qualcosa nel tuo approccio allo studio della matematica? Se sì, cosa?" 35 studenti su 74 rispondono "Sì", con motivazioni pressochè omogenee, quali: "Devo ragionare di più, e usare meno la memoria." "Ci vuole più impegno e più metodo." Se dal punto di vista teorico va affrontato il problema di verificare sperimentalmente le ipotesi avanzate, dal punto di vista didattico le osservazioni fatte aprono una serie di questioni soprattutto di carattere metodologico. In particolare pongono il problema del raccordo scuola superiore / università in termini di obiettivi / pre-requisiti non solo cognitivi, ma anche metacognitivi e affettivi. In questa ottica maggiore attenzione va data nella scuola superiore (ma anche prima) ad aspetti di tipo trasversale quali: -la conoscenza di sé; -la capacità di riconoscere, affrontare, risolvere problemi; -l'assunzione della responsabilità dell'apprendimento (che ha una forte componente affettiva, in quanto presuppone che il soggetto si ponga obiettivi d'apprendimento). In particolare quest'ultimo punto richiede che l'insegnante valorizzi esplicitamente i processi rispetto ai prodotti, trasmettendo agli allievi che un processo di pensiero è di per sé significativo, al di là del prodotto ottenuto: in questo tipo di approccio l'errore assume un ruolo diverso da quello tradizionale, in quanto diventa occasione di riflessione e di ri-orientamento. Gli obiettivi evidenziati sono generali, ma non generici: all'interno dei vari contesti disciplinari essi assumono infatti forme più specifiche, perseguibili attraverso opportune scelte didattiche. Per quanto riguarda la matematica uno strumento prezioso per favorire lo sviluppo globale (cognitivo/metacognitivo/affettivo) dell'allievo è costituito dall'attività di soluzione di problemi, che rappresenta anche il contesto ideale per imparare a prendere decisioni e ad assumersi quindi la responsabilità dei propri processi di pensiero (cfr. Zan [1996b]). Pellerey e Orio [1996] suggeriscono di considerare l'attività di soluzione di problemi un'attività pratica, cioè una «forma coerente e complessa di abilità collaborativa che è stabilita su basi sociali». "In questo senso occorre dare più importanza a quello che può essere definito l'apprendistato matematico, non solo vero e proprio apprendistato cognitivo, ma anche affettivo, motivazionale e volitivo. Ciò implica dal punto di vista dell'allievo: osservazione, pratica guidata, pratica autonoma. Dal punto di vista dell'insegnante: fornire un modello, guidare l'esercizio progressivo, lasciare lo studente autonomo." (pag.69) In definitiva l'insegnante deve passare allo studente non solo conoscenze e abilità, ma una visione della matematica epistemologicamente corretta, e che permetta agli studenti di sviluppare emozioni, atteggiamenti e convinzioni produttivi (cfr.Silver [1987]). Il lavoro di formazione che la scuola di ogni livello dovrebbe portare avanti sulle capacità cognitive, metacognitive e affettive dello studente non esime però l'università dal programmare a sua volta percorsi di accoglienza e riorientamento. Un primo intervento in questa direzione può essere realizzato con un minimo sforzo, semplicemente esplicitando agli studenti, con un certo anticipo rispetto all'inizio delle lezioni, i pre-requisiti necessari per i corsi di matematica che seguiranno e possibilmente dando loro indicazioni di testi su cui studiare, e suggerimenti su come studiare. Un maggiore impegno richiederebbe la preparazione di dispense con questa destinazione, che avrebbero anche la funzione importante di avvicinare i soggetti allo studio di un testo di matematica. A supporto di questo studio si potrebbero prevedere alcune lezioni, o, ancora meglio, esercitazioni o, dove necessario, colloqui personali o a gruppi per eventuali chiarimenti. Un intervento di questo genere potrebbe risolvere almeno in parte il problema delle lacune a livello di conoscenze, e quindi anche modificare l'atteggiamento di insicurezza, presente soprattutto negli studenti provenienti da scuole a matematica debole, prodotto dalla convinzione di non avere le conoscenze necessarie (convinzione che diventa spesso un alibi per rinunciare a capire). Rimane per molti comunque la necessità di sviluppare un atteggiamento strategico nei confronti dei problemi che si incontrano il primo anno di università, e più in particolare di costruire un approccio produttivo allo studio della matematica. Come ho già detto, questo cambiamento