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A scrivere per Tracciati si rischia 1) di essere ripetitivi rispetto al dibattito che si sta sviluppando in molte scuole e sulle diverse liste di discussione; 2) di annoiare lettori che sono già attivamente interessati e coinvolti e in genere sono più avanti rispetto alle parole che possiamo scrivere o URLare. Ma rispondendo a Gianni Salza che in un suo recente intervento su La Scuola scrive: "Sto chiedendomi se ognuno può dare un contributo concreto al cambiamento della scuola a partire dalla sua scuola", correrò il rischio di annoiare.
Se... Se il prossimo anno io non fossi tra i 30000 (oppure 15000 ma la cosa cambierebbe di poco) che saranno espulsi dalla scuola per risanare il bilancio dello Stato, per entrare in Europa, come si dice; se il clima relazionale in Istituto e in Classe, tra me e i colleghi, tra me e gli studenti, non fosse tale da avermi tolto ogni voglia di "rimboccarmi le maniche"; se il ministero decidesse di riconoscere alla riflessione SULLA DIDATTICA e sul mestiere di insegnante la qualifica di "aggiornamento" (e non mi obbligasse, per raggranellare il monte ore necessario al "passaggio di gradone", a frequentare corsi che o non mi interessano o non avranno ricaduta didattica o non mi aggiornano dal momento che io già conosco i temi, le metodologie, le tecnologie sui quali mi dovrei aggiornare); se il ministero riconoscesse ai fini dell'aggiornamento la partecipazione "documentata" alle liste di discussione; se il lavoro collaborativo che potremmo mettere in piedi sulla rete fosse riconosciuto e incentivato; se il ministero remunerasse in qualche misura il lavoro che ciascuno di noi è disposto a fare con professionalità e soprattutto con passione, ben oltre la "funzione docente" contrattata; se i Collegi dei Docenti riconoscessero qualche merito al lavoro che stiamo o vogliamo svolgere (sarò sorpassato o deamicissiano, ma ritengo che un: "wow, ho visto le ultime pagine del server... ho visto l'ultimo lavoro che avete fatto nella tua classe... che dici, lavoriamo assieme..." dei colleghi e del preside aiuterebbe). Se... allora sarò pronto a fare la mia parte. Sulla quale vorrei avviare su queste pagine una riflessione a voce alta... Oggi tutti rivendicano la flessibilità. Degli altri ovviamente. Dell'operaio, per esempio, il quale "deve capire" una volta per sempre che la società contemporanea può sì garantire il lavoro ma non il lavoro nel luogo di origine o di residenza. Del nostro interlocutore, al quale è richiesta la capacità di "comprendere" le nostre posizioni, di non essere dogmatico eccetera. Del giovane studente che fra poco si affaccerà al mondo del lavoro ma deve sapere che nella sua vita lavorativa dovrà essere pronto a cambiare più volte lavoro e luogo di lavoro e dunque deve essere adattabile e veloce nell'apprendere. Ecco, a questo punto, entriamo in tema, perché il compito di formare il nuovo "uomo flessibile" è affidato, manco a dirlo, alla scuola cioè a noi. Su di noi convergono spinte che pur provenendo da direzioni differenti muovono nella stessa direzione: lo svecchiamento e l'ammodernamento della scuola, delle metodologie così come dei contenuti. Rischiamo di esserne schiacciati se, non essendoci attrezzati a governare tali spinte, le dovessimo subire. Già oggi c'è la tendenza a scaricare sull'istituzione scolastica compiti e responsabilità che non sono suoi; proprio oggi ho sentito che dopo l'educazione sessuale o all'affettività, l'educazione alla pace, l'educazione alla legalità, l'educazione stradale, l'educazione musicale, l'educazione teatrale e cinematografica, toccherà alla scuola anche l'educazione a non tirare i sassi negli stadi e dai cavalcavia... La marea non si arresterà finché non ci feremeremo tutti, noi insegnanti per primi, a riflettere sulle competenze della scuola e sul nostro ruolo di insegnanti e formatori. Noi non abbiamo solo la scuola - ha detto una studentessa in Consiglio di Classe - io voglio andare al corso di chitarra e voglio avere per me almeno un paio di pomeriggi fra settimana per andare a spasso con il mio ragazzo...". Come darle torto? Anche noi, del resto, non abbiamo solamente la scuola, nei nostri impegni e nei nostri interessi. Invece oggi c'è la tendenza, tipica delle società di "antico regime" (suggerisce qualcosa questa annotazione?) ad aggiungere compiti e contenuti senza mai rivedere e togliere quelli vecchi. Così accade che gli studenti dell'Indirizzo Giuridico Economico Aziendale (IGEA) o del Brocca-Economico Aziendale trascorrano a scuola 35 ore settimanali alle quali vanno aggiunte diciamo due ore giornaliere per lo studio e un'ora (valore medio riferito agli studenti del mio Istituto) per andare e tornare da scuola. Sono 53 ore: francamente troppe! La maledizione della scuola si chiama "programma". Abbiamo creato un tabù, un Moloch di cui non riusciamo a liberarci. Il programma è intoccabile ed eterno. A parte piccoli aggiustamenti è sempre quello, uguale anno dopo anno qualunque cosa nel frattempo succeda fuori della scuola. E così