La scuola secondo il cervello

di Guido Piangatello

Avvertenza

Il cervello descritto nel seguito è visto alla luce del modello proposto da me. Nell'attesa che tale modello venga esaminato dalla comunità scientifica, le conseguenze che io ne traggo in questo articolo sono presentate a titolo di opinioni personali.

L'apprendimento e la valutazione secondo il cervello.

(Rif. 1) L'apprendimento è l'acquisizione stabile di un'informazione. Apprendere un'informazione significa memorizzarla nel cervello, e la memorizzazione avviene modificando qualche cosa dentro al cervello. Le modifiche possono essere di tanti tipi e avvenire in molte zone del cervello, ma possiamo dire che ogni modifica sia (o equivalga a) una variazione dei collegamenti tra i neuroni della corteccia. Apprendere, pertanto, è modificare il collegamento tra i neuroni della corteccia (1).

(Rif. 2) La corteccia è organizzata gerarchicamente, su tre livelli principali. Ignorando il primo livello (o livello delle cortecce primarie), che comprende le regioni dove arrivano i segnali dai sensi e dove partono i segnali diretti ai muscoli, restano solo due livelli, che indicherò come livello basso (o livello delle cortecce secondarie) e livello alto (o livello delle cortecce associative). Questa informazione, unita a quella di cui al Rif. 1, ci permette di affermare che esistono solo due tipi fisicamente diversi di apprendimenti: quelli che modificano i collegamenti sulle cortecce di basso livello (apprendimenti impliciti o inconsci) e quelli che modificano i collegamenti sulle cortecce di alto livello (apprendimenti espliciti o verbali) (2) .

(Rif. 3) Non si sa cosa facciano le cortecce associative e come lo facciano. Io ho ipotizzato che i neuroni delle cortecce associative siano attivabili volontariamente con il pensiero, usando come chiavi di attivazioni le parole (3). Se questo e' vero, potremmo dire che le cortecce associative sono quelle comandabili a parole.

(Rif. 4) Si può arrivare ad attivare un neurone associativo come indicato al Rif. 2, ovvero passando dalle cortecce secondarie (in pratica facendo esperienze concrete) o come indicato al Rif. 3, ovvero attraverso il sistema verbale (in pratica ascoltando dei discorsi, fatti da altre persone o dal soggetto stesso). Ci sono pertanto due tipi diversi di scuole: quelle che danno la priorità alle esperienze concrete (scuole professionali) e quelle che danno la priorità alle spiegazioni verbali (licei).

(Rif. 5) Alla nascita le cortecce associative sono immature (questa è una notizia ufficiale, non è una mia ipotesi). I neuroni ci sono già tutti, ma essi non sono collegati tra loro e non sono utilizzati. Lo sviluppo di un individuo coincide con l'accrescimento delle cortecce associative. Tale sviluppo non è genetico, ma ha bisogno d'informazioni per avvenire. Queste informazioni possono essere scoperte dal soggetto o trasmesse dalle altre persone. La scoperta personale ha certi tempi, evidenti nel fatto che l'umanità ha impiegato molte migliaia di anni per arrivare al livello attuale, pur adoperando un sistema misto, in cui alle scoperte nuove si affiancavano le conoscenze apprese dal passato. Poiché il tempo di sviluppo individuale (25 anni) è pochissima cosa rispetto al tempo di sviluppo dell'uomo, si può affermare che le scoperte personali pure, in altre parole non indotte da conoscenze trasmesse da altre persone, sono del tutto trascurabili. Lo sviluppo delle cortecce associative è, in pratica, interamente dovuto alla trasmissione delle conoscenze in possesso dell'umanità (quelle che, in analogia col patrimonio genetico, potremmo chiamare il patrimonio culturale). La funzione della scuola comincia a delinearsi chiaramente.

(Rif. 6) Quest'enorme lavoro di riapprendimento dell'intero patrimonio culturale, a carico d'ogni nuova generazione, ha un grosso costo (dal punto di vista economico si potrebbe dire che costruire una persona costa un paio di miliardi!). Tale lavoro, però, ha anche un grosso pregio per l'adattamento: si possono scegliere le conoscenze ancora utili e si può iadattarle al presente. E' inutile litigare per stabilire se la scuola deve trasmettere le conoscenze tradizionali o se deve aggiornarle. Entrambe le cose vanno fatte, prima o poi. Si tratta solo di stabilire quando fare l'una e quando fare l'altra.

(Rif. 7) Le cortecce associative, presumibilmente, sono organizzate in regioni, ognuna delle quali gestisce un tipo di situazione. E' solo una mia ipotesi, ma ho voluto citarla perché spiega come mai l'insegnamento è organizzato in materie. Se la mia ipotesi è vera, tale organizzazione sarebbe una precisa esisgenza fisica. Visto che qualcuno pare voglia considerare superata la divisione in materie, mi è sembrato giusto mettere tutti sull'avviso (perché quando si cerca di andare contro il funzionamento del cervello si combinano molto facilmente dei disastri) (4).

Si nasce 'senza' cortecce associative, in altre parole senza la parte direttiva del cervello (Rif. 6). Il compito della prima parte della vita e quello della scuola primaria è quello di 'costruire' tali cortecce. Poiche' chi non ha sviluppato del tutto tali aree del cervello è una persona a metà, apparentemente come le altre ma in realtà incapace di comportamenti adeguati alle situazioni, allora la scuola primaria dovrebbe coincidere con quella dell'obbligo.

Il compito della scuola secondaria, invece, è preparare la persona, ora dotata di un cervello, al lavoro (prepararla alla vita privata sarebbe altrettanto importante, ma non si può fare molto a scuola in tal senso, perché le regole da seguire in privato variano da persona a persona). Una scuola secondaria a basso livello (una scuola media superiore finalizzata ad un lavoro) sviluppa soprattutto le cortecce secondarie, fornisce dei contenuti pronti all'uso ma sostanzialmente rigidi, adatti a contesti lavorativi ben definiti. Una scuola secondaria ad alto livello (un corso universitario) sviluppa una regione della corteccia associativa, fornendo la lingua usata da chi svolge quella professione più che i contenuti. La parte migliore della scuola, come si vede, ha il fine di sviluppare cortecce associative, sia nel ciclo primario sia in quello secondario. La scuola-scuola punta a fornire saperi di alto livello (Rif. 2). La scuola della vita punta invece a sviluppare le cortecce secondarie, fornendo soluzioni concrete a situazioni concrete. Queste due scuole sono ben distinte tra loro, perché quando si mettono in uso le conoscenze che si hanno si blocca lo sviluppo delle cortecce associative (vedere, più avanti, Rif. 8 e Rif. 9). La scuola orientata al lavoro concreto dovrebbe partire quando la scuola è finita. Solo le conoscenze professionali di alto livello (o astratte) rientrano nella scuola vera e propria, essendo costruzione di corteccia associativa (5).

Se è vero, come io credo (Rif. 3), che ogni neurone delle cortecce associative sia legato ad una parola, allora il compito principale della scuola, ossia far nascere cortecce associative, sarebbe descrivibile dicendo che essa deve fornire delle parole allo studente (qualche volta viene fornita proprio una nuova parola, ma assai più spesso viene fornito un nuovo significato ad una parola usata in un dato contesto). Una scuola orientata alle parole sarebbe incredibilmente facile da gestire e da far funzionare con soddisfazione di tutti. Ogni insegnante avrebbe un compito ben definito, quello di far capire allo studente un certo numero di parole (concetti). La selezione di tali parole potrebbe essere fatta da un'apposita commissione, e chiunque credesse che esse lasciano fuori concetti importanti potrebbe proporre integrazioni o sostituzioni. Quando un insegnante si mette al lavoro saprebbe, con assoluta certezza, che le parole che proporrà sono importanti da conoscere e nessuno studente, nessun genitore e nessun preside potrebbe più accusarlo di proporre contenuti non interessanti (che bello!). L'insegnante avrebbe il difficile compito di trovare la strada adatta per presentare e per far capire queste parole. In ogni momento, però, potrebbe controllare come procede l'apprendimento, con verifiche veloci e molto oggettive, controllando la capacità dell'allievo di definire correttamente le parole che ha studiato (ovviamente usando parole conosciute, quindi a livelli diversi ai vari livelli d'istruzione). Alla fine dell'anno si saprebbe esattamente quanto ha appreso uno studente, semplicemente contando quante parole, tra quelle proposte, sono state comprese a sufficienza. Lo studente e l'insegnante avrebbero modo di riconoscere i comportamenti che portano allo scopo, distinguendoli da quelli che non ci portano, e facendo i loro bravi aggiustamenti potrebbero essere un buon studente e un buon insegnante (6).

I professori potrebbero e dovrebbero essere pagati un tanto per ogni parola recepita da un loro studente. Dopo di che potrebbero guadagnare quello che vogliono, basterebbe che si diano da fare. Se un insegnante avesse messo a punto un sistema molto buono per far capire un certo numero di parole, potrebbe, ad esempio, insegnarle anche nelle classi di altri colleghi, che ricambierebbero venendo ad insegnare nella sua classe le parole su cui si sono specializzati loro. Gli studenti ci guadagnerebbero e i professori pure.

Sembra un bel sogno, ma potrebbe diventare realtà se fosse confermato il fatto che ogni neurone associativo è collegato ad una parola. Oggi non si può affermare che è cosi', ma non si può neanche sostenere il contrario. Aspettando che gli esperti del cervello verifichino come stanno le cose, ogni insegnante può fare la prova da solo. Io consiglio di fare una verifica basata sulle parole, proponendo la definizione a parole dei termini più importanti della materia insegnata. Confrontando il responso di questa prova col giudizio ricavato dagli abituali metodi di valutazione, potrà verificare che la valutazione a parole è insieme molto veloce e molto attendibile. Risulta impossibile spiegare in diversi modi una parola non compresa; non e' possibile copiare le spiegazioni senza che si veda, perché è del tutto improbabile che due soggetti usino per caso le stesse parole per spiegare un termine. La contestazione che viene mossa a questo metodo è che uno studente potrebbe imparare a memoria una definizione (apprendimento implicito, ovvero sulle cortecce secondarie) senza capirla (apprendimento esplicito, ovvero sulle cortecce associative). Basta, però, chiedergli di ridefinire la parola usando altre per sapere come stanno le cose. Chi ha capito può ripetere il concetto in molti modi diversi senza sbagliare mai, mentre chi non ha capito non è in grado di formulare altre definizioni usando altre parole. Una curiosità fisica importante: definire una parola significa metterle in relazione con altre parole. Questo fatto ha una semplice quanto importante interpretazione fisica, descrivendo con quali altri neuroni associativi è collegato il neurone corrispondente alla parola oggetto d'indagine. Definire in modo sostanzialmente giusto una parola significa aver collegato in modo sostanzialmente corretto quel neurone con i suoi vicini. Le definizioni che puo' dare un bimbo d'asilo differiscono da quelle che puo' dare un professore universitario solo nel numero di collegamenti, avendo il bimbo poche altre parole sull'argomento e il professore molte altre parole.

