Modelli culturali di diffusione delle lingue straniere

di Lucio Izzo

 

La conoscenza di una o più lingue straniere rappresenta oggi, nell'ambito di quel fenomeno definito ormai comunemente globalizzazione (in primo luogo dell'economia, ma necessariamente di molti altri aspetti della vita sociale, a partire dalla comunicazione) uno degli aspetti più rilevanti delle competenze di base indispensabili per sviluppare una piena professionalità in ogni attività lavorativa. Constatato il fatto che l'inglese è attualmente la lingua di comunicazione internazionale più diffusa, non bisogna dimenticare che diverse altre lingue svolgono una funzione analoga, sia in rapporto a specifiche aree geografiche sia su scala mondiale. Inoltre il desiderio di molti operatori economici di raggiungere determinati mercati, per esempio quello iberoamericano, costituisce un'ulteriore motivazione verso lo studio di lingue straniere diverse dall'inglese. La combinazione di questi fattori ha fatto sì che in questi ultimi anni la domanda di corsi di lingue sia cresciuta enormemente provocando una conseguente espansione e differenziazione dell'offerta.

E' evidente che sarebbe estremamente riduttivo pensare all'apprendimento e all'insegnamento delle lingue straniere in termini di mero marketing e di una logica di opportunità economica. Ogni lingua esprime la cultura che la produce e la sua conoscenza e diffusione rappresenta, in una logica pluralista, un fattore di arricchimento per tutti. Si tratta dello stesso principio che la biologia ha evidenziato: una maggiore varietà delle specie animali e vegetali garantisce loro una migliore possibilità di adattamento all'ambiente e dunque di sopravvivenza. In questo senso è la natura stessa che tende alla diversificazione e alla specializzazione.

Che fare dunque per mantenere questa pluralità in ambito culturale? E' necessario perseguire una politica di diffusione delle varie lingue. Una lingua infatti non è soltanto un sistema fonetico e grammaticale: è appunto la cultura stessa dei popoli che attraverso di essa si esprimono. La lingua rappresenta tale cultura così come è percepita dai parlanti nativi, ma anche come è percepita dagli stranieri.

Quest'opera di divulgazione è portata avanti dalle istituzioni pubbliche di vari paesi (come gli istituti di cultura) e da quelle private e, nell'ambito dei diversi sistemi scolastici, dai docenti di lingua. Lo studio e la conoscenza dei modelli culturali di diffusione delle lingue straniere offre oggi la possibilità di intervenire nelle politiche culturali messe in atto dagli enti che operano nel campo della promozione all'estero e offre ai docenti la possibilità di elaborare strategie più efficaci per l'insegnamento della lingua stessa, con particolare riferimento alla presentazione delle realtà culturali e all'intervento sulle motivazioni degli studenti.

Come rileva la linguistica, non esistono lingue difficili e lingue facili da imparare, ma ci sono da un lato eventuali barriere o facilitazioni soggettive proprie di ciascuno studente (per esempio affinità fonetiche o grammaticali della lingua straniera con la propria lingua madre) e soprattutto ci sono le influenze derivanti dai modelli culturali di ciascuna lingua. L'approccio allo studio di questi modelli qui proposto è di tipo interdisciplinare, ed è mutuato da quello utilizzato dai cosiddetti Cultural Studies anglosassoni. Esso si avvale ampiamente degli apporti delle scienze umane ed in primo luogo della sociologia, dell'antropologia e della semiologia. Anche le discipline storiche contribuiscono alla comprensione dei fenomeni in questione, dato che la nozione di identità culturale, considerata centrale in questo approccio, va studiata in una prospettiva tanto sincronica che diacronica.

