Sviluppo industriale, lavoro e scuola

di Sergio Marchetti

In Italia, come in tutto l'occidente industrializzato, se si osserva la struttura del PIL nel periodo che va dal 1975 al 1995, si vede una progressiva riduzione dell'importanza dei settori industriale e agricolo mentre, con altrettanta progressività, cresce il peso dei servizi.

composizione % del PIL nei tre settori

settori produttivi

1975

1985

1995

agricoltura

7,2

4,5

2,9

industria

41,4

35,2

31,6

servizi

51,3

60,3

65,5



fonte: "Stato del Mondo 1997 " il Saggiatore

Una tendenza analoga è mostrata dalla distribuzione della forza lavoro. Il settore industriale ha assorbito in questi ultimi quindici anni risorse ingentissime che in parte sono servite alla ristrutturazione e all'ammodernamento degli stabilimenti, nella parte restante o sono migrate verso quei Paesi che offrono un costo della manodopera incomparabilmente più basso del nostro, oppure si sono trasformate in capitale finanziario che si sposta da un capo all'altro del mondo alla ricerca di facili guadagni o, infine, sono servite agli industriali per acquistare le ex industrie o banche di pubblica proprietà. Ciò ha comportato un continuo processo di espulsione dall'industria dei lavoratori che sono stati prepensionati o assorbiti dal settore dei servizi. . Tanto per non dimenticare: la FIAT offriva ai propri dipendenti, purché se ne andassero, delle laute buonuscite che finanziava con gli aiuti che riceveva dallo Stato. Contestualmente, i teorici, alla Cipolletta (che vorrebbe oggi smantellare l'intero Stato Sociale), assicuravano che una volta svecchiato l'apparato produttivo quelle maestranze sarebbero state assorbite dai settori che producevano robot, informatica e così via; purtroppo la previsione non si è avverata e l'industria tradizionale ha proseguito nel suo lento, ma inesorabile declino. Singolarmente, mentre il peso dell'industria andava diminuendo sul piano economico, la Confindustria andava crescendo in visibilità, nel suo impegno politico esplicito, nei ricatti che poneva a questo o a quel Governo, nella voracità di denaro pubblico che pareva non saziarla mai, nell'appropriarsi di tutti i grandi giornali e mezzi d'informazione. Allo stesso tempo, quel fenomeno che venne detto "Mani Pulite", metteva in luce la corruzione che imperversava in questo settore, nonché la pochezza professionale dei vari industriali e manager i quali, quando tentavano qualche impresa fuori dei patri confini, subivano delle feroci batoste (Gardini, De Benedetti e lo stesso Berlusconi) abituati com'erano alle infinite protezioni di cui godevano in Patria. L'ultimo esempio di tale genia di capi d'industria è rappresentato da quei Capitani Coraggiosi che sono corsi ad investire in Albania ove, a dir loro, erano rinati, essendo liberi di contrattare direttamente con il lavoratore (massima espressione di modernità) un salario di fame per dodici ore di lavoro al giorno. Due mesi dopo, iniziando a sperimentare sulla propria pelle il valore della pace sociale, li vedemmo pietire: " lo Stato Italiano ci deve aiutare". Questa analisi non vuole mettere in ombra le enormi disfunzioni e sprechi presenti nella macchina della Pubblica Amministrazione, spesso giustamente lamentate dagli Industriali, ma ricordare che gran parte delle difficoltà che oggi ci troviamo a dover affrontare provengono proprio dal settore industriale, sia per ragioni connesse con lo sviluppo tecnologico e la trasformazione dei mercati, sia per un'intrinseca debolezza del settore stesso determinata da assenza di ricerca, da una formazione dei quadri dirigenti decisamente mediocre e da un contenuto tecnologico piuttosto povero, caratteristico della maggior parte delle nostre Imprese. A questo punto una domanda s'impone: ha ancora senso (come si è fatto anche ultimamente con l'incentivo statale per