Una valutazione basata sulle parole ha un'unita di misura, esprimendo il numero di neuroni associativi dedicati a quella materia. Esprimere a parole una valutazione intrinsecamente numerica, non è una buona idea. Se la banca, alla vostra richiesta di sapere a quanto ammonta il vostro conto, vi dicesse sufficiente o buono od ottimo o, ahimè, insufficiente, voi sareste soddisfatti dell'informazione? Perché i ragazzi e le famiglie dovrebbero essere soddisfatti di risposte tanto vaghe sulla ricchezza cervello? La valutazione a parole non dice quanto sono estesi i contenuti depositati nelle cortecce inferiori e collegati a quella materia, e può ben darsi che una persona sa tanta teoria senza sapere niente in concreto. A questo difetto si appellano quelli che criticano le conoscenze memorizzate nelle cortecce superiori, troppo teoriche e poco spendibili in concreto. Quando si conosce la lingua di una disciplina, però, basta andare in libreria e si trovano tutte le applicazioni concrete che si desiderano, già fatte da altri. Io dico che è come avere il bamcomat: basta andare e prelevare le conoscenze concrete di cui abbiamo bisogno. Il possesso di beni concreti, come una bella auto, è molto più vistoso di una tessera Bancomat ben fornita, ma vale molto meno. Certo, se dovete andare al lavoro non potete andarci a cavallo della tessera, ma si rimedia facilmente.

Non esiste, invece, un metodo per misurare l'estensione degli apprendimenti di basso livello, quelli che avvengono sulle cortecce secondarie. Presumo che sia questo il motivo per cui si è andati verso giudizi non numerici, perché le valutazioni espresse con delle frasi sono una non valutazione (il ragazzo ha questi pregi e questi difetti, sa fare questo ma non sa fare quello, e il bilancio finale è che non si quantizza se egli sa tanto o poco). Non sapendo misurare quest'apprendimento di basso livello, qualcuno propone di non parlare più di 'sapere', ed io gli darei ragione, perché il sapere a basso livello ha un valore tanto modesto che la parola 'sapere' gli si addice poco. Comunque lo si voglia chiamare, però, resta il problema di quantizzare l'entità dell'apprendimento sulle cortecce secondarie, soprattutto nella scuola secondaria dedicata all'apprendimento di una professione. La mia proposta è di sostituire il voto con un certificato di frequenza, dopo aver dato un voto al corso stesso. Se io tengo un corso di elettronica volto ad insegnare un certo modo di lavorare, ad esempio, intanto bisognerebbe quantizzare quanto valgono, professionalmente parlando, le cose che gli studenti faranno nel mio corso. Stabilito che tale corso è di un certo livello (sufficiente, buono, ottimo, ...), si potrebbe dire quanta parte di esso è stata appresa dallo studente affermando che la partecipazione dello stesso è stata al 80% (o al 50% o al 100%). Si guarderebbe essenzialmente alla presenza dello studente, così come si guarda alla presenza del lavoratore in ambito lavorativo per vedere se egli si è guadagnato il suo stipendio.

Il discorso fatto qui sopra è simile ad uno che verrà fatto più avanti, volto a separare la funzione docente dalla funzione giudicante, ma non va confuso con esso. Un conto, infatti, è dire che gli apprendimenti impliciti non sono misurabili, un conto e' dire che gli apprendimenti espliciti vengono fatti misurare ad un insegnante diverso da quello che tiene il corso per rimarcare il fatto che l'obbiettivo dello studente non deve essere quello di avere l'approvazione del suo insegnante ma deve essere quello di acquisire delle conoscenze. Con questo piccolo trucco l'insegnante non e' più l'ostacolo, bensì colui che aiuta a superare l'ostacolo. La differenza tra le due cose è abissale. Anche l'insegnante che insegna giudica (vedere Rif. 11 e la discussione che segue), ma il suo giudizio serve a guidare l'allievo, non a punirlo o premiarlo.

Abbiamo visto (Rif. 5) che non si è persone dotate di cervello alla nascita, ma solo dopo lo sviluppo delle cortecce associative ad un livello minimo necessario. Sarei allora per abolire l'obbligatorietà' della scuola primaria, sostituendola con questo principio: ha diritto alla cittadinanza italiana solo chi ha frequentato con successo la scuola primaria italiana o una scuola riconosciuta equivalente o superiore più un esame volto ad appurare la conoscenza minima della cultura italiana. Italiani non si nasce ma si diventa. Ma non si diventa tali mangiando le bistecche, e neanche ottenendo un posto di lavoro in Italia e un alloggio, bensì apprendendo la cultura italiana (o anche la cultura italiana, se vengono da un'altra cultura). Inoltre manterrei l'obbligatorietà della frequenza, estendendola all'ultimo anno d'asilo come ha proposto Berlinguer, in questo senso: chi rifiutasse la scuola offerta a tutti e gratutita, perderebbe il diritto a pretendere l'aiuto dello Stato per arrivare a superare l'esame finale e ad avere la cittadinanza italiana. Se tale obbiettivo interessasse, ed io credo che interesserebbe a tutti, ci si comporterebbe di conseguenza. L'abbandono scolastico calerebbe, e non di poco. E, tanto per fare un esempio, si smetterebbe di dire, come si diceva all'estero una volta e temo si continui a dire "italiano uguale mafioso". Penso, infatti, che ben pochi mafiosi sarebbero italiani, se ci fosse un serio esame d'ammissione alla comunità italiana in Italia. Ovviamente non penso che questa idea possa passare. Vorrei però che facesse riflettere su questo punto: occorre passare da metodi basati sull'imposizione (dovere di andare a scuola) a metodi basati sulla convenienza (conviene andare a scuola). Il motivo di fondo per fare questo passo è che solo il piacere scrive nel cervello, e quindi può indurre dei cambiamenti, mentre la sofferenza cancella (se cancella cose fatte male va bene anch'essa, ma poi alle cancellature bisogna pur sostituire qualcosa, o no?) (vedere, più avanti, Rif. 11)

Il problema fondamentale della scuola attuale

(Rif. 8) Nel cervello non ci sono soltanto conoscenze, ma anche strutture che le gestiscono. Intanto c'è un cervello (che io chiamo cervello dietro perché interessa la mezza corteccia che sta dietro), che memorizza, e un cervello davanti, che può usare o non quello che c'è in quello dietro. Una conoscenza arrivata al soggetto e memorizzata dietro, nelle cortecce di basso livello, è una conoscenza potenziale, più o meno com'e' una ricchezza potenziale l'aver fatto un lavoro ed essere in attesa del relativo compenso. Quando la conoscenza arriva ad interessare la corteccia associativa dietro, allora quel lavoro è ormai diventato moneta, solo è ancora in mano ad altri. Una conoscenza memorizzata dietro non è ancora a disposizione del cervello davanti, quello che amministra il da farsi. Poco male, direte voi, basta che ci sia. Se vi pagassero lo stupendio non ogni mese ma ogni dici anni, però, comincereste a fare una certa differenza tra l'avere i soldi in mano o l'averli ancora da riscuotere (specie quando andate a comprare qualcosa e dovete fare con quello che avete). Purtroppo il passaggio dal cervello dietro a quello davanti avviene a stadi, e negli adulti possono passare anche vent'anni prima di mettere in uso conoscenze che pure sono presenti in memoria. A scuola si cerca di 'spremere' subito tutto quello che c'è dietro, pre renderlo disponibile al cervello davanti. Comunque conviene sempre tenere ben distinto il fatto di avere una conoscenza dal fatto di poterla usare, perché di mezzo c'e' un fosso profondo: la separazione tra la corteccia associativa dietro e quella davanti (non a caso l'una è agli antipodi dell'altra). Pensate che il cervello dietro ha tutta l'aria d'essere ciò che la psicologia chiama Inconscio, e che il materiale inconscio non è accessibile volontariamente.

(Rif. 9) Il trasferimento di conoscenze dal cervello dietro a quello davanti non avviene con continuità. Solo le nuove conoscenze che s'integrano con quelle già in uso, sono recepite. Le altre restano dietro, inutilizzate. Se premono per entrare in uso, sono indirizzate verso una regione attualmente non usata della corteccia associativa frontale (regione in sviluppo o, come dico io, in incubazione). Solo quando la regione in incubazione è diventata migliore di quella oggi in uso, si attua un cambiamento repentino e straordinario, con sostituzione del vecchio modo di far fronte alle cose con uno nuovo. La crescita della corteccia associativa (o, se preferite, la crescita verso l'alto di una persona) non avviene con continuità ma a scatti (stadi). Non c'è sviluppo se il vecchio sistema si dimostra valido, la qual cosa impedisce al nuovo sistema in incubazione di entrare in uso. Ciò spiega come mai una persona apprende molto da giovane e poco da vecchia. La capacita d'apprendimento è la stessa, ma il possesso di un sistema di vita abbastanza soddisfacente impedisce alle nuove conoscenze di approdare al cervello davanti e cambiare i comportamenti.

(Rif. 10) Mettiamoci ora nel cervello davanti, precisamente nella corteccia associativa davanti. In essa dobbiamo distinguere due cose: le conoscenze ed il sistema per accedere ad esse e usarle. Ho già detto che i neuroni associativi vengono attivati attraverso le parole, e che il sistema d'accesso alle conoscenze è il sistema verbale. La sua conformazione determina il carattere, ma questo ora ci interessa fino ad un certo punto. Il punto da aver chiaro è questo: l'uso delle conoscenze non è automatico, ma è determinato da un sistema di gestione. Le conoscenze sono i beni del cervello (beni liquidi, quelli delle cortecce superiori e beni in proprietà, quelli delle cortecce inferiori). E' chiaro che non sarebbe bello se qualcuno vi volesse dire come dovete spendere i vostri beni. Il loro utilizzo è diverso da persona a persona, ed è giusto che sia così, perché ogni situazione ha le sue soluzioni.