Ma che cosa sono esattamente i modelli culturali di diffusione delle lingue straniere? Quando si parla di modelli culturali di diffusione delle lingue straniere ci si riferisce allo status di una lingua presso un gruppo omogeneo di parlanti nativi di un'altra lingua ed alle dinamiche secondo le quali tale status viene in essere, si modifica, ma soprattutto agisce. In altri termini ci si riferisce all'opinione che di una determinata lingua hanno gli stranieri e al modo in cui essa influenza l'atteggiamento della gente nei confronti della lingua stessa. Questa opinione comprende un giudizio funzionale sulla sua utilità, uno apparentemente estetico sulla sua "bellezza" e un giudizio globale sulla cultura di cui la lingua straniera è portatrice. In realtà il giudizio estetico è direttamente derivato da quello globale che costituisce l'elemento portante nella determinazione dello status. Ciò è evidente se si considerano alcuni diffusi luoghi comuni. Se chiediamo ad uno straniero cosa pensa dell'italiano la prima cosa che dirà è che la nostra è una lingua "musicale e armoniosa", mentre del tedesco probabilmente dirà che è una lingua "aspra e marziale". E' evidente che al di là di alcuni indubbi riscontri fonematici, queste definizioni sono soprattutto condizionate dagli stereotipi culturali formatisi nel corso degli ultimi due o tre secoli. Così l'italiano viene considerato "musicale" essenzialmente perché è associato con la tradizione di bel canto (che per molti identifica la nostra civiltà più recente) che dal melodramma rinascimentale arriva fino alle canzoni del Festival di Sanremo, tradizione che trova nell'opera lirica la sua forma più universale (con l'appendice della canzone napoletana). Si dimentica invece che una lingua foneticamente molto simile all'italiano, il latino, è stata la lingua marziale di Roma e delle sue legioni. Analogamente la percezione del tedesco come stentoreo e militaresco deriva da una certa immagine della civiltà germanica legata al militarismo prussiano, mentre ai più sfugge la ricca tradizione di pensiero filosofico che attraverso la lingua tedesca si è espressa per secoli, per non parlare poi di quella musicale e canora che con Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, Wagner, Mendelsohn e tanti altri rivaleggia proprio con quella italiana. Ugualmente per comprendere come mai il francese venga spesso definito lingua "elegante e raffinata" non occorre scomodare Voltaire ed i suoi esprits de geometrie e de finesse, ma è sufficiente considerare i luoghi comuni (con tutta la carica di verità sia pure parziale che possono avere) sulla "moda di Parigi" che echeggiano in tanti vecchi film americani e più in generale sulla ricercatezza di stile di vita e sullo stereotipo di buone maniere attribuiti ai francesi.

Definito lo status culturale di una lingua bisogna precisare che anche se in teoria esso può variare da popolo a popolo, (per esempio l'idea del Giappone e del giapponese che hanno gli italiani è per molti versi diversa da quella che ne hanno altri popoli asiatici) di fatto esistono degli stereotipi culturali ormai universali che si sono formati in Europa e poi negli Stati Uniti e si sono diffusi nel mondo secondo una dinamica di tipo cognitivista. Occorre ricordare inoltre che il concetto di gruppo omogeneo, introdotto all'inizio, varia a seconda della scala considerata. Omogeneo può essere, su grande scala ad esempio in Europa, l'insieme dei parlanti le lingue neolatine rispetto a quelli parlanti lingue germaniche o slave. Omogeneo è, su scala più ridotta, l'intera popolazione che condivide una data lingua. Ma esistono altri criteri di omogeneità, verticali o orizzontali, all'interno di ciascun gruppo linguistico, di cui i più comunemente impiegati a fini analitici sono quelli dell'età e della condizione sociale. E' chiaro che più ampio è il criterio considerato per definire il gruppo, meno accurata risulta la definizione dello status e viceversa.

Come si determinano gli status delle varie lingue? La loro creazione dipende direttamente dalle circostanze storiche che accompagnano lo sviluppo di una civiltà e dalle modalità della sua diffusione. Per questo motivo tali modelli sono stati e sono ancora numerosi e molto diversificati. E' tuttavia possibile riunirli in alcune categorie generali: in questo articolo saranno illustrate sinteticamente le varie dinamiche della loro formazione utilizzando l'esempio delle tre lingue europee più diffuse nel mondo, l'inglese, il francese e lo spagnolo. (Tra le lingue extraeuropee il cinese, che è in assoluto la lingua più parlata, e l'arabo contano un vastissimo numero di parlanti. Queste due lingue però sono prevalentemente parlate come lingua materna da popolazioni in grande maggioranza concentrate in una specifica area geografica, laddove le tre lingue menzionate sono ampiamente diffuse su scala planetaria come seconda lingua o come lingua straniera di comunicazione).

Fin dall'antichità le lingue si sono diffuse essenzialmente in due modi: per spostamenti massicci della popolazione di madrelingua o per contatti economici.

Nella prima tipologia rientrano tutte le forme di espansione territoriale ed in primo luogo le conquiste militari e la colonizzazione. Nella seconda rientra il propagarsi di una lingua su vasta scala grazie ai commerci (è quanto è successo per esempio alcuni secoli fa all'arabo ed al portoghese nell'area dell'Oceano Indiano) o più raramente grazie al suo prestigio culturale magari retaggio di precedente grandezza politico-militare (è quanto avvenne per esempio alla lingua greca nell'impero romano). Lo studio delle lingue straniere, come lo si intende oggi, appartiene alla seconda tipologia legato com'è a motivazioni economiche e in subordine culturali.

Lo status attuale delle lingue europee ed in particolare del francese, dell'inglese e dello spagnolo si delinea nel XVII secolo in seguito alla massiccia colonizzazione delle Americhe. Si tratta di una colonizzazione cosiddetta di popolamento, in cui vaste masse di popolazione si trasferiscono nelle colonie, divenendone la maggioranza o la totalità degli abitanti. Questo genere di colonizzazione ha prodotto delle comunità che, pur appartenendo a tutti gli effetti all'area linguistica del paese di provenienza, hanno sviluppato delle varianti proprie. E' il caso dell'American English e delle varianti di inglese parlate in Canada, Australia e Nuova Zelanda, dove la colonizzazione seppur più recente si è svolta secondo le stesse modalità.