accade che i saperi non si aggiornino, le metodologie non tengano il passo, la "preparazione" non corrisponda alle esigenze formative degli studenti e, perché no, del mercato del lavoro. Io credo che potremo liberarcene solamente distruggendo la sua sacralità. E qui sarebbe necessario un intervento legislativo... Aspettando che 'maturino le nespole' possiamo pensare di fare qualcosa da subito, qui ed ora? Possiamo fare qualcosa per cambiare questa scuola, seppure lentamente e faticosamente? Facciamo attenzione, l'alternativa è la "scomparsa" della stessa scuola pubblica. O sapremo aggiornarci, noi, i nostri saperi, i contenuti disciplinari, le metodologie, oppure si accentuerà il distacco tra questa scuola e i giovani studenti, le loro aspettative, la loro domanda formativa; tra questa scuola e la domanda formativa della società e in primo luogo di quel mercato che sembra improvvisamente diventato onnipotente (avete presente tutti quei bei discorsi sulla libertà di scelta della scuola, sulla scuola che è tutto servizio pubblico, sia la pubblica che quella privata? non avete avvertito un certo clima di scambio tra la riforma berlinguer, l'autonomia e il riconoscimento delle scuole private?). Il problema è nostro, nessuno verrà in nostro soccorso: questa scuola non ha preparato e forse non sa preparare, né intende farlo, i suoi insegnanti, e lascia l'aggiornamento alla buona volontà dei singoli. Il guaio è che molti insegnanti in assenza di imposizione, e in mancanza di motivazioni e spesso di sensibilità e di capacità pedagogiche, psicologiche e didattiche, accettano di ripetere pari pari i contenuti appresi a loro volta e le stesse metodologie. La scuola che si ostina alla didattica "gesso e lavagna" rifiutando le nuove tecnologie rischia di restare indietro rispetto ai suoi studenti, di sicuro non riuscirà a convincerli ad apprendere. Si badi bene, ho scritto: "apprendere" cioè assimilare, interiorizzare o qualunque altro termine vogliamo usare per indicare uno studio non finalizzato alla memorizzazione, peraltro episodica e temporanea, di contenuti e di formule che fa ottenere un "bel voto" ma non lascia alcun segno permanente. Lo studio non può risolversi in una lettura e neanche nella spiegazione del testo, come avviene di norma nelle nostre scuole. Certo, il libro scritto non è un ferro vecchio da buttare via con disprezzo. Al contrario, la scuola ha bisogno del libro di testo; deve però imparare ad usarlo al meglio: fare scuola dovrebbe essere qualcosa di più che leggere e commentare o anche spiegare il libro di testo. "Devo finire il manuale..." fa il paio con "devo finire il programma... i contenuti della mia materia sono organizzati in modo tale che si può procedere solo sequenzialmente...". Un aiuto potrebbe venirci dalle nuove tecnologie didattiche, a condizione che ne definiamo con esattezza gli ambiti, le potenzialità e i limiti. D'altronde la loro introduzione non è più una scelta ma una necessità che proviene dal mondo del lavoro (ma non è per questo che, almeno per quanto mi riguarda, me ne voglio occupare) e dagli stessi studenti, e ben presto saranno imposte dal ministero. Qualcuno ha scritto, in rete: "Se volete continuate pure a sperare nelle nuove tecnologie. Ma, per favore, non imponetele agli altri finché non siete proprio sicuri di essere dalla parte della ragione". No, non potremo mai essere sicuri di essere dalla parte della ragione; è certo tuttavia che di qui a qualche anno le nuove tecnologie ci saranno imposte. A noi scegliere se subirle oppure piegarle ai nostri fini, che sono formativi e informativi allo stesso tempo. Altrettanto chiaro è che tocca agli insegnanti che per interesse culturale o altro si sono avvicinati da tempo all'informatica e alla telematica, che ne hanno studiato e ne stanno sperimentando le potenzialità comunicative e informative, tocca a noi, in altre parole, guidare il processo di introduzione graduale e consapevole del computer, del modem, del data-display, del videoregistratore, della telecamera, del televisore, della (posso?) "filosofia" di internet. Qualcuno ha cominciato a disegnare la scuola futuribile (ma non tanto): una intranet in ogni scuola aperta verso l'esterno tramite internet; maxi laboratori rigorosamente in rete; aule e laboratori multimediali, le prime per farvi lezione utilizzando televisore, computer, lettore di cd-rom, gli altri per guidare gli studenti nella produzione di testi e ipertesti; un computer in ogni aula perché si possano consultare gli archivi ogni volta che serva, dalla biblioteca al software didattico (cd-rom e ipertesti, in primo luogo), dai documenti della segreteria ai verbali dei Consigli di Classe; possibilità di collegarsi in videoconferenza o in "chat"; eccetera eccetera. Tuttavia le nuove tecnologie sono costose per cui prima occorrerà avere ben chiaro alcune cose.
Qui mi fermo ma ripromettendomi di riprendere il filo della riflessione nei prossimi "tracciati". A condizione che voi siate d'accordo (potete fischiarmi, volendo; mi trovate a: Giovanni Tozzi oppure a ITCS Riccati - TV ). |