il rinnovo del parco automobilistico) seguitare a trasferire risorse dalla collettività verso l'industria quando questa, essendo in gran parte di basso contenuto tecnologico, è destinata (e lo sta già facendo) a trasferirsi nei paesi emergenti (Brasile, Argentina, Polonia, India e così via)? Non sarebbe forse più saggio cessare ogni trasferimento di risorse e destinare queste ultime per esempio allo sviluppo di nuove imprese quali quelle che si occupano del riciclaggio totale, cioè delle cosiddette materie seconde, e contestualmente sviluppare quelle tecnologie che lo rendono possibile ed economico; oppure puntare allo sviluppo delle tecnologie solari? Ovviamente non dobbiamo pensare al pannello solare che alimenta il semaforo ad un incrocio di campagna, ma ad un progetto che preveda, ad esempio, un progressivo ricoprimento di una parte del deserto di pietra del nord Africa con celle fotovoltaiche, lo sviluppo delle tecnologie necessarie alla trasformazione dell'energia elettrica fornita dai pannelli in idrogeno e la conduzione di quest'ultimo verso l'Europa attraverso l'attuale rete di metanodotti. Per continuare con gli esempi, un altro settore verso cui far convergere le nostre scarse risorse è quello del turismo e dei beni culturali che costituiscono una fonte inesauribile di ricchezza e di occupazione, purché si cominci seriamente a lavorare in questa direzione abbandonando il vezzo levantino di depredare il turista allontanandolo per sempre dal nostro Paese, ma sviluppando la vera cultura del servizio e abbandonando quella del servo. Se venisse operata, con la dovuta progressività, una scelta nel senso indicato, probabilmente molte industrie chiuderebbero, e resterebbero sul mercato soltanto quelle compatibili con le esigenze della cosiddetta mondializzazione dell'economia. Drogare un'impresa per farla sopravvivere e mantenere i posti di lavoro in essa presenti non ha forse più alcun senso, i posti di lavoro debbono essere creati, per gli italiani e per gli stranieri che si trasferiranno sicuramente nel nostro Paese nei prossimi anni, in altri settori. Ciò che ci viene proposto dalla Confindustria ogni giorno è un ridimensionamento spaventoso dello Stato Sociale (sul Sole24Ore di febbraio si ipotizzava l'eliminazione delle pensioni di anzianità e la riduzione o l'annullamento dell'adeguamento delle pensioni al costo della vita) per utilizzare le risorse risparmiate quali aiuti diretti e indiretti a questa industria. La proposta è sicuramente fatta in malafede: per quanto si possa ridurre il costo del lavoro non riusciremo, pur spogliandoci del superfluo, a concorrere con chi guadagna duecentomila lire al mese o anche meno. Dobbiamo, invece, sviluppare delle attività che consentano di non porci in concorrenza diretta con i paesi emergenti del terzo mondo. L'assenza di una chiara politica dello sviluppo da parte del Governo e l'atteggiamento di molti dirigenti industriali, i quali pensano all'Italia come ad un Paese in caduta verso il disastro totale, costituiscono l'ostacolo maggiore per avviare tali trasformazioni. Un malessere sociale diffuso, anche alimentato ad arte dai media, è il brodo di coltura per lo sviluppo di irresponsabili spinte secessioniste caratterizzate da un egoismo privo di ritegno e supportato dal più rozzo dei pensieri. Negli ultimi dieci- quindici anni, infine, vi è stato un fenomeno di concentrazione della ricchezza nelle mani di circa un sesto della popolazione e di conseguenza l'acuirsi di una situazione di povertà per alcuni, di esclusione per altri e una crescita progressiva delle microcriminalità. Le due grandi ideologie solidaristiche, il cristianesimo e il comunismo, che nel bene e nel male hanno reso comprensibile la condotta degli uomini nei tempi passati, paiono essere tramontate lasciando spazio ad una visione del mondo miope, che miete