Tale modello di diffusione è importante per il mondo anglofono e per quello ispanofono, ma ha ormai scarsa importanza per la francofonia. Infatti con l'eccezione del Quebec non esistono aree rilevanti dove il francese sia prima lingua di una comunità di origine europea che possa costituire un'alternativa culturale al modello europeo della francofonia. Si può citare come una curiosità la Louisiana dove una variante di francese sopravvive alla stregua di dialetto locale il cui uso è peraltro limitato ad una ristretta cerchia familiare. La causa storica di questa situazione sta nella vendita o nella perdita delle colonie francesi in America a favore dell'Inghilterra avvenuta in gran parte tra la seconda metà del settecento e la fine dell'era napoleonica. La conseguenza è che oggi lo status dell'inglese e quello dello spagnolo sono legati a più centri di irradiazione culturale laddove quello del francese è ancora strettamente legato alla Francia stessa e in misura minore agli altri paesi francofoni d'Europa. Comunque, nonostante il declino coloniale, lo status del francese in Europa e nel mondo si è mantenuto alto, tanto che fino a tutti gli anni '50 del nostro secolo il francese è stata la prima lingua di comunicazione nel mondo. Per datare il passaggio del testimone tra inglese e francese in questa funzione basta osservare quale sia la lingua ufficiale delle organizzazioni internazionali: tutte quelle nate prima del secondo conflitto mondiale "parlano" francese, per esempio l'Union Postale Universelle fondata alla fine dell'Ottocento o la Società delle Nazioni sorta dopo la Prima Guerra Mondiale. A partire invece dalla nascita delle Nazioni Unite nel 1945, il francese diventa solo una delle sei lingue ufficiali accanto all'inglese, al russo, al cinese, allo spagnolo e all'arabo. Peraltro anche nell'ambito delle Comunità Europee nel corso degli anni il francese è stato affiancato dall'inglese nella funzione di lingua di lavoro, essendo comunque ufficiali tutte le lingue dei paesi membri. Esiste però un altro aspetto dell'evoluzione dei modelli culturali di diffusione delle lingue europee, con un potenziale non ancora pienamente sfruttato nel caso della francofonia, costituito dall'eredità lasciata dalla seconda colonizzazione avvenuta tra Settecento e Ottocento essenzialmente in Africa e Asia.

Questa colonizzazione, messa in atto da parte di diversi paesi europei, fu diversa dalla precedente e mirò non al popolamento ma al controllo economico e militare dei paesi colonizzati ad opera di un numero ridotto di persone inviate dalla madrepatria. Costoro costituivano un'élite generalmente poco interessata ad integrarsi con le popolazioni conquistate. Una parziale eccezione a questo modello fu l'Algeria dove la componente francese ed europea fu numerosissima e diede vita ad una ampia comunità di popolamento. L'eredità linguistica e culturale lasciata in questo tipo di colonie, quasi del tutto scomparse tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli anni '60, consiste principalmente nel mantenimento della lingua degli ex colonizzatori come seconda lingua accanto agli idiomi locali. E' quanto si può osservare nella maggior parte dell'Africa divisa tra francofoni e anglofoni, con poche eccezioni quali le ex colonie portoghesi di Angola e Mozambico, qualche enclave spagnola, o le ex colonie italiane dove ancora la nostra lingua è alquanto diffusa sia pur non a livello di bilinguismo ufficiale. In altre aree del mondo i nuovi stati hanno rinunciato alla lingua dei vecchi colonizzatori a favore dell'inglese, per esempio nell'ex Indonesia olandese e in parte dell'ex Indocina francese, sia per motivi di reazione nazionalista sia per semplice opportunità economica. Nella maggioranza dei paesi di seconda colonizzazione lo status di seconda lingua dell'inglese o del francese è sancito ufficialmente per legge e il suo apprendimento è obbligatorio. Ai fini della nostra analisi questi stati sono assimilabili ai paesi di madrelingua. Infatti lo studio della seconda lingua non è frutto di scelta ed essa è diventata parte della cultura nazionale al punto da dare origine a vere e proprie varianti locali specie per quanto concerne l'inglese. E' il caso dell'Indian English a cui autorevoli custodi della lingua inglese quali sono i redattori dei maggiori dizionari britannici riconoscono ormai piena autonomia e dignità.