Queste tre affermazioni sono giustificate da molti fatti, ma non sono ufficialmente riconosciute come vere. Nonostante questo mi è sembrato utile tirarle in ballo, ritenendole determinanti per capire la scuola attuale e per valutare la proposta di Berlinguer. Nel Rif. 9 c'è scritto il motivo per cui la scuola è organizzata a cicli (e lo sarà sempre, anche se Berlinguer e chi lo consiglia sembrano orientati a supporre che l'apprendimento sia un processo che avviene con continuità).L'istruzione è organizzata in cicli perché deve far sviluppare le cortecce associative e tale sviluppo avviene a scatti (stadi). La messa in funzione di un sistema di vita a livello più alto, con massiccio arrivo nella corteccia davanti d'informazioni accumulate nella corteccia dietro e mai usate, può avvenire naturalmente o essere indotto artificialmente. Per indurlo bisogna creare un disadattamento, perché solo alla presenza di forte e ineliminabile sofferenza una persona si decide ad abbandonare il vecchio sistema di vita per uno nuovo (la vecchia regione della corteccia associativa per una nuova regione, più evoluta). Tale sofferenza è inflitta al bimbo mettendolo in una scuola nuova, con nuovi insegnanti che pretendono da lui assai di più di quelli precedenti. I genitori non possono creare questa situazione, possono chiedere di più al figlio più grande ma non possono pretenderlo, perché non possono dirgli che sarà espulso da casa se non si adeguerà alle nuove richieste (possono far finta, ma si riconosce da lontano che non fanno sul serio). Il discorso dell'espulsione non funziona neanche a scuola, perché è preciso dovere della scuola portare tutti ad uno sviluppo adeguato. Che cosa resta, per mettere il ragazzo in situazione di forte inadeguatezza? Resta il rapporto con dei nuovi insegnanti, che non concedono la loro approvazione, e anche la loro amicizia, se non a chi si rassegna a fare le cose ad un livello superiore.

Alcune conseguenze sono ovvie. Cambiare il programma da svolgere non basta per cambiare musica. Per questo motivo l'ultimo anno d'asilo non è il primo di un nuovo ciclo, come vorrebbe che fosse Berlinguer, se non cambia la maestra e la scuola (l'edificio, l'aula, l'ambiente). Per questo la seconda parte della scuola primaria proposta, quella di sei anni, non sarà un nuovo ciclo, se non si prenderanno adeguati accorgimenti, soprattutto quello di cambiare gli insegnanti e di appoggiare che essi sono 'una razza diversa' dagli insegnanti avuti fino allora. Basta vedere due insegnanti, che si presentano diversi alla classe, in tranquilla conversazione tra loro, per far capire agli studenti che essi non sono poi così diversi come dicono di essere. Per questo era, e resta opportuno, cambiare edificio, oltre che persone. Ma queste sono preoccupazioni inutili, per chi pensa che lo sviluppo sia una cosa armonica, in cui le nuove conoscenze si aggiungono tranquillamente a quelle già possedute. Attenzione, però, perché se lo sviluppo delle cortecce associative avviene a scatti, allora la proposta di Berliguer rischia di levare la scuola media senza dare nulla in cambio. In pratica lo studente accederebbe ad un secondo livello al triennio della secondaria, che verrebbe ad essere la nuova scuola media. Col risultato che la scuola superiore passerebbe dagli attuali cinque anni a tre. Non essendoci il tempo per una preparazione di base, si passerebbe subito ad un'istruzione professionale. Se questo vi pare un aumento di livello della scuola, un modo di far fronte ad una vita che richiede alto profilo intellettuale, appoggiate pure la proposta di Berlinger. Io, che sognavo l'abolizione dei professionali posti subito dopo le medie per innalzare il livello culturale medio, la trovo decisamente sconveniente.

Per fare una proposta alternativa a quella di Berlinguer, vediamo qual'è il male oscuro della scuola attuale. Ci sono alcuni professori convinti che la scuola italiana attuale vada male perché non insegna abbastanza le cose che servono (gli apprendimenti di basso livello), e altri professori convinti che essa vada male perché non insegna abbastanza la teoria (gli apprendimenti d'alto livello). Il guaio è che questa scuola non insegna né l'una cosa né l'altra, che insomma non insegna niente. Supponendo che le cose stiano davvero così, bisogna chiedersi perché la scuola d'oggi non insegna. I professori dicono che sono gli studenti a non aver voglia, gli studenti ribattono che sono i professori a non averla e a farla passare pure a loro. Le persone fuori dalla scuola pensano che siano entrambi a non fare il loro dovere (salvo poi professare la massima considerazione sia per gli studenti sia per i professori nei loro discorsi ufficiali). Se nessuno fa bene la sua parte, forse c'è un motivo che va oltre il singolo insegnante e il singolo studente, un motivo strutturale. Qual è? Berlinguer ha proposto la sua cura, ma non ha fatto altra diagnosi oltre a quelle due sopra dette: ci sarebbe poco insegnamento di conoscenze professionali e anche di conoscenze ad alto livello. Grazie, questo lo sapevo da me, ma come mai? Le conoscenze sul cervello esposte all'inizio di questo paragrafo ci forniscono due buoni motivi per tale mancato apprendimento.

Il primo motivo è già stato trattato parlando di cicli: il cervello davanti non accetta le nuove conoscenze se quelle già in suo possesso lo soddisfano abbastanza (Rif. 9). Allora la scarsa motivazione ad apprendere degli studenti non è colpa né degli studenti né dei professori, è invece colpa del benessere. Quando si suppone che uno studente abbia voglia di apprendere, perché imparare cose nuove è naturale e obbligatorio, si sottintende che egli sia insoddisfatto della sua vita attuale. Questa supposizione è sicuramente vera nella scuola primaria (che e' poco interessata da questo problema e molto interessata da quello che vedremo più avanti). Non lo è per niente, invece, quando lo studente arriva alla secondaria ed ha già quasi tutto quello che potrebbe desiderare. Gli manca il lavoro, certo, ma siccome la scuola attuale è poco orientata a fornire conoscenze professionali, egli perde interesse alla scuola. Passa il tempo ad apprendere lo stesso, sia chiaro, perché il cervello non sa fare altro che apprendere e passa 24 ore su 24 impegnato in questo compito. Si dedica ai settori dove si sente carente, a cercare relazioni con l'altro sesso e a cercare il suo posto nella società, la propria funzione. Tutto ciò si chiama mancanza di motivazione allo studio. Dipende dalla scuola? Non direi proprio. Se la scuola garantisse un lavoro o un partner, essa interesserebbe, ma non sarebbe più la scuola che sviluppa le cortecce associative. Dipende dalla società, e qui s'impone una considerazione. Ci sono fasi storiche in cui una società costruisce soluzioni nuove. In queste fasi le conoscenze sono apprezzate, e la scuola è tenuta in gran considerazione. Quando però si raggiunge una buona soluzione, quando una società sta bene, essa 'si siede' e non solo non fa nulla per crescere ma si oppone decisamente ad ogni cambiamento (7). Questo fatto è normale. Però tale situazione, buona per la società quanto cattiva per la scuola, non dura all'infinito. Gli altri paesi, quelli che ieri stavano male e che si sono dati da fare per migliorare, prima ci affiancano e poi ci superano. Poiché rimanere indietro non è molto piacevole, torna l'interesse allo studio e alla scuola. Forse siamo a questo punto, oggi in Italia. E invece di guardare indietro, cercando chi incolpare del poco apprendimento nella scuola di ieri, conviene guardare avanti.

C'è poi un secondo problema nella scuola attuale: il fatto che l'apprendimento sia definito in termini comportamentali. Vediamo la definizione corrente d'apprendimento: "Sebbene l'apprendimento sia l'oggetto più studiato della psicologia, non si ha ancora una sua definizione unitaria. I vari tentativi di definizione si possono riassumere, con accettabile approssimazione, nella seguente formulazione: l'apprendimento designa le modificazioni relativamente durevoli delle possibilità del comportamento giacché si basano sull'esperienza" (dal Dizionario di Psicologia di Arnold W.-Eysenck H. J.-Meili R., edizioni Paoline). Si vede bene che gli psicologi cercano di definire l'apprendimento guardando "le modifiche relativamente durevoli del comportamento" e non invece interessandosi alle modifiche relativamente durevoli del cervello. Se ci fosse un legame diretto tra il comportamento visibile e il contenuto del cervello allora, si potrebbe risalire alle modifiche apportate nel cervello a seguito di un apprendimento indagando le modifiche intervenute nel comportamento. Ma abbiamo visto, esaminando come il cervello usa le nuove conoscenze (Rif. 10), che non è così (e non a caso nella definizione citata sopra si parla di possibilità che il comportamento risulti modificato dall'apprendimento e non di modifica che avviene senz'altro). Non solo il cervello può risultare modificato senza che questo influenzi ancora il comportamento esterno (modifica al cervello dietro non ancora recepita nel cervello davanti), ma questa è la regola, questo è il suo funzionamento normale. Esaminando il comportamento è pertanto impossibile valutare oggettivamente l'apprendimento (non è il professore incompetente che non sa farlo, è proprio teoricamente impossibile, così com'è teoricamente impossibile stabilire se una cosa non ricordabile è memorizzata nel cervello dietro, o cervello inconscio, oppure no).

Poiché la valutazione è il momento decisivo del processo d'apprendimento, se esso avviene come descritto più avanti (Rif. 11), allora diventa impossibile insegnare ogni volta che la valutazione soggettiva, l'unica possibile se s'ignora il cervello, è contestata. Ogni persona è allenatissima ad intuire cosa c'è nel cervello guardando il comportamento di una persona, e la valutazione soggettiva è di solito ottima, se è serena, se il professore non è oggetto di forti pressioni e al contempo privo di valide difese. Se, però, uno studente dice "professore, mi dimostri che io non so, come afferma lei", a quel punto il professore è in trappola, perché non può assolutamente provare la veridicità della sua valutazione. Poiché questa contestazione è diventata la regola nella scuola secondaria superiore d'oggi (giustamente, perché, come detto all'inizio, il giovane ha il diritto e il dovere di adattare al presente le conoscenze che gli sono trasmesse), e poiché la società non ha difeso i giudizi dei professori quando questi davano giudizi negativi, allora insegnare proficuamente è diventato non solo difficile, ma addirittura impossibile.