richiede tempo, e forse per alcuni soggetti saranno comunque inevitabili delle esperienze di fallimento. Diventa importante allora poter trarre da queste esperienze fallimentari delle informazioni utili per ri-orientare l'impegno, ad esempio per individuare lacune da colmare o per modificare il proprio metodo di studio. Il tutorato da attivare nel corso del primo anno di università (ma, in base alle stesse argomentazioni esposte, anche alla scuola superiore) deve avere a mio parere soprattutto queste funzioni di orientamento e di ri-orientamento, che si possono realizzare attraverso varie modalità di intervento: -pre-corsi su vari aspetti (di contenuti, di metodologia di studio, ...); -incontri periodici con gli studenti su temi trasversali; -colloqui; -attività di riorientamento quali corsi di recupero; -elaborazione di materiali; -supporto ad attività di studio autogestite. Va tenuto presente che l'obiettivo del tutore è comunque quello di accompagnare gli studenti nella costruzione della loro autonomia, e non di affrontare e risolvere i problemi al loro posto. In questo senso le competenze del tutore non possono esaurirsi in conoscenze di matematica, ed un progetto serio ed a lungo termine di orientamento e ri-orientamento pone quindi a mio parere anche il problema della formazione di nuove professionalità. Una figura docente che alle competenze disciplinari unisse anche competenze specifiche nel campo dell'orientamento in modo da poter guidare gli studenti a diventare protagonisti del processo formativo, avrebbe del resto un ruolo fondamentale da svolgere anche nelle scuole secondarie (cfr. Scandella [1995] per una riflessione su questo tema e per una panoramica su diverse esperienze di tutorship, e il progetto START [Cisem, 1994] per una proposta operativa contro la dispersione nel passaggio fra scuola media inferiore e biennio). Qualsiasi sia l'interpretazione che si propone per il fenomeno della mortalità universitaria (e matematica) e la direzione in cui si ritiene di dover intervenire, è necessario adesso passare alla fase operativa, investendo risorse per programmare e realizzare un repertorio di esperienze da analizzare e confrontare. Uno sforzo in questa direzione avrebbe un'importante ricaduta sulla qualità della didattica universitaria in generale, perché, come le esperienze di altri livelli di scuola hanno dimostrato, la riflessione sulle difficoltà sempre genera idee e suggerisce strategie per la normalità. | |||
![]() RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Accascina G., Berneschi P., Bornoroni S., Della Rocca G., De Vita M., Olivieri G., Parodi G. P., Rohr F., 1995. 'Problemi di raccordo in Matematica tra Scuola Secondaria Superiore e Università', relazione presentata al Seminario Nazionale di ricerca in Didattica della Matematica, Pisa, ottobre 1995. CISEM, 1994. START. Progetto di sperimentazione contro la dispersione nel passaggio fra scuola media inferiore e biennio. Mursia, Torino. Cobb P., 1985 . 'Two Children's Anticipations, Beliefs, and Motivations.' Educational Studies in Mathematics, n.16. Ferrari P.L., 1996. 'La formazione in matematica degli studenti all'inizio dell'università.' Associazione Subalpina Mathesis, Conferenze e Seminari 1995-'96. Legrenzi P., 1975. Forma e contenuto dei processi cognitivi. Il Mulino, Bologna. Lolli G., 1996. Capire la matematica. Il Mulino, Bologna. Pellerey M., Orio F., 1996. ' La dimensione affettiva e motivazionale nei processi di apprendimento della matematica.' ISRE, n.2. Plessi P., 1996 . Insegnare a studiare. De Agostini, Novara. Pontecorvo C., Pontecorvo M., 1986. Psicologia dell'educazione. Conoscere a scuola. Il Mulino, Bologna. Rosenthal R., Jacobson L., 1991. Pigmalione in classe. Franco Angeli, Milano. Scandella O., 1995. Tutorship e apprendimento. La Nuova Italia, Firenze. Silver E., 1987. 'Foundations of Cognitive Theory and Research for Mathematics Problem-Solving Instruction.' In Schoenfeld A. (Ed.), Cognitive Science and Mathematics Education. Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale. Villani V., 1994. 'Errori nei testi scolastici: calcolo numerico, logica, informatica.' Archimede, n.1. Zan R., 1996a. 'Un intervento metacognitivo di "recupero" a livello universitario.', La Matematica e la sua didattica, n.1. Zan R., 1996b. 'Difficoltà d'apprendimento e problem solving: proposte per un'attività
di recupero.', L'insegnamento della matematica e delle scienze integrate,
vol.19B, n.4. |