Ma l'aspetto più interessante ai fini della comprensione delle dinamiche culturali che presiedono alla diffusione delle lingue emerge se ne osserviamo lo status in paesi non legati da vincoli di colonizzazione o di conquista. Un buon esempio è lo status del francese nei paesi del Mediterraneo Orientale e del Medio Oriente. In quest'area, se si eccettua il mandato che la Società delle Nazioni attribuì alla Francia sull'attuale territorio del Libano e della Siria e che ebbe una durata relativamente breve (tra il 1918 e il secondo dopoguerra) la diffusione del francese è legata tradizionalmente a ragioni di prestigio culturale. Fin dal XVII secolo, ma in realtà già da epoche precedenti, i rapporti tra Francia e Impero Ottomano furono intensi e cordiali al punto che per molto tempo il Re di Francia costituì il miglior alleato del Sultano di Costantinopoli. Del resto la cultura francese è ricca di tracce di questi legami, basti pensare a Montesquieu e a un certo filone successivo di studi orientalistici e di letteratura esotica di ambiente mediorientale. La decadenza e la fine dell'impero ottomano e i mutati equilibri nel continente europeo non hanno modificato fin quasi ai nostri giorni lo status del francese nell'area. In Egitto ancora alla fine degli anni '60, e in parte ancora oggi, il francese costituiva la prima lingua per la media e l'alta borghesia alquanto numerose di quel paese. Si verificava insomma, su scala più ampia, una situazione simile a quella della corte zarista settecentesca dove il francese era la lingua domestica dell'aristocrazia e il russo era riservato ai rapporti con i subalterni. Questa situazione in Egitto è testimoniata dall'uso di molti termini francesi passati anche nel lessico comune degli strati più poveri e da una ricca produzione cinematografica dello stesso periodo, in cui uno stile di vita "alla francese" è proposto e raffigurato come segno di sicuro successo mondano. Ugualmente in Turchia il francese è ancora la lingua delle classi medio-alte che si formano in gran parte, come in molti paesi dell'area, in locali scuole francesi. Inoltre le comunità arabo-cristiane del Medio Oriente hanno fatto del francese quasi un seconda identità. In questa linea di continuità e di presenza nella regione la Francia mantiene oggi numerosi istituti di cultura. Basti pensare che nel solo stato di Israele e nei territori autonomi vi sono ben quattro centri, alcuni dei quali in località piuttosto piccole.

Mantiene dunque il francese in questa regione tutto il suo antico prestigio e il potere di penetrazione di fronte all'avanzare dell'inglese? Non completamente. Anche in Medio Oriente la tendenza mondiale si fa sentire. Il modo in cui ciò avviene è illuminante sulle dinamiche culturali e sulle prospettive che il francese come altre lingue ha di mantenere e migliorare le proprie posizioni.

Diversi studi sul bilinguismo sono stati condotti da ricercatori dell'Università di Tel Aviv (Ben-Rafael et al. 1989, 1990, 1991, 1994), in particolare tra le famiglie e gli studenti delle scuole israeliane per comprendere le loro motivazioni nella scelta della lingua straniera. La composizione della società israeliana è alquanto complessa. Nel paese vi sono attualmente circa un milione di arabi e circa cinque milioni di ebrei a loro volta suddivisi in due grandi gruppi: i sefarditi e gli aschenaziti. Gli ebrei aschenaziti sono quelli che provengono dall'Europa dell'Est e in primo luogo da Russia, Polonia e dagli ex territori dell'impero asburgico. I sefarditi sono invece quelli provenienti dai paesi del bacino del Mediterraneo, ma anticamente originari della Spagna da cui erano stati espulsi nel 1492. Accomunati poi ai sefarditi sono i cosiddetti ebrei Orientali, provenienti dal Medio Oriente non mediterraneo (Iraq, Iran, Yemen, Oman, Arabia Saudita ecc.). L'omogeneizzazione sociale di queste componenti etniche diversissime tra di loro è passata attraverso l'omogeneizzazione linguistica avvenuta con l'apprendimento dell'ebraico moderno che è la lingua ufficiale del paese. Esso in effetti è stato praticamente ricreato come lingua parlata alla fine dell'Ottocento sulla base della lingua scritta dei testi della tradizione. Tuttavia, accanto all'ebraico, gli immigrati di prima generazione hanno mantenuto in famiglia e tra di loro l'uso delle lingue dei paesi di provenienza o dell'yiddish e del ladino due lingue franche parlate rispettivamente all'interno delle comunità aschenazite e sefardite. La collocazione dei sefarditi è stata nel passato in qualche modo subordinata a quella degli aschenaziti in quanto questi ultimi, più ricchi e provenienti da nazioni tecnologicamente più avanzate, hanno imposto la loro leadership nel paese fin dalla sua fondazione. Il francese è molto più diffuso tra gli arabi e tra i sefarditi che provengono in maggioranza dal Nord Africa francofono, dalla Siria, ma anche da Bulgaria, Grecia e Turchia dove il francese aveva lo stesso status che in Egitto e dove era stato studiato presso l'Alliance Française come mezzo di modernizzazione.