Ma il guasto fondamentale dell'apprendimento definito in termini comportamentali è un altro. Si dovrebbe imporre (dire cosa è giusto e cosa no) la materia, perché l'insegnamento raggiunga il suo scopo, ma non si dovrebbe mai imporre un comportamento, perché un comportamento buono per una persona in una situazione non è buono per un'altra persona in un'altra situazione. Dopo aver definito l'apprendimento in termini di comportamento ci si trova di fronte ad un dilemma irrisolvibile: o s'impone anche il comportamento, con un danno importante alla capacità d'adattamento ambientale dell'individuo, o non s'impone neanche la materia, rinunciando, di fatto, ad insegnarla.

Per capire questa cosa, vediamo come nasce un voto nella scuola d'oggi. Una parte del giudizio è decisa nelle interrogazioni e nei compiti in classe, dove lo studente è chiamato a dire cosa farebbe davanti ad un problema ben preciso. Se egli risolve il problema come lo avrebbe risolto il professore, il voto è buono, altrimenti è cattivo. Si notano due cose. La prima è che si valuta l'uso delle conoscenze, e non il possesso delle stesse (Rif. 10). Se lo studente sa le cose, ma non le usa per risolvere il problema di matematica assegnatogli, egli prende un brutto voto. Questo voto afferma che egli non sa le cose. Potrebbe saperle, invece, e non averle usate, perché c'è un lungo cammino nel cervello tra il memorizzare una cosa e il metterla in uso (Rif. 8). Un piccolo esempio personale: l'unica materia che ebbi a settembre nella mia carriera scolastica fu... quella che sapevo più di tutte le altre. Non mi curavo di esercitarmi, e per la professoressa contavano gli esercizi svolti, per cui io 'non sapevo' quella materia. Oggi l'insegnante valuta bene lo studente che si comporta come lui davanti ad un problema, e male colui che segue una strada diversa. E' giusto che il professore tenda ad allevare gli studenti a sua immagine e somiglianza? Sarebbe giusto, se egli trasmettesse soltanto conoscenze. Non è giusto per niente quando egli trasmette un modo, il suo, di utilizzare le conoscenze. Questa seconda componente non può essere tanto piccola, giacché le valutazioni sono sull'uso delle conoscenze e non sul loro possesso. Nella classe di mio figlio quasi tutte le femmine hanno giudizi migliori rispetto ai maschi. Può darsi che le donne siano più brave degli uomini, ma si può anche pensare che le valutazioni delle insegnanti, tutte donne, siano favorevoli alle allieve donne perché queste tendono ad usare le loro conoscenze in modo più vicino a come le adoperano loro.

La seconda componente del giudizio assegnato allo studente è ancora più preoccupante, perché si ufficializza che l'insegnate abbia il diritto di giudicare i comportamenti (rendendo difficile, se non impossibile, quell'adattamento di cui si è perlato al Rif. 6). Se lo studente in classe si comporta come pare giusto al professore, se egli studia e fa i compiti seguendo il metodo suggerito dall'insegnante, allora è maturo e probabilmente sa anche le cose. Il giudizio dell'allievo sale. Se, invece, si comporta diversamente da come si aspetta il professore, la sua valutazione cala. E' evidente che l'insegnante sta imponendo un comportamento. I genitori applaudono calorosamente (quando il loro modello comportamentale va d'accordo con quello del professore, perché altrimenti criticano e anche aspramente) sostenendo che il professore deve insegnare un metodo di studio e di lavoro. E' normale che un genitore applauda l'insegnante quando questi impone al giovane un comportamento (per esempio quello di fare i compiti per le date stabilite; e se ad uno studente, per motivi suoi, tornasse meglio farli in un altro momento?), perche' il solo ed unico motivo per cui una persona fa dei figli è di trasmettere a loro il suo modello di vita. Ma un insegnante, a differenza di un genitore, non ha il diritto di trasmettere agli allievi il suo stile di vita. Il comportamento imposto, sia quello dei genitori sia quello degli insegnanti, se va bene in un certo contesto, è sicuramente sbagliato in un contesto diverso, dove per conseguire lo stesso risultato bisogna comportarsi diversamente. Ecco il punto critico. Finché i giovani ereditavano l'occupazione e l'ambiente dei genitori e degli insegnanti, insegnare un comportamento aveva senso e valore. Oggi, con la situazione ambientale che varia rapidamente e con gli spostamenti delle persone, imporre il comportamento giusto per una situazione diversa significa imporre un disadattamento ambientale. I giovani non ci stanno, ed hanno perfettamente ragione (Rif. 6). Un professore è chiamato a trasmettere conoscenze e alcuni comportamenti risultano modificati dopo aver acquisito tali conoscenze. Qui però bisogna mettere il punto, andare oltre e indicare anche come lo studente deve spendere le sue conoscenze è un vero e proprio attentato alla sua capacita d'adattamento. Il comportamento non imposto dalle conoscenze, infatti, è scelto da ogni individuo in modo diverso perche' ognuno deve far fronte ad una diversa situazione ambientale. Chiedergli di comportarsi in un modo invece di un altro solo perche' ai fini di una materia ciò sarebbe vantaggioso significa ignorare che quella modifica comportamentale va ad influire anche sulle altre situazioni. Se il comportamento richiesto è buono per tutte le situazioni, lo studente lo sceglierà spontaneamente. Se non lo accetta, invece, probabilmente è perche' esso produce più danni altrove che vantaggi su quel terreno. A questo punto insistere diventa inutile, perche' non avrà risultati, e scorretto, perché cerca di far passare una cosa che è complessivamente dannosa

Mentre il comportamento non va imposto, occorre definire esattamente, per poter insegnare, obbiettivi e metodi di verifica. Il problema fondamentale della scuola attuale, a mio avviso, è quello di mescolare queste due cose, definendo obbiettivi e verifiche in termini comportamentali. Se io definisco come obbiettivo della mia materia il fatto che il ragazzo affronti un certo problema in un certo modo anziché in un altro, e se baso la mia valutazione su come si comporta di fronte a quel problema, io lo metto di fronte al dilemma di scegliere tra l'adattamento ottimale al suo ambiente e l'apprendimento della materia.

Questo dilemma è sempre esistito ma è esploso in tutta la sua importanza con l'avvento della scuola di massa, che ha portato dentro la scuola persone provenienti da ambienti molto diversi. L'imposizione di un modello comportamentale è sempre sbagliata. Essa, però, può essere tollerata se il comportamento imposto è proprio del gruppo sociale di cui lo studente ambisce a far parte. In altre parole ieri si imponeva il comportamento della classe dirigente e chi vi accedeva provenendo da una diversa classe sociale pagava volentieri il prezzo di un disadattamento col suo ambiente perché andava a stare meglio. Se invece uno studente vuole continuare a stare nel suo ambiente, gli diventa intollerabile l'imposizione di un comportamento ottimizzato per altre situazioni ambientali.

La cosiddetta 'scuola democratica' emersa dal '68 aveva appurato questo stesso principio che io sto descrivendo qui: i comportamenti non si devono imporre, neanche quelli cosiddetti giusti perché se sono giusti per una persona non è detto che lo siano per un'altra. Peccato che questa regola si sia portata dietro che non si può imporre neanche la materia, che il professore non può pretendere che lo studente apprenda quello che lui insegna ma deve andare a cercarlo, deve blandirlo, deve convincerlo che le conoscenze che gli offre sono buone e utili. La cedevolezza del professore si chiama insegnamento individualizzato, e non ha senso quando si trasmettono conoscenze scientifiche, mentre ha senso quando si trasmette quello che non si dovrebbe trasmettere: come ci si deve comportare. La buona notizia che io porto è questa: se è vero che le cortecce associative sono comandate a parole (Rif. 3), si possono definire perfettamente gli obbiettivi e si possono fare valutazioni prescindendo totalmente dal comportamento. Oggi lo straordinario valore della conoscenza è appannato dallo straordinario valore dell'adattamento ambientale, in conflitto col primo. Eliminando tale conflitto riemerge pienamente il valore di entrambi.

Vorrei concludere questo paragrafo con una proposta emblematica: la scuola secondaria dovrebbe rimuovere l'obbligo della frequenza delle lezioni (lasciando l'obbligo di passare la mattinata a scuola per i minorenni). Come all'università, ma con un'importante correzione: periodicamente (per esempio ogni mese) lo studente sarebbe tenuto a fare una verifica sulle sue conoscenze. Se essa fosse attendibile, come io penso che sia la verifica fatta sulle parole, ogni studente saprebbe benissimo se sta lavorando bene o male. Dopo di che... tutti verrebbero alle lezioni (se il professore fa bene il suo mestiere). Solo ci verrebbero spontaneamente e ci verrebbero per capire, con tutte le conseguenze del caso, non per fare atto di sottomissione (dopo di che lo studente non si puo' bocciare, avendo fatto quanto gli veniva chiesto, anche se ha appreso poco o nulla).

La didattica secondo il cervello

(Rif. 11) Come avviene il processo di modifica del collegamento tra un neurone e gli altri neuroni? Ci sono motivi per pensare che questo processo avvenga in due fasi. Nella prima fase (incubazione) il neurone sviluppa molti collegamenti e si connette a tutti i neuroni che incontra. Durante l'incubazione, le regioni coinvolte dalle modifiche non sono usate, perché i collegamenti fatti a caso sono inaffidabili e pericolosi (diciamo allora che l'incubazione è invisibile, non producendo modifiche nel comportamento del soggetto). Nella seconda fase (stato nascente) vengono provati i nuovi collegamenti, eliminando quelli che, usati, producono sofferenza e rinforzando quelli che, usati, procurano piacere. Al termine di questa seconda fase la modifica entra in uso, per questo lo stato nascente è visibile, e talvolta spettacolare, producendo grosse modifiche comportamentali in poco tempo (ciò è possibile perché il materiale era già pronto, preparato dall'incubazione di quello stato nascente).

Io non credo affatto che gli adulti di oggi, e in particolare le donne (in veste di mamme o in quella di insegnanti) siano disponibili a rinunciare al fatto di imporre il loro modo di comportarsi. Supponiamo, però, che avvenga questo miracolo (cioè supponiamo che gli uomini riescano, una volta tanto, a far passare il loro punto di vista, molto più orientato al cambiamento di quello delle donne). Una volta separato l'insegnamento di conoscenze dall'insegnamento di un modello comportamentale, si pone il problema di definire una nuova didattica (quella d'oggi, infatti, è tutta protesa ad insegnare un modo di comportarsi). Se accettiamo l'idea che s'insegnano informazioni e che queste informazioni vanno a modificare il collegamento tra i neuroni, la nuova didattica dovrebbe tener conto di come vengono variati i collegamenti tra neuroni. Il processo descritto sopra (Rif. 11), un tipico processo per tentativi ed errori, porta a questa regola fondamentale della didattica: si possono indicare le mete, non si puo' indicare la strada per raggiungerle.