milioni di morti nell'indifferenza collettiva (si pensi allo Zaire) e sparge a larghe mani l'infelicità. Il momento che attraversiamo è particolarmente pericoloso e se in molti si faranno adescare dalle sirene delle scorciatoie, dalle parole d'ordine del si salvi chi può e seguiteranno a chiudere gli occhi di fronte alle tragedie del mondo, per i giovani non ci sarà alcun futuro e della scuola non varrà neppure la pena parlarne. Per la scuola vi sarà un futuro se la ragione riuscirà a prevalere sui borborigmi dei nostri grandi e piccoli industriali, sull'ignavia secolare della nostra burocrazia e sul generale assopimento delle coscienze. Queste considerazioni di carattere generale debbono rimanere come sottofondo al nostro operare quotidiano e servirci per misurare le mille iniziative inquadrandole nel contesto che può o rafforzarle, fungendo da moltiplicatore, o annullarle. Circa la riforma Berlinguer, sia nel metodo sia nel merito, vi sono parecchie cose da osservare. Intanto la nuova scansione della scuola dell'obbligo è tutt'altro che chiara, specie dopo i quindici anni e comunque non individua con la necessaria articolazione gli obiettivi di massima che ogni ciclo deve raggiungere. La figura del preside, che diventa un dirigente, insieme alle circolari assurde, che seguitano a piovere dai Provveditorati e dagli oscuri meandri del Ministero, e agli interventi degli Ispettori, sui quali è meglio far scendere uno spesso velo di pietoso silenzio, non lasciano presagire nulla di buono. Ultimamente, infine, si nota l'agitazione di quei molti pigmei della cultura che vorrebbero trasformarsi in "figure di sistema" (cioè capetti) assicurandosi non solo uno stipendio migliore, ma la possibilità di imporre i propri limiti e ristrettezze culturali all'universo mondo. Circa la commissione dei saggi, convocata dal Ministro, scorrendo la lista dei partecipanti, scorgiamo molti dei soliti noti, cioè di quei signori che passano da un convegno ad un corso di aggiornamento, ad una tribuna televisiva con l'unico risultato di friggere e rifriggere le solite ovvietà. Qualcuno, come quel professore di non ricordo quale Università dell'Italia centrale, scopre l'acqua calda quando afferma che gli studenti non possiedono più la capacità di decifrare un messaggio scritto e, a riprova di ciò, riporta un proprio comunicato scritto in quell'italiano molto caro alla burocrazia nostrana. Poi non si capisce la mania di andare ad intervistare su qualunque cosa, in questo caso sulle finalità generali della scuola, quei signori ai quali è stato conferito il premio Nobel. Possibile che non si comprenda l'elementare verità che chi è esperto in un ramo può dire anche delle emerite sciocchezze in altri settori nei quali non ha una precisa esperienza? Vi è, infine, il gruppetto di quei professori universitari, i quali, dimenticando la pietosa didattica che si svolge all'interno delle nostre università, gli indecifrabili testi, opere spesso di grande raffazzonatura, da essi stessi prodotti, dimentichi, infine, della mediocrità del loro lavoro scientifico, vorrebbero legare la carriera degli insegnanti a continui corsi di aggiornamento seguiti da esami e tenuti ancora una volta da loro stessi. Fra i convocati dal Ministro sono quasi completamente assenti i professori e i maestri, cioè quelli che faticano tutti i giorni, quelli che hanno inventato mille esperienze, pagandole anche di tasca propria, e quei pochi che ci è parso scorgere sono i soliti "distaccati", i grandi fruitori di turismo scolastico che sicuramente sono i meno qualificati per dire qualcosa. La riforma Berlinguer è una cornice molto confusa e assai poco coraggiosa, per ora, con il rischio, temo, che gli oscuri demiurghi ministeriali possano tessere la loro trama che renderà, alla fine, la scuola riformata se non peggio pressoché uguale all'attuale.