Le ricerche in questione miravano a verificare l'influenza del gruppo etnico nella scelta della lingua straniera a scuola. L'ipotesi iniziale era che l'incidenza di studenti sefarditi tra coloro che sceglievano il francese fosse più alta dato il vantaggio offerto dal fatto che tale lingua era già parlata da altri membri del nucleo familiare. L'ipotesi però si è dimostrata non rispondente al vero. Infatti solo il 10% degli studenti di francese risultava provenire da una famiglia sefardita. Al contrario molti studenti sefarditi dichiaravano di non aver scelto il francese per sottolineare una rottura con la loro tradizione familiare e con lo status sociale e culturale dei sefarditi. A conferma di questa tendenza vi è un altro dato proveniente dall'analisi delle condizioni sociali delle famiglie degli intervistati che studiavano francese: circa il 70% di essi era di estrazione medio-alto borghese e di questi la metà con genitori liberi professionisti. Un altro 14% era figlio di impiegati pubblici o privati e solo il 16% veniva da strati meno abbienti. Molto interessante è anche il dato del profitto scolastico degli alunni: ben il 67% di quanti avevano scelto il francese aveva un profitto in tutte le materie molto più alto della media.

Questi dati sembrano dunque dire che il francese in Israele rappresenta una lingua per privilegiati piuttosto che per le masse. Per ottenere conferma e per valutare più oggettivamente lo status delle due lingue a confronto, è stato chiesto a tutti gli studenti, di francese e di inglese, nella scuola dell'obbligo (che in Israele finisce a sedici anni) quali fossero le motivazioni della loro scelta e che tipo di immagine associassero alle due lingue.

I risultati sono stati molto chiari: fra coloro che studiavano francese il 90% ha dichiarato di averlo scelto liberamente e al di fuori degli obblighi curriculari. Però, ed è molto importante, nessuno di essi considerava il francese come mezzo di acquisizione di conoscenze tecnologiche o di informazione scientifica (al contrario dell'inglese). Pochi sono stati motivati da un interesse per la cultura francese associata per il 53% con la gastronomia, per il 17% con la moda, per l'8% con interessi turistici e per il 6% con atmosfere romantiche e sentimentali. In particolare tra il 10% di sefarditi quasi nessuno ha dichiarato di volerlo usare per mantenere o ravvivare rapporti con le comunità d'origine. La motivazione principale per la scelta del francese è legata ad una generica nozione di "capitale culturale". Infatti più dei due terzi degli studenti e delle loro famiglie sono convinti che la conoscenza del francese sia un segno di istruzione e di distinzione sociale e per il 50% lo ritengono un mezzo di comunicazione a livello internazionale. Insomma parlare francese è percepito dalle classi medio-alte come uno status symbol.

Al contrario l'inglese è considerato da ogni ceto come una lingua indispensabile per acquisire e migliorare conoscenze scientifiche, tecnologiche e professionali e per migliorare la propria situazione lavorativa ed economica. Inoltre, man mano che l'età degli intervistati diminuisce, l'inglese è considerato come la lingua internazionale per eccellenza, non solo utile, ma indispensabile per approfondire i rapporti col "mondo". Simili risultati si sono avuti in sondaggi tra gli studenti universitari e tra quelli di altri paesi dell'area mediorientale.

Che cosa emerge allora da questo confronto tra inglese e francese in Medio Oriente? Che lo status culturale del primo coinvolge ogni aspetto (cultura, comunicazione, informazione, apprendimento, divertimento) in maniera tale che non è possibile identificarlo con un elemento in particolare. L'unica caratterizzazione stereotipa dell'inglese può essere data dal termine "indispensabile" e da quello di "lingua universale". Al francese viene invece riservato lo status di lingua "superflua", bella e decorativa, la cui utilità, proprio in quanto oggetto di lusso è evidente solo ai più privilegiati. Tradotto in termini più oggettivi ciò significa che il francese nella maggior parte del mondo è ormai diventato soprattutto lingua di cultura, come l'italiano. Certo all'italiano sono associati elementi più specialistici relativi ad alcuni settori di studio: la musica, le belle arti e più recentemente gastronomia e design, mentre al francese si attribuisce un valore più generale per accedere ad una quota di sapere non scientifico.

