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L’ombra malvagia
Mario Amato
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So bene che gli uomini di scienze non crederanno alle mie parole, così come il giudice e i giurati non mi prestarono fede e mi condannarono a languire in quella cella per malati di mente criminali, ma tu, mia assidua lettrice, abbi la dolcezza, ancora una volta, di ascoltare.
Hai letto forse, amica mia, “La meravigliosa storia di Peter Schlemihl”(1), che vendette l’ombra al diavolo, pensando che essa non fosse importante, commettendo così un grande peccato, perché quella parte oscura di noi, che il sole proietta sui muri o sul suolo, è la dimostrazione della presenza nel mondo, è l’attestato del dono della vita. Non sono forse ameni i tramonti, quando le ombre colorano di azzurro i monti? Solo i morti non hanno ombra, e, invero, sicuramente ricordi la Commedia di Dante, quando nel Purgatorio le anime si spaventano vedendo l’ombra del sommo poeta. Abbandoniamo ora questi riferimenti letterari e veniamo al nocciolo della storia. Il mio errore fu di non vendere l’ombra. Secondo un’antica credenza, anche l’ombra di un uomo malvagio è tale, ma può accadere che sia l’ombra a rendere crudele il suo possessore.
Tu sai, fedele lettrice, che io sono un appassionato dell’arte degli scacchi, anche se per anni non raggiunsi mai un livello accettabile, e per questa ragione mi rattristavo.
Trascorrevo ore e ore studiando manuali e libri di campioni, osservando le partite tra amici nei Café o nei giardini pubblici, nelle sale dove si esibivano i maestri e gran maestri nei tornei. Durante la notte i miei sogni erano popolati di figure viventi: re e regine che mi scacciavano dai loro regni, alfieri che mi trafiggevano con alabarde, torri in cui venivo rinchiuso per tutta la vita, cavalli che mi calpestavano, la fanteria dei pedoni che caricava verso di me. La mia peggior umiliazione fu rappresentata dal giovane studente Renato.
Lo avevo conosciuto nel Café dove giocavo con amici e avventori casuali disposti ad una partita. Era un locale magnifico, non elegante come quelli del centro della città ma onorevole: il proprietario, un vecchio signore proveniente dai Monti Carpazi, con un paio di baffi rossicci che si arrampicavano infine sulle guance e che ricordavano tempi lontani, permetteva agli studenti di trascorerre l’intero pomeriggio consumando solo una tazza di caffè e dava loro anche un bicchier d’acqua; questo permesso era esteso anche agli scrittori, che occupavano sempre i tavoli d’angolo, forse perché quelle posizioni erano un ottimo osservatorio.
Spesso ho visto nelle vetrine delle librerie volumi che recavano i nomi degli scrittori che frequentavano quel Café; mi è sempre parso che, per quanto la fantasia abbia un ruolo essenziale nei romanzi e nei racconti, essi nascano dalla vita: bisogna sedersi ad un tavolo e guardare con attenzione le persone, immaginando la loro vita e i loro rapporti. Gli scrittori sanno riconoscere una donna infedele, un uomo in difficoltà, un giovane innamorato, sanno immaginare le abitazioni di questo o quell’avventore, vedono le gioie o le lacrime che gli esseri umani nascondono nella vita, ma che albergano nell’intimo, scorgono la disperazione o la serenità, anche se nascoste.
In verità a sera tutto mutava: l’odore di caffè e di dolciumi cedeva il posto a quello della birra e dell’acquavite, in luogo degli studenti ai tavoli sedevano signori maturi con le mogli o le amanti, ma gli scrittori restavano per arricchire la loro fantasia. Forse ero io l’unico cliente del pomeriggio e della sera. Sembrava che anche le cameriere cambiassero: se di giorno i loro sorrisi erano fugaci, a sera i loro denti brillavano luminosi più a lungo, pareva che anche le scollature dei loro abiti bianchi e neri fossero più audaci, le sale, che nelle ore pomeridiane erano state silenti, poiché si udivano soltanto il fruscio delle pagine sfogliate e qualche timido sussurro, si riempivano di chiasso e di fumo e delle note di una piccola orchestra.