Ci sono due buoni motivi per rendere impensabile l'idea di poter indicare ad uno studente che comportamenti mettere in atto per arrivare ad una meta prefissata. Il primo motivo è che nessuna persona esterna puo' sapere quali sono esattamente i collegamenti attuali tra i neuroni di un altro cervello, perché ogni cervello ha collegamenti diversi. Quest'estrema variabilità individuale è mascherata dal fatto che le persone si mettono d'accordo, per potersi scambiare informazioni, e questo accordo nasconde le differenze. Ma non si nasce uguali, bensì lo si diventa. Mettersi d'accordo è l'obbiettivo finale dell'aprendimento di una disciplina, ed è chiaro che questo accordo non c'è prima, quando la materia stessa deve ancora essere appresa.

Il secondo motivo per non insegnare un modo di arrivare alla meta è che i collegamenti tra neuroni non si possono variare su comando. In altre parole anche lo studente che sapesse come sono collegati attualmente i suoi neuroni, e come dovrebbero essere collegati alla fine, non potrebbe in ogni caso comandare il passaggio dal vecchio collegamento al nuovo. Illustrerò questa cosa con un esempio. Immaginiamo che i collegamenti tra i neuroni siano come i collegamenti tra le case sulla terra, che poi sono le strade. Il professore ha il compito di guidare il suo allievo ad una méta alla quale lui è già arrivato, nell'esempio in figura alla scuola. Un modo sbagliato di farlo è quello di suggerire all'allievo la strada che ha percorso lui stesso. Questo percorso, che pure è stato quello effettivamente seguito dal professore, non porta l'allievo alla méta voluta, perché questi proviene da un'altra parte e ha a disposizione strade diverse. Il modo giusto invece è un altro. Il professore comincia con una bella descrizione della méta, così se l'allievo passa da quelle parti può capire di essere arrivato a destinazione. Se poi l'allievo non arriva, allora il professore 'gli va incontro' indicandogli degli obbiettivi parziali convergenti verso l'obbiettivo finale. Così si spiegherebbe ad una persona la strada per arrivare in una località nuova, e così andrebbe impostato l'insegnamento. Il fatto che il collegamento giusto tra i neuroni non si ottenga per comando ma facendo dei collegamenti casuali e poi scegliendo tra di essi quelli riusciti, non è una scelta ma il solo modo disponibile per apportare variazioni al cervello (se è vero quanto detto al Rif. 11). Compito del professore è indicare l'obbiettivo con la massima precisione possibile e poi valutare se l'allievo lo ha conseguito o no. Lo studente annaspa a destra e a sinistra, in modo casuale e quindi in un modo piuttosto penoso, e se non è molto lontano puo' darsi che passi anche per la meta indicata. La valutazione (fatta dal professore, ma più spesso fatta dallo stesso allievo e quindi autovalutazione) deve indicare il momento in cui egli imbrocca la strada giusta. Dopo di che non resta che fissare quella strada (fisicamente quei collegamenti tra i neuroni) attraverso lo sviluppo di piacere (piacere per un buon voto o piacere per un aumento d'autostima). Una volta scoperta l'ipotesi buona, bisogna anche cancellare le altre ipotesi, quelle meno buone o del tutto sbagliate, e non si puo' farlo altrimenti che soffrendoci sopra.

Ci sono diverse cose che possono impedire l'apprendimento. Intanto se lo studente non è attivo, se non sviluppa ipotesi di soluzione del problema, e' matematicamente impossibile che egli apprenda. Il professore può fare i salti mortali, ma uno studente che non si decide a camminare da solo non può arrivare da nessuna parte e resta esattamente dove si trova. Egli si evita le sofferenze dovute alle strade sbagliate, ma si evita anche il piacere di scoprire cose nuove e l'apprendimento.

Il secondo punto su cui riflettere è giusto il meccanismo del piacere che 'scrive nel cervello' e della sofferenza che 'cancella'. Chi vuole evitare sofferenze agli studenti, deve sapere che eviterà certamente anche l'apprendimento di qualcosa di nuovo. Il piacere provato davanti ad una soluzione valida è poi proporzionale alla sofferenza che è costato l'arrivare a quella soluzione, per cui i 'protezionisti', quelli che 'poverino lo studente non deve restarci male se no scappa dalla scuola', chiedono la luna quando vorrebbero che gli studenti privino solo piacere nel loro cammino scolastico.

Obbiezione: "E chi non ce la fa ad arrivare da solo all'obbiettivo proposto dovrebbe smettere?" Il professore può graduare le difficoltà, fino a farle diventare minime, scegliendo obbiettivi intermedi ravvicinati tra loro. Nessuno studente è incapace di trovare la strada per arrivare ad un luogo vicinissimo alla sua posizione attuale e ben descritto dal professore, cioè riconoscibile quando viene incontrato (attenzione: è qui che si misura la bravura del professore, nell'individuare le tappe intermedie e nel descriverle in modo non ambiguo). Se lo studente che non riesce a superare neppure le difficoltà minime, se queste sono davvero minime, non puo' che smettere, perche' nessuno puo' andare a cambiargli i collegamenti in testa, o li cambia da se o non li cambia. Apprendere è una scelta, non si puo' imporre ad una persona di cambiare il suo cervello se essa non vuole farlo. Chi paventa questa eventualità, che fino ad oggi si verificava ed anche spesso, dovrebbe tener conto che ieri non si sentiva il bisogno di apprendere molto, ma oggi le cose stanno cambiando. E' lecito attendersi che la concorrenza, tra nazioni e all'interno dell'Italia, induca gli studenti a muoversi.

Il problema della selettività nasce quando la frequenza delle lezioni è il parametro principale per giudicare se c'è stato apprendimento o no. Abbiamo visto che questo metro di giudizio è valido per la scuola professionale (=>), ma abbiamo anche visto che la scuola-scuola può misurare gli apprendimenti (=>) e che deve farlo senza mettere in conto il modo in cui lo studente li ha conseguiti, se non vuol danneggiare l'adattamento all'ambiente (=>). Come logica conseguenza ho proposto una secondaria senza frequenza obbligatoria. Un tale scuola non ha più il problema della selettività, perché lo studente non può né venire escluso né venire ammesso a frequentare un corso. Semplicemente lo frequenta se gli sembra utile frequentarlo (e i risultati gli diranno ben presto se ha scelto bene o male). Oggi, per consentire ad uno studente di continuare a frequentare anche in presenza di modesti apprendimenti, si deve chiudere un occhio (o entrambi) sull'entità del suo apprendimento. Domani, con lo studente che può frequentare quello che vuole, si può dire pane al pane e vino al vino, dando alla sua preparazione il valore che è risultato dalle misurazioni. Se gli studenti escono dalla scuola con un voto che dice la loro reale preparazione, la società imparerà presto a premiare chi ha lavorato e a punire chi non lo ha fatto. Su questo punto la proposta di Berlinguer è buona, perché lascia ampia libertà di frequenza allo studente. Non definendo in alcun modo cos'è l'apprendimento e come si misura, però, non solo non migliora la situazione ma la peggiora. Non si capisce come si possa dare un voto a uno studente, e nel dubbio (tenendo anche conto che la paga dell'insegnante verrà in qualche modo collegata alle valutazioni) si continuerà a giudicare buone le preparazioni che non lo sono. Per risolvere il problema dell'abbandono scolastico occorre prima mettere a punto un sistema di valutazione attendibile.

Questa impostazione della didattica, unita alla rigorosa precisazione degli obbiettivi e unita ad una buona valutazione del raggiungimento degli stessi (entrambe queste cose sono possibili usando il metodo delle parole descritto all'inizio), porterebbe ad una didattica di ben altro livello rispetto ad ora. Infatti oggi i professori impiegano invano tutte le loro forze dietro ad un compito impossibile, quello di portare gli studenti agli obbiettivi. Oggi non esiste una misura della bravura dei professori, per il buon motivo che nessun professore è bravo quando gli si assegna un compito impossibile (ci sono solo professori che ci s'impegnano più o meno tempo, dimostrando con quest'impegno la loro volontà di meritare lo stipendio... e la loro ignoranza su come funziona il cervello). Ma il lato peggiore del sistema attuale è un altro: se portare l'allievo alla meta è un compito del professore, il voto finale il professore lo da a se stesso. Come meravigliarsi se esso è positivo anche in presenza d'apprendimenti molto modesti?

Sul piano pratico, la cosa più necessaria da attuare è questa: separare la funzione docente da quella giudicante. Oggi non solo i professori si trovano a dare i voti a se stessi, ma gli studenti passano il tempo a nascondere i loro dubbi anziché tirarli fuori e risolverli col professore. Il nemico da sconfiggere, per gli studenti di oggi, è il professore, non l'ignoranza. Anche identificando il nemico nella persona che giudica se l'ignoranza c'è ancora, egli non sarebbe l'insegnante se l'esame finale è fatto da altri. Oggi c'è un esame fatto da esterni:, l'esame di maturità, ma è criticato da tutti e si avvia ad essere eliminato. Io propongo, invece, di estenderlo a tutti gli anni, ovviamente semplificando di molto la procedura attuale.

La proposta di Berlinguer

(Rif. 12) Possono comunicare a parole, comprendendosi pienamente, solo due cervelli che siano identici tra loro, a parte la differenza oggetto della comunicazione. Questa è una mia conclusione, troppo lunga da dimostrare qui. L'esperienza, però, suggerisce che deve essere vera, perché due persone molto simili si intendono e due persone molto diverse no.

La proposta di Berlinguer comincia nel migliore dei modi, auspicando un insegnamento che fornisca apprendimenti di alto livello. Dopo di che egli auspica che gli insegnamenti siano più vicini al mondo del lavoro. Se la mia analisi dell'apprendimento in termini cerebrali è giusta, queste due indicazioni sono inconciliabili tra loro. Suggerendole entrambe si lascia ad ogni insegnante la libertà di fare come vuole. Comunque scelga il docente, poi, egli è in torto per un aspetto. L'aria si fa pesante, per chi insegna e per chi apprende.