Esiste poi tra le maggiori lingue europee un modello di diffusione parzialmente diverso, quello dello spagnolo, a cui si è accennato all'inizio e che nella situazione attuale costituisce un'utile anomalia che può fornire un esempio di strategie di valorizzazione e promozione di una lingua straniera. Il fenomeno della crescente espansione dello studio dello spagnolo a livello mondiale è infatti anomalo se si considera che non si è verificato un sostanziale corrispondente mutamento dello status politico-economico dei paesi di lingua spagnola. Per capire cosa sia avvenuto occorre ancora una volta riandare alla formazione dell'attuale status culturale dello spagnolo. In primo luogo va notato che, come l'inglese, lo spagnolo si è diffuso nel corso della prima colonizzazione, quella di popolamento, nell'America centrale e meridionale. A differenza però di quanto è successo nelle colonie britanniche, le popolazioni autoctone non sono state soppiantate ma piuttosto assorbite da una popolazione ispanica non numerosa come quella anglosassone affluita in Nord America. Inoltre in alcuni paesi come l'Argentina la successiva immigrazione massiccia da altri paesi europei, ha ulteriormente diluito la componente propriamente iberica. Questi due elementi uniti alla decadenza della Spagna nei secoli XVIII e XIX, hanno portato alla precoce nascita di caratteri nazionali nelle colonie spagnole ancor prima dell'indipendenza ottenuta da esse durante l'Ottocento tanto che, nel corso di quel secolo, in tale area fu probabilmente maggiore l'influenza culturale della Francia che quella della Spagna. La lingua spagnola parlata nei paesi latino-americani ha acquisito da molto tempo caratteri propri ed anzi si sono ormai definiti all'interno dell'America Latina ulteriori aree dalle caratteristiche ben distinte. In questo contesto il rilancio della lingua spagnola nasce da ragioni economiche sia pure di segno opposte a quelle dell'inglese. Nel corso degli anni '60, '70 ed '80 il tradizionale flusso migratorio di lavoratori dal Centro America verso gli Stati Uniti ha raggiunto proporzioni massicce tanto che ormai in alcuni stati come la Florida, il Texas e la California le comunità ispaniche costituiscono le minoranze linguistiche più consistenti e in alcune contee persino la maggioranza della popolazione. La lingua spagnola si è affiancata all'inglese come lingua ufficiale in California e Florida ed è comunque presente nelle scritte e negli avvisi ufficiali di tutte le grandi città americane. Questo bilinguismo di fatto ha ricevuto un forte impulso anche da quanti, per motivi commerciali, cercano di conquistare l'enorme mercato costituito dagli immigrati. Tale situazione unita anche al tradizionale interesse degli Stati Uniti verso l'America Latina ha fatto sì che lo spagnolo diventasse la prima lingua straniera studiata in Nord America. Più importante ai fini della nostra analisi è il fenomeno "di ritorno d'immagine" che si è prodotto e che è stato tempestivamente ed efficacemente incoraggiato dalle autorità spagnole. Esse, sull'onda del rinnovato interesse, hanno avviato una politica di rilancio delle proprie istituzioni all'estero e dell'immagine della Spagna come centro di irradiazione di cultura ispanica. Le iniziative vanno dalla creazione di un sistema di certificazioni linguistiche alla creazione di istituzioni di coordinamento per la promozione culturale che includono tutti i paesi di lingua spagnola. Utilizzando ogni spinta disponibile, dall'interesse turistico per le civiltà precolombiane a quello naturalistico, la Spagna ha saputo rilanciare il proprio ruolo insieme a quello dei suoi partner latino-americani rinunciando ad un atteggiamento di superiorità nei confronti delle ex-colonie ed ha in tal modo modificato positivamente lo status della lingua spagnola oggi associata, a livello di massa, ad una varietà di elementi multiculturali che vanno dal flamenco e dalla corrida alle civiltà indie, dal tango e dal futbol argentino ai paradisi tropicali dei Caraibi, ma passano anche per il realismo magico della letteratura sudamericana, per l'arte di Botero e per il nuovo cinema spagnolo e latino-americano. (Il mondo della pubblicità che ben conosce da decenni la dinamica degli status culturali e se ne serve in maniera volgarizzata per reclamizzare i prodotti, offre proprio in questo periodo tre esempi di tale policentrismo culturale dello spagnolo: un liquore al carciofo legato alla Spagna e al flamenco, una bevanda analcolica legata alla supposta flemma messicana tutta sombrero e poncho e una marca di calze da donna che ha utilizzato un noto attore spagnolo ed una modella argentina, prima associandoli ad un'immagine rurale genericamente sudamericana e poi ad una America ultramoderna e ipertecnologica ma ispanizzata che potrebbe essere California o Florida).

Un fenomeno analogo si è verificato per l'italiano. Nell'ultimo secolo esso è stato considerato da una parte lingua di altissima cultura per ristrette élite, legata a precisi fenomeni culturali (per esempio l'antichità classica, il Rinascimento, l'opera lirica, il cinema neorealista) e dall'altra, specie per le masse meno acculturate, lingua un po' esotica di emigranti ottocenteschi portatori di valori e organizzazioni sociali più o meno desueti. Chi non ha mai incontrato con disappunto, magari al cinema, l'iconografia dell'italiano tutto baffi e maccheroni che gesticola in maniera poco probabile? D'improvviso verso la fine degli anni '70 la situazione è cambiata grazie all'opera di quelli che la civiltà italiana può ormai considerare tra i propri rappresentanti più accreditati nel mondo: i creatori di moda. Armani, Versace e tutti gli altri, contribuendo a lanciare quello che è ormai conosciuto universalmente come il "fenomeno del Made in Italy", hanno ridefinito lo status dell'italiano che è studiato ora anche da uomini d'affari, imprenditori e tecnici. L'italiano è oggi la lingua di un paese identificato dalle masse straniere per il suo buon gusto, la capacità di produrre ed esportare uno stile di vita che include quanto c'è di meglio dal cibo all'arredamento, dall'architettura all'abbigliamento, e connotato da una capacità creativa e innovativa in grado di applicarsi ad ogni settore della produzione industriale. Le nostre istituzioni culturali all'estero hanno colto e sostenuto questa tendenza riuscendo a utilizzarla per rilanciare con grande successo, sia in termini qualitativi che quantitativi, anche gli altri aspetti della nostra civiltà meno noti al grande pubblico straniero.