Renato era uno studente: veniva subito dopo l’ora di pranzo, con il suo carico di libri sotto il braccio, sedeva in un angolo, ordinava un caffè e una fetta di strudel di mele, e solo quando veniva servito apriva i libri, quasi che l’odore della calda bevanda e della fetta di torta fungesse da catalizzatore per la concentrazione.
Mentre aspettava, rivolgeva lentamente lo sguardo alla sala e infine a me, che naturalmente ero impegnato in una partita a scacchi, o sedevo aspettando un avversario.
Un giorno si presentò senza libri, forse perché aveva già sostenuto l’esame, non si accomodò al solito tavolo, ma si diresse con decisione verso me. Mi augurò il buon pomeriggio e mi chiese se fossi disposto ad insegnargli il gioco. La pioggia batteva con forza sulle vetrate, c’erano soltanto studenti ed io già, annoiato, mi preparavo a prendere la strada di casa, per cui fui ben felice di aver trovato il modo di trascorrere il tempo.
Il gioco degli scacchi è alquanto bizzarro, poiché, dopo aver imparato i movimenti dei vari pezzi, s’iniziano ad apprendere i finali di partita, insomma si comincia dalla fine.
Renato si dimostrò un ottimo allievo; per ben due settimane quelle lezioni, se così posso definirle, sebbene io non abbia mai preteso di essere un maestro, titolo in verità difficile da raggiungere, quelle lezioni, dicevo, occuparono tutti i pomeriggi, e non solo, perché se giocavo con qualcuno, lo studente osservava la partita senza mai staccare gli occhi dalla scacchiera. Infine venne il giorno in cui Renato domandò di giocare. Conoscevo già la grande capacità di concentrazione di Renato, poiché lo avevo osservato mentre studiava, e indovinavo che anche quando i suoi occhi vagavano nella sala, in realtà erano ancora fissi, mentalmente sul libro che restava aperto, ma non abbandonato, sul tavolo. Iniziammo: dopo poche mosse mi resi conto che avrei dovuto sforzarmi per ottenere la vittoria; come il solito, si udiva il fruscio delle pagine sfogliate, il ticchettio del grande orologio a pendolo, antico oggetto orgoglio del locandiere, i passi felpati e veloci delle cameriere. La partita fra me e il mio giovane allievo continuava, tanto che non ci avveddemmo che era giunta la sera e che la clientela era cambiata, come sempre avveniva. Non udivamo il baccano, né la piccola orchestra che suonava. A mezzanotte, quando gli avventori erano ancora più rumorosi, e qualche coppia cercava di ballare tra i numerosi tavoli, subii lo scacco matto. L’allievo, che io avevo istruito, il principiante, mi aveva battuto. Irato, non ringrazai per la bella partita, né mi complimentai e neanche lo salutai, formalità che sono d’obbligo, ma mi allontanai rapidamente.
Giunto a casa, sedetti sul mio solitario letto e, chissà perché, guardando la mia ombra, le chiesi se fosse lieta per quell’umiliante disfatta. Non mi aspettavo certamente che essa mi rispondesse, ma ciò avvenne: quell’oscura parte di me iniziò a ridere sonoramente, e lo sghignazzo echeggiò per tutta la stanza. Puoi ben immaginare, mia diletta amica, che credetti di esser divenuto completamente folle: era la solitudine che mi aveva condotto alla pazzia o forse la rabbia per la sconfitta, o forse il vento che aveva iniziato a soffiare violentemente e ululava come un branco di lupi affamati? Fatto è che ordinai all’ombra di tacere, ma quella invece rise ancora, dopo di che iniziò a parlare, ed anche se non posso ricordare esattamente le sue parole, rammento la proposta indegna, che tuttavia accettai: ella, l’ombra, la parte oscura di me, mi avrebbe suggerito le mosse di ogni partita, ma in cambio avrebbe compiuto tutti i delitti possibili, lasciando tracce che infine conducessero a me, insomma sarei stato io accusato di ogni misfatto.