Un altro aspetto che vorrei evidenziare è questo: secondo Berlinguer (e secondo molti altri) i professori insegnano male perché sono poco preparati. E' chiaro che una maggiore preparazione dell'insegnante su come viene svolta una professione sia importante, in omaggio al ben noto principio che non si può insegnare ciò che non si conosce. Ma questo problema interessa solo l'ultimo anno, quello che io non considero più scuola in senso stretto (sviluppo di cortecce associative) ma preparazione al lavoro (sviluppo di cortecce secondarie, allargamento in orizzontale delle conoscenze). Per gli anni precedenti, per la scuola insomma, tale diagnosi è del tutto sbagliata. Essa, infatti, presuppone che la trasmissione d'informazione sia tanto maggiore quanto maggiore è il dislivello delle conoscenze tra insegnante ed allievo. Un dislivello ci deve essere, e c'è già oggi. Aumentarlo significa acuire il vero problema dell'insegnamento: quello di far comunicare tra loro due cervelli che non potrebbero comunicare, senza opportuni correttivi, perché troppo diversi tra loro (Rif. 12). In altre parole il problema dell'insegnante non è tanto saperne di più ma trovare una strada per far capire quello che conosce. Aumentando la preparazione dell'insegnante si peggiora la situazione. Diamo pure la laurea alle maestre d'asilo, la loro immagine ci guadagna parecchio e potranno evitare qualche errore, poi però voglio vedere come ci comunicano queste evolute maestre con i bimbi piccoli. In questa proposta, c'è poi un grave errore d'impostazione: si avvalla l'idea che siano gli insegnanti a dover cercare lo studente, e non viceversa. Solo cosi' si puo' spiegare come mai per far apprendere di piu' lo studente non si consiglia maggior studio allo stesso ma... un maggior studio all'insegnante.

Il punto peggiore della proposta di Berlinguer, però, è quello relativo alla riforma dei cicli. Se lo sviluppo del cervello avviene a scatti (Rif. 12), è chiaro che il terzo biennio della scuola primaria non è un nuovo ciclo (anche volendo che lo sia, non ci sarebbe il tempo per ripartire da zero, e tale 'ripartenza' da zero è necessaria per costruire un sistema a più alto livello di quello precedente). Il secondo ciclo di istruzione è allora il primo triennio della secondaria (che, non a caso, diventa obbligatorio). Tutto bene, se non fosse che restano solo tre anni per la scuola secondaria. In questi tre anni è prevista una solida preparazione professionale, estesa anche ai licei ("Anche il liceo classico, accanto alla principale finalizzazione della propedeucità agli studi ulteriori, potrebbe assumere una connotazione anche professionalizzante"). L'anno, o l'anno e mezzo, che resta per costruire un più alto livello culturale non è certo sufficiente, ed è facile prevedere che a quest'obbiettivo non si porrà mano per niente. Il risultato, a dire il vero poco entusiasmante, è che ogni studente diventerà quello che oggi si chiama operaio specializzato (qualifica rilasciata oggi dai professionali, dopo tre anni di studi orientati all'acquisizione di una professionalità). Negli altri paesi, ci assicura Berlinguer, la formazione professionale è seguita da oltre il 50%, mentre da noi solo poco più del 23% si rivolge ad essa. Gli italiani, è vero, amano avere una formazione culturale elevata, e non a caso quando vanno a lavorare fuori ci fanno sempre una bella figura, a dispetto (ma io penso per merito) della 'troppa' teoria appresa. Il Ministro vuole allineare l'Italia, peccato che sia un allineamento verso il basso.

Consiglio vivamente al Ministro di chiedere ai docenti che insegnano nei professionali (e dico docenti, non presidi) quanto apprendono gli studenti. Io insegno al professionale e non posso usare la valutazione descritta sopra, quella di contare le parole insegnate che gli studenti hanno realmente compreso, perché il risultato viene regolarmente prossimo allo zero per tutti gli alunni, fatti salvi alcuni casi personali. Parlando coi colleghi, mi pare di capire che loro non ottengano di più. La mia opinione è che al professionale si apprende a lavorare, non lo nego, ma non si apprende nulla sul piano delle cortecce associative. Se tali cortecce sono superflue, ma non credo visto che caratterizzano l'uomo e il suo sviluppo, allora va tutto bene. Altrimenti va male, per gli studenti e per la società, molto male (8).

L'autonomia dei singoli istituti sul piano didattico è un concetto in aperto e palese contrasto con la scuola. Una disciplina scolastica insegna una lingua (Rif. 3 e Rif. 7), il cui valore è direttamente proporzionale alla sua diffusione. Apprendere bene una lingua locale è molto meno utile che apprendere male la lingua usata da tutti coloro che praticano quella disciplina, in tutto il mondo. Ogni avvicinamento alla realtà locale, purtroppo, è anche un allontanamento dal resto del mondo. A mio avviso con l'autonomia didattica ci si guadagana poco e ci si rimette tanto. L'autonomia didattica, invece, si addice perfettamente ad una scuola di avviamento al lavoro. Se il Ministro vuole andare in questa direzione, però, non dovrebbe poi dire che vuole elevare la preparazione media degli italiani.

Un po' di autonomia didattica c'è già oggi, implicita nel fatto che ogni professore e ogni scuola interpretano i programmi ufficiali. Quanto dev'essere essa domani non lo decide il Ministro, ma la situazione oggettiva. Le scuole, come le persone, aspirano a trovare aspetti comuni, validi per tutti. Dove l'accordo non è possibile, ognuno fa secondo i suoi bisogni. E' normale che sia così, ma non il caso di andarne orgogliosi. Io speravo che nella scuola del futuro ci fosse una diminuzione di autonomia, non per imposizione centrale ma per un maggiore consenso sugli aspetti fondamentali. Constato con dispiacere che si va in direzione opposta, verso una minore intesa. La scissione di un problema grosso in una serie di problemi piccoli è considerata dalla nostra cultura occidentale una soluzione di ripiego (la cultura orientale propende di più verso questo modo di aggiustare le cose, ma non è risultata una impostazione vincente, forse proprio perché mal si addice ad un mondo in forte movimento). Ma è come aggiustare una casa per starci meglio momentaneamente, evitando di rifarla. Il suo valore non aumenta dopo questi aggiustamenti locali, semmai diminuisce. Rifare una casa nuova, su basi solide, invece costruisce nuovo valore.

L'autonomia finanziaria porterebbe un vantaggio, se fosse vero che la scuola odierna va male perché gli istituti, e di conseguenza anche gli insegnanti, non sono adeguatamente motivati. Io penso che i mali stiano altrove, precisamente dove indicato nel capitolo precedente, per cui non vedo vantaggi nel fatto che ogni istituto curi direttamente i propri interessi. Semmai ci vedo il pericolo che si badi più all'immagine che alla sostanza. L'esempio delle cliniche private è eloquente. Solo un esperto può apprezzare che esse sono scarse come sostanza, mentre tutti vedono che sono ottime come arredamento. I direttori, giustamente dal loro punto di vista, si orientano verso le strutture che portano consenso. Chi vuol capire, capisca.

Non ho simpatia verso l'autonomia sui fini (cioè sui programmi), mentre ho molta simpatia verso l'autonomia sul modo di conseguire i fini. Questo principio, che ho messo alla base della didattica, vale per gli studenti e vale anche per gli Istituti: ognuno ha un modo, poco o tanto, diverso di organizzarsi il lavoro. Costringere tutti, ad esempio ad un certo orario, è cosa inutile e inefficiente. Poiché, inoltre, imporre un modo di lavorare si configura come imposizione di comportamenti, la non autonomia sul modo di lavorare determina forti attriti, che sfociano in demotivazione sia per gli studenti che per i docenti.

Dopo aver visto quanta distanza c'è tra la scuola che propongo io e quella ipotizzata dal Ministro, mi sono chiesto su che basi egli ha potuto fare le scelte che ha fatto. Io penso che egli, e i suoi consiglieri, si siano basati sugli esiti delle sperimentazioni e che il responso fornito da queste prove sul campo sia affetto da un errore tale da renderne i risultati del tutto inaffidabili. La sperimentazione di una idea sbagliata puo' dare esito positivo, perché, ad esempio, viene fatta in un clima che risulta esaltante per insegnanti e allievi. Ripetete lo stesso metodo in condizioni normali e darà esiti del tutto diversi. Io ho cambiato tante volte il mio metodo, sempre cercando di realizzare ciò che non era realizzabile in questa scuola. Il primo anno funzionava sempre. L'anno dopo, passata la novità, le stesse cose non davano più risultati. Per lo stesso motivo, la sperimentazione di una idea giusta puo' dare risultati deludenti, se fatta in un contesto ostile. Per tali motivi io chiedo a Berlinguer, e ai colleghi, di non fidarsi delle sperimentazioni e di basare le loro scelte su dati obbiettivi, come sono quelli relativi al funzionamento fisico del cervello.

Se le mie idee sul cervello sono giuste, per far funzionare la scuola non ci sarebbe bisogno di cambiare nulla, basterebbe cambiare il modo di precisare gli obbiettivi e il modo di valutare se essi sono stati conseguiti. Tempo un anno, e sia gli studenti sia gli insegnanti e studenti farebbero molto più di ora, perché è chiaro quello che devono fare e perché si vede perfettamente se fanno bene o male. Per questa riforma non servono nuove strutture o nuovi investimenti (almeno all'inizio), serve solo l'accordo di tutti sugli obbiettivi e sulle valutazioni. Ma un tale accordo non c'è, e non ci sarà finché non si troverà un accordo sul modo in cui funziona il cervello. Se questa strada vi pare troppo complicata, se vi pare normale quello che mi disse la preside l'anno scorso ("Cosa c'entra il cervello? Qui siamo a scuola, mica a medicina. Qui interessa la didattica") proviamo pure ad accordarci su un modo comune di comportarci. E ogni professore in ogni scuola si comporterà diversamente, perché ogni professore ha una classe diversa da quella di ogni altro suo collega e sarebbe drammatico se tutti si comportassero allo stesso modo. Cosa vale, allora, un accordo sul modo di comportarsi (qualunque esso sia)?