In conclusione occorre porsi una domanda: partendo dall'analisi dei modelli culturali è possibile elaborare delle strategie per la promozione di una lingua o bisogna rassegnarsi a subire le tendenze imposte dalla congiuntura internazionale?

Certo esistono fattori di natura economica e politica da cui non si può prescindere, ma che possono essere adoperati come volano per valorizzare una lingua e la sua cultura anche quando sono di segno negativo (come nel caso dell'emigrazione ispanica negli Stati Uniti). Occorre però saper elaborare una strategia in grado di utilizzare ogni spinta, cogliendo tempestivamente le opportunità come hanno saputo fare le istituzioni culturali italiane con il Made in Italy.

In questo senso non è sempre determinante l'investimento finanziario, che da solo non porta automaticamente ai risultati sperati. E' necessario che ad esso venga associato un atteggiamento duttile di apertura culturale in grado di far cogliere quei fattori appena menzionati. Questo atteggiamento è connaturato a certe civiltà più che ad altre (Si pensi a molte lingue orientali che al di fuori dei paesi di origine non sono praticamente parlate da nessuno, laddove il portoghese, rispetto al numero di parlanti nativi, è una lingua relativamente molto diffusa) ma è certamente possibile svilupparlo. Esso viene inoltre immediatamente percepito dagli stranieri e diventa una parte importante nella formazione dello status e nella determinazione del grado di "simpatia" di una lingua.

Questo atteggiamento di apertura è uno dei fattori più controllabili nella determinazione dello status culturale di una lingua, poiché ad esso spesso concorrono oltre che le tradizioni culturale di un popolo anche le decisioni di organizzazioni pubbliche e private. Un caso molto evidente di questo aspetto si ha nel maggior o minore "protezionismo linguistico" presente in ciascuna lingua. In alcuni paesi si assiste per esempio ad una traduzione forzata dei termini stranieri, specialmente di quelli tecnologici, magari associata ad una politica di sostegno finanziario a quegli enti o organizzazioni che privilegino l'uso della lingua nazionale in occasioni di convegni o per scopi scientifici. Sicuramente questo tipo di atteggiamento contraddice le naturali tendenze evolutive del linguaggio, ormai acquisite dalla linguistica, e che a lungo andare finiscono sempre con l'imporsi e certamente non incoraggia il potenziale discente straniero.

D'altronde se solo si pensa al complesso gioco dei prestiti e dei ritorni linguistici risulta alquanto difficile definire persino il concetto di lingua pura che si vorrebbe in qualche modo cristallizzare. L'inglese moderno, da tanti temuto per la sua forza di penetrazione linguistica, ha oggi un lessico composto per poco meno della metà da parole di origine latina, e la sua struttura sintattica originaria si è venuta nel corso dei secoli modificando con un'assimilazione di strutture di uguale origine. Basta considerare la parola computer, che i francesi rifiutano a favore di ordinateur, direttamente derivata dal verbo latino computare, da cui, tra gli altri, derivano l'italiano contare e computare, il francese compter e lo spagnolo contar e computar. Se proprio non si vuole accogliere la parola computer nel proprio vocabolario, come fa con molta duttilità l'italiano corrente (calcolatore e cervello elettronico sono infatti ormai quasi desueti), ci sono delle alternative intermedie come l'adattamento fonetico e grafico della parola, molto diffuso ad esempio in Spagna (computadora, o ancora futbol e interviù per football e interview). A parte il fatto poi che i termini della tecnologia sono in larga parte coniati su radici di origine greca e latina, garantendone quindi una certa internazionalità super partes.

Oltre naturalmente l'incidenza in termini di "simpatia" nei confronti di un discente straniero un atteggiamento di apertura nei confronti di altre lingue non riduce la propria identità culturale ma anzi la sottolinea e la arricchisce. L'incidenza di apporti dalla lingua greca in uno dei più grandi poeti della latinità, Virgilio, era alquanto alta ma non per questo egli fu o è considerato meno rappresentativo e omogeneo alla sua cultura.

