Le tasse dal lavoro all'energia
Più occupazione e meno inquinamento ritarando il fisco
Marco Morosini, 9.12.98


Volete una natura più sana o volete più occupazione? Questa drammatica alternativa, valida ancora in qualche situazione locale, sta lasciando il posto a una visione diametralmente opposta: "Il nostro sistema fiscale - recita il programma elettorale 1998 della CDU tedesca - rende particolarmente costoso proprio ciò di cui abbiamo più bisogno: i posti di lavoro. Invece ciò su cui dovremmo risparmiare è troppo a buon mercato: energia e materie prime. È questa disuguaglianza che dobbiamo riequilibrare se vogliamo avvicinarci ai nostri obiettivi, cioè più occupazione e meno carichi ambientali".
Questa nuova visione mette in gioco uno dei nuclei fondamentali della modernità: la incalzante sostituzione del lavoro umano con artifici tecnici a crescente consumo di energia e di materiali, cioè di natura. Questo fenomeno, esasperato negli ultimi 200 anni, è la fonte dell'enorme aumento del benessere materiale nei paesi industrializzati. Contemporaneamente però è la causa di due dei principali problemi attuali: disoccupazione e degrado dell'ambientale globale. Proviamo ad analizzare secondo il loro contenuto di energia, di materiali e di lavoro le merci e i servizi che usiamo ogni giorno. Compariamoli poi con quelli impiegati 20 o 50 anni anni fa per svolgere funzioni analoghe: un bancomat, una gru, un finestrino elettrico di automobile, un personal computer, un litro di acqua minerale in plastica, un tetrapak, un ipermercato. Tutti questi prodotti o sistemi hanno una cosa in comune: per soddisfare analoghi bisogni richiedono molto meno lavoro umano e molti più ; materiali ed energia rispetto a 20 o 50 anni fa.
Non si tratta, ovviamente, di tornare a spingere i massi a mano invece che con le gru o di raddoppiare gli impiegati di banca abolendo i bancomat. Si tratta di diventare consapevoli che ogni guadagno nella riduzione della fatica umana o nella disponibilità di un nuovo servizio lo si paga da qualche altra parte con un aumento di danni ambientali. La curva del miglioramento della qualità di vita, perciò, dovuta all'automatizzazione incalzante di ogni cosa e all'invenzione di nuovi prodotti o servizi rischia di tendere ad appiattirsi e di cominciare a scendere (l'esempio classico sono le nostre città con più auto e meno aria pulita). Perché ciò non accada occorre cominciare a selezionare. Bancomat e gru non scompariranno. Ma possono funzionare con energie rinnovabili ed esser costruiti con materiali e sistemi meno problematici o riutilizzabili.
Questa tendenza a sostituire ad ogni costo il lavoro umano con porzioni crescenti di natura può infatti travalicare i limiti ecologici, come sta avvenendo nelle società industriali. Il risultato paradossale è che paghiamo il nostro alto benessere materiale contemporaneamente con molta disoccupazione e con molto inquinamento. Nel bene e nel male, il principale motore di questo sviluppo squilibrato è il meccanismo dell'accumulazione finanziaria. Non stupisce quindi che molti vedano proprio nella politica fiscale uno strumento efficace per cercare un nuovo equilibrio allo sviluppo.
Senza aumentarlo, il carico fiscale dovrebbe essere gradualmente alleggerito sul fattore lavoro e proporzionalmente appesantito sul fattore natura, cioè sul consumo di energia e materiali e sulla emissione di sostanze dannose. Si otterrebbero così "doppi dividendi", per l'occupazione e per l'ambiente. "Riforma fiscale ecologica": si chiama così lo strumento che dieci Paesi europei hanno cominciato ad introdurre negli ultimi anni e con cui Italia e Germania stanno cominciando a muovere i primi passi. Sembra l'uovo di Colombo. Ma l'applicazione di questo principio è complessa e controversa.