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  1. Ricordo che i neuroni sono le cellule del sistema nervoso e che esse sono fittamente interconnesse tra di loro. I collegamenti possono essere variati in ogni momento. La corteccia è lo strato più esterno del cervello, quello che comanda i comportamenti superiori. Le altri parti del cervello permettono alla corteccia di realizzare le sue funzioni. In un discorso limitato alle funzioni corticali, dove non interessa il modo in cui tali funzioni sono realizzate, il resto del cervello puo' essere ignorato.
  2. E' utile tenere presente che la corteccia è divisa in due parti: quella che riceve i segnali d'ingresso (unita d'ingresso o cervello dietro), e quella che comanda i muscoli (unita d'uscita o cervello davanti). Su ognuno di questi due mezze cortecce ci sono regioni, anatomicamente riconoscibili, poste su tre livelli gerarchici. Il collegamento gerarchico vuol dire questo: molti neuroni del livello più basso della corteccia dietro (neuronni primari d'ingresso, che ricevono i segnali dai sensi) convergono su un neurone di livello superiore (neurone secondario), e molti neuroni secondari convergono su un neurone di livello ancora superiore (neurone associativo). In uscita il discorso è simile, solo che qui il segnale percorre la gerarchia dall'alto al basso: il comando parte dalla corteccia associativa d'uscita (o corteccia associativa frontale, perché è giusto dietro la fronte). Ognuno di tali neuroni comanda molti neuroni secondari, ognuno dei quali comanda molti neuroni primari d'uscita, i quali comandano i muscoli.
  3. Sono opportune tre precisazioni. La prima è che risulta fisicamente più plausibile che sia l'attivazione di un neurone associativo a far venire in mente un pensiero, piuttosto che il contrario, in cui un oggetto non materiale, il pensiero, dovrebbe attivare un oggetto materiale come il neurone (ricordo che attivare significa far nascere un segnale elettrico sul neurone). Ai fini del funzionamento, però, non è importante stabilire se viene prima il pensiero o prima l'attivazione del neurone. La sola cosa importante è che pensieri e neuroni associativi sono collegati tra loro uno a uno. La seconda osservazione che volevo fare e' questa: i neuroni associativi comndabili dal soggetto col pensiero sono solo quelli della corteccia davanti. Quelli della corteccia dietro vengono attivati dalle parole udite o dalle parole pensate dal soggetto. La terza cosa da dire è che io parlo di neuroni per semplicità, anche se la vera unità di base è un modulo elementare, composto di molti neuroni che lavorano in blocco.
  4. Supponiamo che sia vera la mia ipotesi, secondo cui la corteccia associativa frontale (e, di riflesso,anche l'altra) sarebbe organizzata in regioni, ognuna delle quali definirebbe una lingua e una disciplina che parla quella lingua. Che senso fisico avrebbe la richiesta di superare la divisione del sapere in discipline? Le risposte possibili sono tre. La prima risposta è questa: si auspica un regresso ad una stadio infantile. Prima di andare a scuola, infatti, il bimbo ha una sola regione sulla corteccia associativa, un solo punto di vista, il proprio, e una sola lingua (è giusto la scuola che si fa carico di insegnargli altre lingue). Scarterei subito che si voglia proporre questo salto all'indietro. Una seconda possibilità è che qualcuno guardi alle cortecce assocative, che essendo condivise dalle varie regioni associative costituirebbero una unità non scindibile in parti. Una terza possibilità, che a mio avviso è quella auspicata da Berlinguer, è il sogno di realizzare una specie di disciplina delle discipline, una lingua capace di raccordare le varie lingue usate nelle diverse discipline. Fisicamente si tratterebbe di costruire una super-corteccia associativa, di livello più alto rispetto alla corteccia associativa organizzata in regioni (o discipline). Tale evoluzione, purtroppo, è improponibile sul piano fisico, per una serie di motivi che non è il caso di esaminare qui. Se si cercherà di di attuarla lo stesso si produrrà una pericolosa confusione linguistica (la stessa situazione che si verifica nel sonno, quando si sogna, e da svegli nei soggetti schizofrenici). Resta l'intenzione, che è ottima, spingendo verso conoscenze d'alto livello gerarchico e sconsigliando quelle di basso livello. Basta non pensare di attuarla saltando le materie, quanto invece conoscendole così a fondo e così estesamente da essere capaci di passare facilmente dall'una all'altra. Questo è il punto d'arrivo ottimale. Non si attua, però, eliminando le materie ma padroneggiandole.
  5. Precisazioni sui due apprendimenti. L'apprendimento di basso livello è lento e si basa sull'accumulo di dati effettuato dalla ripetizione di molti tentativi. Il soggetto non sa descrivere quello che ha imparato (per cui si parla di apprendimento inconscio o, con termine più moderno, implicito). Si vede che ha imparato perché sa ripetere quel compito più velocemente e con meno errori man mano che il numero di ripetizioni aumenta, per cui queste esecuzioni lasciano una traccia in memoria. Poiché questo tipo di apprendimento continua a funzionare normalmente anche in presenza di lesioni che rendono impossibile l'altro apprendimento, si è concluso che esso avviene in posti diversi della corteccia e/o con meccanismi diversi di fissazione della traccia. Le ricerche sono in corso, ma pare che l'apprendimento sia legato all'uso dei sistemi sensoriali e motori impegnati quando si esegue quel compito. (dati desunti da Kandel E. R. e Hawkins R. D., Apprendimento e individualità: le basi biologiche, articolo su Le Scienze, edizione italiana di Scientific American, n. 291, novembre 1992). Vediamo cosa aggiunge Kupfermann a questa descrizione. Tale apprendimento è automatico e "non dipende dalla consapevolezza, dalla coscienza o da processi cognitivi come il confronto e la valutazione". Esempi di apprendimento implicito sono l'apprendimento di abilità motorie (per esempio imparare a pattinare), e l'apprendimento delle regole grammaticali (dati desunti da Kupfermann I., L'apprendimento, un capitolo di "Principi di neuroscienze", Kandel E. R e Schwartz J. H, 1985,, edito dalla Casa editrice ambrosiana nel 1988). Quando un giovane andava in bottega ad apprendere il mestiere da un maestro, il suo apprendimento era in larga parte implicito. Nella scuola di oggi l'apprendimento implicito continua ad essere importante nelle scuole professionali, dove si dedica un discreto spazio ad attività di laboratorio. Chiamiamo scuola basata sul fare quella che punta soprattutto a produrre apprendimenti impliciti. Poiché nella scuola si può insegnare una professione anche senza fare laboratorio, chiamiamo scuola professionale di basso livello quella con molte ore di laboratorio (es.: le scuole professionali) e di alto livello quella con poche ore di laboratorio e tanta teoria (es.: università). I nomi si rassomigliano, ma gli apprendimenti conseguiti sono profondamente diversi tra loro. Chiamando scuola basata sulla parola quella orientata agli apprendimenti di alto livello, infatti, si vede subitoche il professionale è scuola basata sul fare, mentre l'università è scuola basata sulla parola. Mescolare i due ingredienti (facendo lezioni teoriche al professionale o laboratorio all'università) è lecito, confonderli tra loro no. Vediamo ora le caratteristiche dell'apprendimento di alto livello. La sua carattaristica più vistosa è la rapidità, potendosi verificare anche con una sola seduta di addestramento. Ma non cominciate a gridare al miracolo, in realtà sull'informazione nuova ci si ripassa tante volte prima di memorizzarla, proprio come per l'apprendimento implicito. Solo che ora il ripasso puo' essere interno, perche' il soggetto e' in grado di riattivare a suo piacimento quella situazione. La differenza e' tutta qui: l'apprendimento di alto livello e' un apprendimento di basso livello ripescabile volontariamente col pensiero (per questo viene anche chiamato apprendimento cosciente, o, con parola più moderna, esplicito). L'apprendimento esplicito è verbalizzabile. L'acquisizione e il richiamo di un apprendimento esplicito "dipende da una riflessione conscia e si basa su processi cognitivi, come la valutazione, il paragone e l'inferenza" (Kupfermann, libro citato sopra). E' importante capire che anche l'apprendimento di alto livello piazza nelle cortecce di basso livello i suoi contenuti, solo che essi sono agganciati alla corteccia superiore e, per questo, ripescabili a piacere. Possiamo dire che l'apprendimento esplicito è la parte rintracciabile, e riusabile volontariamente, di ogni apprendimento. Poiché lo si ripesca usando le parole, posiamo dire che è esplicito se è verbalizzabile. La scuola conosce bene l'apprendimento esplicito e lo chiama apprendimento con comprensione (abbiamo già detto che la scuola orientata a produrre questo tipo di apprendimento è basata sulle parole). Conosce bene anche l'altro apprendimento, ma gli attribuisce due nomi diversi a seconda della sua utilità pratica. L'apprendimento implicito non utile lo chiama apprendimento mnemmonico, quello spendibile professionalmente lo chiama apprendimento concreto.
  6. Alcune risposte ad alcune obbiezioni di uno studente (Ludovico Iommi). "Ho letto le prime pagine del documento "La scuola secondo il cervello" che è veramente interessante, ed è servito a chiarirmi molte cose. Non capisco però l'applicazione del tuo principio di insegnare le parole nelle materie scientifiche." Per capire che le parole non riguardano solo la materia Italiano, o comunque le materie umanistiche, bisogna fare un paio di precisazioni. La prima è che le parole usate dal cervello non sono solo le parole ma ogni atto che una persona è in grado di ripetere immutato (per esempio il gesto standardizzato usato da un sordomuto per indicare una cosa è una parola). La matematica, essendo costituita da concetti e procedure altamente standardizzate, è fatta di parole non meno di un'opera letteraria. La seconda precisazione è questa: sarebbe più opportuno parlare non di parole ma di chiavi di attivazioni, essendo la chiave quella cosa che permette di accedere ad una zona del cervello dove sono immagazzinati delle informazioni. Ho preferito il più familiare termine 'parola' perché le chiavi più economiche e più usate sono le parole, ma il cervello non maneggia né parole né simboli, solo neuroni che permettono di eccitare altri neuroni. Ogni cosa che si insegna a scuola è fatta di parole per due buoni motivi: 1) si insegnano procedure standard, cose che l'allievo può fare nello stesso modo in cui le fa l'insegnante, e queste sono parole per definizione; 2) se il professore è in grado di accedere ad una informazione memorizzata nel suo cervello, per proporla alla classe, essa evidentemente è raggiungibile usando una o più chiavi, e queste chiavi sono le parole, sempre per definizione. Del resto ogni materia scolastica ha un programma redatto a parole, e questo conferma che la parola non riguarda solo alcune materie, ma tutte. "In una materia come Analisi Matematica può essere sufficiente l'apprendimento delle parole che definiscono i principali concetti teorici, trascurando tutte le applicazioni pratiche e i procedimenti di calcolo? Non sono forse queste ultime indispensabili per fissare i concetti e comprendere quelli più complessi che ad essi fanno riferimento? E tutte le dimostrazioni dei teoremi rientrano