Sì, accettai, entrando in tal modo nel numero infinito degli esseri umani meschini e miseri nell’anima. E tanto meschino fui che quella notte dormii di un sonno sereno e senza sogni. Mi svegliarono i raggi dorati dell’aurora, provvidi alle abluzioni mattutine e all’abbondante colazione, poiché la soddisfazione genera appetito. Non avevo dimenticato gli avvenimenti della sera, ma volli assicurarmi che non avessi sognato o avuto allucinazioni e rivolsi ancora la parola alla mia ombra e, come puoi indovinare, essa mi rispose. Attesi con ansia il pomeriggio per recarmi al Cafè e fronteggiarmi con Renato, colui che alla sua prima partita mi aveva mortificato, ma non era tra i clienti ed lo attesi inutilmente fino alla sera. Tornato a casa, rimproverai l’ombra, ma essa replicò che avrei dovuto da quel momento contrastare avversari più validi.
Seguendo i consigli della mia parte senza luce, cominciai a comprare giornali e informarmi riguardo ai tornei ufficiali di scacchi, ma naturalmente dovevo iniziare dai livelli più bassi. C’erano ovviamente in città circoli scacchistici e divenni assiduo frequentatore e giocatore; l’ombra mi consigliava i giusti movimenti e, qualche volta, quando ero in palese difficoltà, con qualche strano autonomo movimento distraeva l’avversario, ma giacché il confine tra luce e ombra, malvagità e bontà, perfidia e mitezza, è evanescente, anch’essa sbagliava, tuttavia a coloro che mi sconfiggevano, accadeva sempre qualche terribile disgrazia: qualcuno veniva investito da un treno o da una vettura, qualcun altro veniva assassinato, altri persero tutti i loro averi e fra questi ci furono numerosi suicidi. Di tutti questi crimini non ero io il responsabile, ma la mia terribile ombra, che io biasimavo, ma che non avevo il coraggio di fermare.
C’era però un altro turbamento: non avevo dimenticato Renato e volevo incontrarlo, ma egli sembrava scomparso nel nulla. Nel frattempo scalavo la graduatoria dei giocatori di scacchi, anche perché i più rischiosi per me subivano qualche sventura ancor prima di potere sfidarmi. Viaggiavo di città in città, seguito dalla mia ombra, da quella maledizione che a me sembrava benefica e finalmente, in un torneo importante, nella partita finale di fronte a me sedette Renato. Non era cambiato, a parte qualche filo grigio tra i neri capelli e un pizzetto sul mento che gli donava un’aria intelletuale. Ero contento di averlo nuovamente incontrato e anch’egli mi salutò con cordialità, sebbene avessi notato qualcosa di strano nel suo sorriso, come se occultasse qualche recondita sorpresa.
Iniziammo la partita, che io stupidamente consideravo la rivincita di quella giocata nel Cafè ai tempi della nostra, anzi della sua gioventù, ma questa volta l’ombra taceva e sembrava essere tornata la docile silente proiezione del mio corpo. Renato muoveva con sapienza e sicurezza i pezzi e pareva prevedere ogni mia mossa, finché per la seconda volta m’inflisse lo scacco matto, ma non fu l’unica sconfitta: quando tesi la mano per congratularmi, egli mi ammanettò, dichiarandosi ispettore di polizia.
Come ti ho informato all’inizio, lettrice forse unica, i giurati e il giudice non credettero al mio racconto ed anche il mio avvocato non volle sostenere una tale fantasiosa linea di difesa, ma tu sai che, come dice Amleto al suo amico, “ci sono più cose, Orazio, tra cielo e terra di quanto sappia la tua filosofia”.
NOTA
1) Chamisso, Adalbert von, La meravigliosa storia di Peter Schlemihl, Milano, Garzanti.
ottobre 2012
in narrativa:   |
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