"Doppia leggenda, altro che doppi dividendi !" sostiene la BDI, la Confindustria tedesca, che si oppone decisamente alla riforma. Gli effetti sulle aziende e gli effetti sociali sui ceti deboli, sono le Scilla e Cariddi della riforma fiscale ecologica. Aziende troppo o troppo rapidamente tassate potrebbero perdere competitività e, in certi casi, emigrare dove il lavoro costa meno o dove è più facile inquinare.
Occorre quindi cominciare con basse aliquote e con molte esenzioni, per esempio per le produzioni ad alto consumo energetico, come metallurgia, laterizi, chimica. Così però diminuisce l'effetto della riforma proprio là dove i consumi energetici sono più intensi. L'80% dei cosumi energetici nei Paesi industriali non sono però dovuti all'industria ma al riscaldamento e condizionamento degli edifici, ai trasporti, alla trasformazione e preparazione degli alimenti, all'illuminazione. Questi settori non solo non possono emigrare ma hanno potenziali di risparmio enormi, spesso tra il 30 e il 90 per cento. Case e automobili, per esempio, potrebbero già oggi essere costruite con tecnologie da tempo disponibili, capaci di ridurre di almeno quattro volte il loro consumo di energie non rinnovabili.
Il libro della Editrice Missionaria Italiana "Fattore quattro - Doppio benessere con metà consumo di natura" (von Weizsaecker, Lovins, Lovins, EMI 1998) descrive proprio 50 esempi del genere. La maggior parte dei carichi ambientali non sono generati da poche grandi aziende "inquinatrici" ma da decine di milioni di consumatori, dal loro stile di vita e soprattutto dai prodotti e dalle tecnologie che scelgono. È quindi su ognuno di noi che dovrebbe mordere l'aumentata pressione fiscale sull'energia e sui materiali in modo da orientarci verso prodotti e servizi più moderni e parsimoniosi.
Qui però incombe il rischio di un carico fiscale regressivo che colpirebbe maggiormente i ceti deboli, da difendere quindi con compensazioni e ammortizzazioni sociali. Queste a loro volta, se largamente applicate, diminuirebbero l'effetto della fiscalità ecologica. Occorre quindi una riforma ben temperata: né troppo dura, per non danneggiare l'economia nazionale e i ceti deboli, né troppo morbida perché altrimenti priva di effetto. Il modo migliore per giungere a questo obiettivo è quello di condurre un grande dibattito nazionale, che permetta all'opinione pubblica di essere attiva e consapevole, alle parti in gioco di esprimere proposte o riserve e ai legislatori di elaborare e calibrare gli strumenti.
La materia è così delicata ed importante che occorre una lunga fase di preparazione, un ampio consenso sociale, uno scaglionamento su diverse legislature e la possibilità di periodici aggiustamenti e revisioni. È quello che sta avvenendo in più di dieci Paesi europei, ma non in Italia, nonostante l'introduzione della carbon tax. In alcuni di questi, la Svizzera per esempio, il dibattito è in corso da ventanni, iniziato nel 1979 con i libri dell'economista svizzero Hans-Christof Binswanger, il padre della riforma fiscale ecologica. In Germania il nuovo governo sta elaborando una bozza con i primi passi della riforma. Ciò avviene però dopo che negli ultimi dieci anni numerosi istituti economici ed ecologici e diverse Università hanno elaborato studi e previsioni sui possibili effetti di questa strategia. Da anni ci sono in Germania libri, riviste, bollettini e convegni che si occupano solo di questo tema. Radio, televisioni e giornali gli dedica no dibattiti, approfondimenti e intere serie di articoli. I partiti politici, i sindacati, le associazioni di categoria, le Chiese e le organizzazioni ambientaliste dicono la loro sulla riforma fiscale ecologica. Forse anche in Italia dovremmo comiciare a fare altrettanto.