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Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia
Poemetto di Francesco De Napoli
Tommaso Di Brango
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«Già sentivo, in quegli anni trasognati, / che la strada percorsa ogni giorno, / in realtà, non è mai la stessa» (cit. p. 23).
«Panta rei», «tutto scorre» sembrano dire questi versi che Francesco De Napoli affidò al poemetto L’attesa nell’ormai lontano 1987.
Uno spettacolo terribile quello del divenire delle cose, perché spettacolo della vita che passa, dell’attimo che ha nell’occasione dell’esistenza la sua prima ed ultima opportunità di apparire sul palcoscenico del mondo. Né v’è ad esso rimedio se non quello, fragile e malcerto – perché aeriforme, incapace di riconsegnare la corporeità del vivente – della memoria. Una memoria che, in De Napoli, si fa intenso e prolungato canto di poeta, che dopo L’attesa ha continuato ad intonare la litania della sua personalissima età dell’oro – l’infanzia – dando vita alle raccolte La casa del porto e Carte da gioco.
È così che è venuta fuori quella che gli studiosi hanno ormai unanimemente riconosciuto essere la sua «trilogia dell’infanzia», che nella recente edizione in volume unico mostra tutta l’unitarietà e compattezza di un discorso che non è rimasto impassibile al trascorrere degli anni ma che, certo, non è mutato nei suoi connotati più profondi. Ha ragione, quindi, Giorgio Barberi Squarotti quando, nella Testimonianza posta al termine di questo volume, scrive che «De Napoli riesce conclusivamente a dare unità ai capitoli della memoria in virtù della coerenza e della continuità del discorso poetico» (cit. p. 69). Coerente e continuativa, infatti, è la presenza di figure e situazioni che il tempo ha portato via con sé – tra le quali spiccano l’immagine del padre e della Lucania, che tornano a più riprese in mezzo ad una folla di volti e luoghi assai variegata – come pure coerente e continuativa è la sottesa ma assai inquieta e suggestiva interrogazione del poeta circa l’effettiva qualità della memoria (e, con essa, della poesia) come strumento di rievocazione. Se da un lato, infatti, è grazie ad un «miracolo di memoria» (cit. p. 24) che il poeta può respirare l’atmosfera di un mondo che addirittura ha preceduto la sua nascita (un mondo in guerra, in cui il padre è ricoverato in un ospedale sovietico e la madre sgranocchiava pannocchie «col vestitino lieve / ritagliato dal paracadute /gettato via dagli americani»), dall’altro il suo ritorno, a vent’anni di distanza da L’attesa, in Lucania (un posto «che non riconosco / non cerco non so / né dentro né fuori di me / eppure c’è: / sogno vivo d’assopite visioni / che Sud non è», cit. p. 50) lo pone di fronte a vecchi intenti «nelle sfide a scopone» che bestemmiano alla vista di «quei simboli sfuggenti; a tratti / splendenti, fumosi / su carte da gioco / agitarsi tra i fianchi / a spintoni» (ivi). La memoria non fa più miracoli: il poeta non riconosce la sua terra e di fronte a sé ha soltanto carte da gioco portatrici di simboli splendenti solo a tratti, ma in ultima istanza fumosi e sfuggenti. Un po’ come, evidentemente, devono apparire a De Napoli i versi di questa sua trilogia, che non per caso – come se temesse di star giocando e di non essere in grado di ridar vita, attraverso la parola, ad un bel niente – ha deciso di intitolare Carte da gioco – Trilogia dell’infanzia. Di fronte al diluvio del tempo che sommerge l’esistenza, dunque, De Napoli si sente come un Noè in tono minore: l’arca che può costruire è fatta da parole che mette insieme con passione e trasporto, ma della cui efficacia non è convinto fino in fondo. Ed è da questo dubbio – che allontana il suo memorialismo da suggestioni di ottocentesca memoria e lo rende prossimo, semmai, alle inquietudini novecentesche – che nasce gran parte del pathos di questi versi, dai quali non si genera una serena pacificazione del dramma dell’esistenza e nei quali, al contrario, vengono posti ulteriori grumi problematici pronti a sgorgare nel pianto che chiude il “notturno lucano” de L’attesa («Esposto al vento delle colline, / ora bevo alla gelida fonte d’un tempo, / perenne come puro spirito. / E piango», cit. p. 22).
Dunque questa è poesia intesa come rievocazione, ma anche come interrogazione delle possibilità evocative della poesia. Ma anche, fatto non secondario, come tematizzazione di un rifiuto, che è precisamente il rifiuto della realtà contemporanea – d’altra parte De Napoli, quando non dà voce alla memoria, indossa i panni del pungente epigrammista pronto a fustigare con indignazione e sarcasmo la corruttela del tempo presente: non è un caso che, qualche anno fa, abbia intitolato La memoria e la satira il libro-intervista-confessione realizzato con Fulvio Castellani. Un rifiuto tangibile nei già menzionati versi di Carte da gioco, ma reso esplicito anche nel componimento conclusivo de L’attesa (un’invettiva contro le vane illusioni di quanti affollano «le nefaste strade del mondo» con «volti allucinati di anime vuote» che sembrano essere la traduzione in versi della Sera sulla via Karl Johann di Edvard Munch) ed accennato allusivamente nella terza poesia de La casa del porto («Come descrivere la magica quiete, / la pace mai più ritrovata di Santo Spirito – non lungo viottoli lucani, in verdi borghi / d’Abruzzo o su amene colline ciociare», cit. p. 42). Un rifiuto che mostra come i “due versanti” della poesia di De Napoli siano, in definitiva, due facce di una medesima medaglia nella quale la memoria fa lega con la passione civile, la dolorosa percezione dell’assenza con l’irridente critica del malcostume dominante. Ed è questa commistione di elementi, questa compresenza di fattori che fa della sua opera poetica un prezioso strumento non solo per accedere al territorio del sogno e della rammemorazione – usufruendo di tutti i contraddittori piaceri della malinconia –, ma anche per far sì che sogno e rammemorazione si trasformino in materiali per acquisire una più precisa coscienza delle contraddizioni del mondo in cui siamo immersi nella nostra vita quotidiana.
Francesco De Napoli, "Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia". Osanna Edizioni, Venosa (PZ), giugno 2011, pp. 72.
maggio 2012
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