nella capacità dello studente di saper spiegare le parole o negli apprendimenti di basso livello?". Io non propongo di insegnare le parole, ma di valutare l'apprendimento esaminando le parole che sono state comprese. Una parola non è niente di per sé. Visto che le parole sono, da un punto di vista fisico, delle chiavi d'accesso, pensiamo alla chiave che permette di accedere ad una casa. Il valore non è nella chiave ma nella casa. La chiave diventa un oggetto pregiato perché consente l'utilizzo di quell'oggetto pregiato che è la casa a cui dà accesso. Il contenuto di una parola, le informazioni a cui essa da accesso, sono tutte le applicazioni in cui quella parola è usata. Esse sono giusto le cose a cui fai riferimento tu. Chiedi: questi contenuti sono informazioni di basso livello? Risposta: sì, essi sono memorizzati nelle cortecce di basso livello. Cio' non vuol dire che non sono importanti, solo che non si può mettere in cassaforte la casa, mentre ci si mette la chiave di essa (o, meglio, le chiavi che consentono l'accesso alle singole parti della casa). Se poi una chiave apre non solo la propria casa, ma tutte le case di tutte le persone che hanno usato quella chiave, allora il valore preminente non è quello memorizzato nel proprio cervello e accessibile con quella parola, ma i contenuti memorizzati negli altri cervelli (e nei libri, che sono vere e proprie fotografie del cervello) e collegati con quella parola. Stabilito che allo studente non vanno proposte le parole ma i contenuti di esse, resta da capire come mai conviene valutare il suo apprendimento non tanto chiedendogli di riprodurre i contenuti quanto esaminando il possesso delle parole. C'è un motivo di opportunità e uno di sostanza. Vediamo il primo motivo. Come valuteresti tu il contenuto di un libro (poiché un libro è un pezzo di cervello memorizzato all'esterno, questa valutazione ha molto a che spartire con la valutazione che si fa a scuola)? Hai due strade per farlo. La prima è quella di leggerlo, da cima a fondo. E' ottima, ma non è affatto economica. La seconda è quella di esaminare il suo indice. L'estensione dell'indice indica fedelmente l'estensione del contenuto del libro, basta solo fare qualche controllo per capire quanto materiale c'è sotto ogni voce dell'indice (questo controllo è molto opportuno nel valutare un libro, mentre è superfluo nel valutare un cervello, dove la costruzione dell'indice è automatica e fatta con le stesse regole da tutti i cervelli). Ora basta aggiungere che gli indici del cervello, ovvero i sistemi di accesso ai suoi contenuti, sono memorizzati nelle cortecce associative (o cortecce superiori) e che essi sono parole, per capire il senso e l'importanza della valutazione a parole che propongo io. C'è un secondo motivo, più importante, per usare la valutazione a parole. Non interessa tanto sapere quante cose sa lo studente (nell'esempio sopra quanto è esteso il libro che ha in testa relativo ad una materia) ma quanta parte della lingua usata in quella materia è in grado di capire. Lo studente che ha appreso la lingua relativa ad un settore, può considerare come proprie conoscenze ciò che sanno tutte le persone che parlano quella lingua e che lui può raggionegere (personalmente, tramite i libri e, oggi, anche tramite Internet). Valutando le parole si valuta la parte strategica dell'apprendimento, valutando le cose che sa fare, invece, si fa una stima indiretta della sua capacità di padroneggiare la lingua di quella materia. Una stima può anche essere valida, ma nessuno lo garantisce, e ogni studente può pensare di essere stato valutato male, insistendo nei suoi errori. Oltre ad una attendibilità quasi assoluta, la valutazione a parole incoraggia l'insegnamento orientato alla lingua, mentre la valutazione corrente incoraggia l'insegnamento di dati concreti, tanto belli a vedersi quanto inutili di fronte a problemi nuovi. "Più in generale cosa intendi con il saper definizire una "parola": solo la capacità di saper spiegare a parole una parola o anche di saper esprimere con simboli e formule un concetto descritto da una parola?". Come decidere se una parola è stata compresa dallo studente? Ho detto sopra che il significato di una parola è l'insieme dei contenuti collegati ad essa (supponiamo che questo sia vero e rimandiamo ad un'altra puntata l'esame più preciso del modo in cui il cervello attruibisce i significati alle parole). Per indagare la comprensione di una parola si può andare a vedere i vari contenuti, ed è il modo in uso oggi, ma si può anche chiederne una definizione (meglio, però, due o tre, perché una si impara bene anche a memoria) che si accordi con essi. Costruire autonomamente un riassunto delle conoscenze che riguardano una parola è un processo molto complesso che porta ad un risultato semplice (anche trovare la soluzione di un problema porta ad un risultato semplice, ma per arrivarci da soli, senza copiare, bisogna risolvere un problema e se non si tiene conto di tutti i dati si troverà una soluzione che va bene in alcuni casi ma non in tutti i casi previsti dal problema). La copiatura è facilmente discriminabile, perché è decisamente improbabile che due persone usino per caso le stesse parole per definirne una, e perché solo chi ha ricavato la definizione dai suoi dati può riformularla in altro modo conservandone il senso giusto. Il controllo di una definizione è agevole anche per il professore, perché automaticamente il suo cervello inserisce la definizione proposta dallo studente all'interno di tutte le conoscenze che ha nel suo cervello e che riguardano quella parola. Se non si accende alcuna luce rossa, indicatrice di una conoscenza importante incompatibile con quella definizione, essa è accettabile. L'unica regola fissa da rispettare nel controllo della conoscenza di una parola è questa: la definizione proposta deve individuare quella parola distinguendola da tutte le altre (pare semplice, ma non lo è, provare per credere). Il risultato deve essere questo, il modo di conseguirlo dipende da tante cose e varia da materia a materia. Il professore di matematica sa come si individua un concetto di matematica, così come l'insegnante di storia sa come si individua un concetto di storia. Ogni materia ha la sua lingua e i suoi procedimenti, io non propongo certo di rendere le definizioni tutte uguali, solo di esprimerle nella lingua della materia. "E ancora tutte le applicazioni pratiche nelle varie discipline sono considerate apprendimenti di basso livello? Se sì, questi possono essere esclusi o tralasciati dall'attività didattica? Non si perde così lo sviluppo della capacità dello studente di sapersi rapportare in tempi brevi alla situazione contingente, la capacità di collegare i concetti acquisiti in modo da poter risolvere un'applicazione concreta? Nella mia facoltà (informatica, n.d.r.) la lamentela prediletta dello studente è quella di trascorrere i primi anni universitari a studiare concetti astratti di programmazione e ad apprendere modelli matematici prendendo contatto con la programmazione concreta, con lo sviluppo di algoritmi che risolvono un problema complesso, ed io sono un fervente sostenitore di questa tesi." Le applicazioni pratiche servono anche loro a costruire cortecce associative. Ma un conto è insegnare le cose con questo scopo, intercalando la teoria con esempi concreti solo quando necessario, un conto è considerarle lo scopo ultimo dell'insegnamento. Ogni studente vorrebbero arrivare subito alla soluzione dei problemi che incontrerà nella sua vita, professionale o privata. Il problema è che non si sa quali problemi gli riserverà la vita (abbiamo un cervello, a differenza delle piante, perché ci muoviamo in un ambiente molto variegato, se stessimo sempre nello stesso posto basterebbe saper risolvere i problemi presenti in quel posto e festa finita). Quando il problema che si presenta è diverso da quelli che si sa risolvere, non resta che spezzettare le proprie conoscenze e riusarle in modo diverso. Una persona non sa come questo venga fatto, sa solo che ad alcuni riesce meglio e ad altri peggio. Non è un caso che oggi la più diffusa definizione di intelligenza sia questa: "la capacità di superare le difficoltà in situazioni nuove" (dal Dizionario di Psicologia citato sopra). Io penso che venga fatto usando la corteccia superiore, dove ci sono le chiavi per accedere alle varie parti delle proprie conoscenze (le parole). Intelligenti non si nasce, visto che tali cortecce sono immature alla nascita, si diventa. Si può discutere quale base teorica dare ad uno studente, ma è fuor di discussione che non si possono insegnare solo soluzioni a singoli problemi. Una persona priva di basi teoriche può sapere anche più cose di una che ha 'perso' i primi anni studiando modelli astratti, ma non può usarle perché esse sono un blocco unico. L'esempio che faccio spesso è questo: si può memorizzare un testo in forma testuale, o come immagine. Oltre alla maggiore occupazione di memoria del testo memorizzato a punti, che non è un problema per il cervello avendo esso una memoria praticamente infinita, c'è una differenza fondamentale. Il testo può essere ripreso e modificato facilmente, riusandolo in altre occasioni. Modificare anche una sola lettera in un testo memorizzato a punti, invece, è un lavoro enorme, che poi non viene mai perfetto. E' più semplice rifare una immagine nuova che modificare la vecchia. Gli apprendimenti di basso livello, non collegati ad una base teorica, soffrono di questo non piccolo problema. Poi c'è il fatto detto sopra: attraverso la teoria non solo puoi maneggiare bolcchi già fatti da te, ma anche i moduli fatti da altri (e copiare, si sa, è molto più veloce che fare). Se hai tanta voglia di cimentarti coi programmi, perché non lo fai da solo? Se ti riesce, non hai bisogno di fare l'università. Altrimenti rassegnati a partire dalle basi.
  7. Capita spesso di sentire questa diagnosi: i giovani di oggi sono resi stupidi dalla televisione e dal bombardamento pubblicitario che impone loro i suoi voleri e i suoi interessi. Se sono vere le mie ipotesi sul cervello, le cose stanno molto diversamente. La televisione sarebbe l'effetto e non la causa del mancato apprendimento. In una fase storica in cui meno si cambia e meglio è, la televisione viene apprezzata perché da essa non si impara sicuramente nulla (non e' il caso di spiegare qui come mai, comunque si tratta di un problema di velocità del cervello). L'associazione tra televisione e disinteresse ad apprendere è giusta, ma la televisione non è responsabile di nulla. Il responsabile è il benessere. Ma si può dire che è male stare bene (e quindi non voler cambiare)?.
  8. Non ci si deve nascondere dietro la scusa che al professionale ci vanno gli studenti poco capaci, perché nel cervello non ci sono neuroni intelligenti e neuroni stupidi, solo neuroni. La verità è che al professionale vengono persone in ritardo di preparazione, alle quali viene detto che si può apprendere senza studiare, basta fare laboratorio. Dopo di che i professori possono fare molto o poco, ma il risultato non cambia: l'apprendimento a memoria di tecniche di lavoro funziona benissimo, d'apprendimenti a livello di cortecce associative manco a parlarne. Non dico che non bisogna impartire una preparazione professionale, dico però che bisogna farlo quando la corteccia associativa frontale è già sviluppata, in altre parole dopo aver frequentato una scuola vera, non al posto di essa.