Un secondo fattore di cui tener conto nella elaborazione di una politica che influenzi lo status culturale di una lingua è dato dalla tipologia della sua diffusione. Ogni lingua dispone come abbiamo visto di diverse reti di diffusione a cui bisogna adattarsi. L'italiano ad esempio è lingua ufficiale solo nel nostro paese e in Svizzera, oltre beninteso che a San Marino e in Vaticano, però può contare su vaste comunità di connazionali sparse nei principali paesi del mondo che costituiscono una italofonia informale ma influente. L'inglese ha una struttura policentrica fatta di comunità autonome che irradiano ciascuna una cultura diversa. La situazione della francofonia si avvicina forse di più a quella dello spagnolo. Il francese può contare su di un ampio numero di parlanti francesi nel mondo e su di un numero altrettanto ampio di paesi con bilinguismo francofono che hanno un potenziale culturale autonomo non ancora completamente espresso. Ad esempio la francofonia nel mondo si gioverebbe probabilmente di una maggiore valorizzazione di queste culture per le quali la Francia potrebbe assumere la funzione di punto di riferimento e coordinamento analogo a quello che ha oggi la Spagna per i paesi latino-americani. In campo letterario e ancor più in quello cinematografico questa rivalutazione sta avvenendo lentamente attraverso la scoperta di autori non francesi che legano la lingua francese a nuove immagini e stili di vita quali quelle degli americanissimi grattacieli di Montreal o delle assolate e lussureggianti prospettive africane.

In ambito mondiale e nel breve periodo difficilmente l'inglese troverà rivali come lingua di lavoro in abito scientifico e tecnologico, ma sul piano della comunicazione e dell'informazione, oltre che su quello della cultura, il francese ha ancora un ruolo molto competitivo, come sembrano suggerire anche i grandi investimenti fatti in Francia nel settore informatico. Gli investimenti nella creazione di una rete informatica francofona incoraggiata dal governo dimostra che sia il settore pubblico sia quello privato hanno compreso la centralità di queste nuove tecnologie anche nel processo di diffusione linguistico. La lingua d'accesso a questi nuovi servizi, qualitativamente all'avanguardia, è infatti il francese e ciò costituisce per molti, specie per i più giovani, uno stimolo verso il suo apprendimento. Inoltre sono disponibili nella rete francofona anche accessi verso siti didattici finalizzati all'apprendimento della lingua stessa.

Infine una notazione a parte va fatta sulla situazione europea. Qui a fronte di una molteplicità di lingue che tende anzi ad arricchirsi per effetto del fenomeno delle autonomie in ambito nazionale (il caso più evidente è quello della Spagna, dove il catalano, il basco, il galiziano godono ormai di parità giuridica con il castigliano) o per il frazionamento di alcuni stati multilingui (la Cecoslovacchia, l'U.R.S.S. ecc.), si registra invece una convergenza degli status culturali. In altri termini, il processo di unificazione europea, mentre rilancia le autonomie regionali, di fatto attutisce le differenze culturali. L'omogeneizzazione degli stili di vita nei vari paesi è sempre crescente e dunque in proporzione decresce la percezione di una diversità marcata dei diversi status culturali delle varie lingue. Ciò significa che si sta affermando uno status comune della cultura europea che sarà probabilmente associato alle lingue che rappresentano solo aspetti diversi della stessa civiltà. Questo fenomeno è già in atto e peraltro abbastanza evidente se si osserva l'immagine dell'Europa che si ha al suo esterno per esempio in Asia o in America. La Tour Eiffel, il Colosseo o il Big Ben sono percepiti e considerati come simboli e aspetti della stessa cultura. Un po' come accade ai turisti che a Venezia si aspettano che il gondoliere canti O' sole mio fondendo gli stereotipi da loro avvertiti come caratteri nazionali.

E' questa una situazione non nuova se si pensa in termini storici ai grandi imperi multinazionali e più recentemente agli Stati Uniti. Qui il progetto originario del melting pot e dell'assimilazione linguistica ha lasciato il posto a uno schema di convivenza tra le varie componenti linguistiche e culturali che si affiancano alla cultura anglosassone nella cornice della comune americanità.

Le modalità molto diverse del processo di integrazione europea, che sta avvenendo per la volontà di popoli stanziali di unirsi, laddove negli Stati Uniti diverse ondate di emigrazione si sono andate ad inserire nel nucleo maggioritario anglosassone, producono evidentemente anche diversi risultati dal punto di vista dell'integrazione linguistica e di quella culturale. Manca infatti in Europa una lingua egemone, a al prestigio internazionale dell'inglese si contrappone quello continentale del francese e del tedesco (molto studiato nell'est europeo), oltre che dell'italiano e dello spagnolo. Si tratta di un evoluzione ancora in fieri, ma le linee di tendenza attuali sembrano indicare che si arriverà ad una coesistenza e ad un vero pluralismo linguistico, in cui anche lingue parlate da un minor numero di parlanti nativi come il danese o lo svedese troveranno una diffusione al di fuori dei confini nazionali probabilmente superiore a quella attuale. Tale pluralismo linguistico corrisponderà però ad un nuovo modello culturale comune di diffusione della civiltà Europea, un modello che sarà sostenuto e corrisponderà a tutte queste lingue le quali ne rappresenteranno, in maniera molto più organica che nel passato, i differenti aspetti.

 

 

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