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A volte ritornano (spesso) | |||
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Le lezioni sono terminate, la scuola no. È il periodo in cui bisogna espletare formalità cartacee e celebrare riti sedimentati nel tempo: scrutini, ammissioni, esami. È anche il periodo in cui molti nodi vengono al pettine e verità a galla. Verità sovente scomode, che la consuetudine aveva tenute finora sepolte in qualche angolo polveroso della nostra coscienza e la volontà deliberatamente alla larga dalla nostra attenzione. Eccole allora, prender lentamente forma e assumere i foschi connotati dei fantasmi; i fantasmi delle contraddizioni del "piccolo mondo" della nostra scuola che - una breve riflessione è sufficiente - sono emanazioni del "gran mondo" che detta e orienta la politica scolastica. Quell'allievo che mai si è interessato ad alcuna delle mie proposte di attività didattica e che, anzi, le ha ostentatamente rifiutate se non talvolta apertamente snobbate e/o derise ben conscio che, raramente, nella scuola dell'obbligo si respinge uno scolaro o uno studente, quell'allievo dovrò respingerlo o ammetterlo alla classe successiva? Sarò saldo o arrendevole nell'affrontare le più che prevedibili critiche che per primi mi muoveranno stranamente i miei stessi colleghi? E non tanto perché non si rendono conto della situazione del mio allievo: con la loro esperienza e con la loro maturata professionalità, la capiscono benissimo: casi analoghi e/o simili li hanno avuti anche nelle loro classi - quanto piuttosto perché - specialmente alle Elementari - si preoccupano di chi avrebbe quello scolaro nel caso non passasse alla classe successiva, scolaro che, oltre ad ostentare la certezza di essere promosso e il menefreghismo nel caso non lo fosse, ha un comportamento che anni or sono si sarebbe definito "indisciplinato" e che, in anni più recenti invece, si tenta di spiegare, minimizzare, giustificare con la sua spesso sfortunata situazione affettivo-familiare (orfano, recente lutto in famiglia, genitori separati o divorziati) o patologica (ha questo o quest'altro difetto o turba o debolezza psichica anche se i genitori, malgrado ciò, non vogliono chiedere per il proprio figlio il riconoscimento di portatore di handicap); ecco, in classe di quale collega (a meno di un modulo con due classi successive: prima/seconda, seconda/terza ecc.) andrebbe quest'alunno nel caso non venisse promosso? Non promuoverlo significherebbe fare un torto al collega o ai colleghi: passar loro la patata bollente. D'altra parte, promuoverlo significherebbe fare il suo gioco, soffocare gli scrupoli della nostra coscienza professionale e metterla alla berlina della fin troppo facile retorica scolastica. E perpetuare l'altamente educativo esempio della dissimulazione e dell'ipocrisia. Altri fantasmi compaiono nell'incubo: il possibile quanto famigerato ricorso da parte dei genitori dell'allievo al Tribunale Amministrativo Regionale (non si pensa però, al contempo, che una letterina dell'avvocato, da cui dovranno necessariamente esser rappresentati, potrebbe costar loro da mezzo a un milione di lire, tanto per dare avvio alla causa). Ecco altre paure agitate: sequestreranno tutte le carte: i registri, le schede di valutazione, l'agenda del Modulo, faranno interrogatori per arrivare come spesso accade alla conclusione che la Scuola non ha posto in atto tutte le strategie necessarie per stimolare, motivare, valorizzare (e chi più ne ha più ne metta) le intrinseche potenzialità di apprendimento dell'alunno e il suo spontaneo desiderio di imparare. Pertanto l'alunno non va affatto respinto ma, al contrario, ammesso alla classe successiva. Se si è giunti a questa situazione senz'altro spiacevole, lo si deve imputare all'Istituzione Scolastica rappresentata dagli insegnanti dell'allievo, i quali non han saputo dimostrare un adeguato grado di professionalità: che meditino su questo (e, magari, perché no, se ne vergognino, recitando un pubblico mea culpa). Non ci si sembra accorgere della contraddizione insita in simili giudizi. Una volta, forse, quando non c'erano e ci si affidava alla cultura personale dei docenti, si poteva accusare questi ultimi di scarsa professionalità e consigliar loro di frequentare corsi di aggiornamento e/o formazione, ma adesso, in un tempo in cui 1) si erogano più fondi per la loro realizzazione che per pagare supplenti; 2) per contratto nazionale, li si deve frequentare, suona piuttosto contraddittorio, più come una sorta di "autogol" dello Stato che, pur mettendo in moto a spese del contribuente un meccanismo che rende praticamente obbligatori la formazione e l'aggiornamento dei propri dipendenti, ne ricava simili, deludenti e discutib ili risultati; è più un autogol dell'Amministrazione, dicevamo, che colpa o mancanza del singolo o del team di docenti al quale non togliamo alcun demerito nel caso se ne riscontrassero di oggettivi. E, inoltre, di un'altra probabilmente ben più grave contraddizione non sembra ci si renda conto: addossando tutta la colpa all'istituzione scolastica e agli insegnanti, con un sublime esercizio di ipocrisia dissimulata, si nega all'alunno una personalità, gli si limita il diritto e la libertà di essere se stesso. Nel giuoco delle parti se quella della scuola e dei suoi insegnanti è la parte di chi non è riuscito a comprendere i suoi bisogni, a stimolarlo, a valorizzare le sue potenzialità, la sua, di allievo ricorrente, non può essere che la parte della vittima: nessun'altra è ammessa. E non gli verrà certamente domandato se e quanto è vero ciò che i suoi insegnanti pensano di lui come alunno; probabilmente non sarà nemmeno necessario interpellarlo: si sa già chi è e cos'è: colui che ha subito un'ingiustizia da sprovveduti se non malevoli giustizieri. Perciò, verr&agrav e; per via amministrativa ammesso alla classe successiva: in parole povere, promosso. E sarà fatto il suo male. Perché non vi è male più vero e dannoso per uno scolaro/studente che promuoverlo ben sapendo quanto sia impreparato ad affrontare ciò che lo attende in futuro. E lui crederà anche in buona fede di aver ragione. Sono di poca consolazione gli espedienti e le raccomandazioni ministeriali sul "debito formativo" e, contraddittoriamente ancora una volta, sulla severità. Il più delle volte si è di manica larga e si chiudono gli occhi e, per quieto vivere (ma dov'è questo quieto vivere, poi, se si è sempre, sotto sotto, così scontenti e frustrati: se questo quieto vivere fosse reale, tanti colleghi non avrebbero chiesto di andare in pensione), si evita accuratamente anche la più lontana possibilità di un ricorso al T.A.R.: tanto, chi mai vorrà esser così onesto? Al T.A.R si rivolge chi crede di aver subito una bocciatura ingiusta, mai una promozione sbagliata. E tutto ciò ci porta a ricrederci (nel vero senso della parola: ri-credere: credere ancora una volta, confermare una tesi, un'opinione) che il male più raffinato e perverso è quello che si maschera delle migliori intenzioni; è quello che apporta alla personalità, al carattere, al comportamento della vittima mutamenti tali da essere tanto più negativamente profondi quanto più irreversibili, dei quali il carnefice, per averli provocati, può in tutta tranquillità, gustarsi la triplice goduria di a) aver commesso il fatto, b) non risentirne legalmente e c) passare per una persona per bene. |