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L’affettivo come radice profonda del cognitivo.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Sono stato e lo rimango tuttora, nonostante l’ultimo Suo pezzo “Basta con la scuola del cuore ricominciamo a far pensare” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 31 di agosto, pezzo che mi ha lascito perplesso per le tesi contenute e smarrito assai conoscendone l’Autore, sono stato dicevo, e lo rimango tuttora nonostante tutto, un estimatore di Marco Lodoli, insegnante e scrittore di vaglia.
Ma non mi convince in quel Suo pezzo quel richiamo e quell’allarme per una scuola nella quale “qualcuno ha stabilito che l'emotività è l'unico campo in cui si realizza il giovane. Sappiamo bene l'importanza delle ragione del cuore di Pascal, del pensiero emotivo, della forza creativa che vive nei sentimenti e certo non vogliamo che i nostri ragazzi a scuola divengano dei robot: però ho l'impressione che sia stata una debolezza micidiale la rinuncia alla logica, alla razionalità, all'analisi e alla sintesi, all'intelligenza che sa muovere i pezzi sulla scacchiera e le parole nel discorso e i numeri nei quaderni a quadretti.”
Intanto non si specifica chi abbia decretato “che l'emotività è l'unico campo in cui si realizza il giovane”. Ho conosciuto una scuola pubblica nella quale l’emotività non stava proprio di casa. E se essa, l’emotività per l’appunto, ha potuto fare una timida breccia, lo si deve soprattutto all’impegno costante e coraggioso dei soliti volenterosi, pur presenti nella scuola, che si sono fatti carico di un processo innovativo delle vetuste strutture mentali, pedagogiche e non della scuola pubblica del bel paese.
Così come mi pare essere un grosso e/o grossolano azzardo dell’illustre collega quella Sua affermazione per la quale “ho l'impressione che sia stata una debolezza micidiale la rinuncia alla logica, alla razionalità, all'analisi e alla sintesi, all'intelligenza…”. Non mi pare che le cose stiano in questo modo. La scuola pubblica del bel paese non ha mai bandito la “logica”, la “razionalità” e “l’analisi”; ha cercato semmai, grazie all’impegno di quei volenterosi ai quali si è dianzi accennato, ha cercato, dicevo, non sempre riuscendovi a causa delle storture insite nell’istituzione stessa, di colmare quel fossato che sta sempre tra l’istruire e l’educare, due fasi che concorrono alla formazione globale della persona e che sarebbe tragico errore porre in alternativa se non in contrasto.
A questo proposito mi è stato sempre di grande aiuto, nella mia ultradecennale attività di educatore, un pensiero raccolto tanti anni addietro, tanto da non poterli contare, sulla rivista “School in Europe“ dal saggio “Essere insegnanti, divenire maestri“ del professor Raniero Regni:
“(…). …, ricordandoci l’affettivo come radice profonda del cognitivo, ad un certo livello, il nostro metodo pedagogico siamo noi. Non si può, sul piano dei registri della psicologia del profondo, portare nessuno più in là di dove noi stessi siamo riusciti ad arrivare. Possiamo ordinare e sistemare nell’altro solo ciò che siamo riusciti a sistemare in noi. Possiamo solo far sviluppare nell’altro solo ciò che abbiamo permesso di crescere in noi. Non serve dare sicurezza se non siamo sicuri. Non serve stimolare l’autonomia e la creatività negli altri se non le abbiamo conquistate per noi. Troppo spesso si pretende la socialità dagli allievi e non si tollerano i colleghi, si invoca autonomia e creatività (…) in contesti organizzativi e relazionali stereotipati e culturalmente devitalizzati. (…)”.
È nel quadro delineato dal professor Regni che tantissimi volenterosi, negli anni passati, per quanto possa attingere alla mia esperienza, si sono impegnati nella scuola pubblica affinché trovasse in essa posto, ma molto timidamente e con forti contrasti, “l’affettivo come radice profonda del cognitivo”.
Per restare nel tema e per non fare solo “filosofia”, come spesso ho sentito dire nelle aule scolastiche da dirigenti neghittosi, propongo di seguito una riflessione che sta bene nel solco della cronaca e della quotidianità; la traggo da “Una scuola sfiduciata” del professor Umberto Galimberti, pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” del 13 di novembre dell’anno 2010. La trascrivo di seguito in parte.
“Ricominciamo dalla piccola politica dal momento che la grande politica non se ne occupa. Mi domando se il ministro della Pubblica Istruzione si è mai chiesto che tipo di educazione possono ricevere gli studenti che si trovano di fronte insegnanti demotivati o precari sfiduciati. Ma educazione è ormai per la scuola pubblica una parola impropria, perché non si può educare quando le classi sono composte da trentacinque studenti che, per il loro numero è impossibile seguire individualmente nei loro percorsi di apprendimento che sono diversi da individuo a individuo. Nella scuola pubblica l'educazione è bandita, al massimo si può trasmettere solo istruzione, perché educazione vuol dire anche e soprattutto crescita emotiva, cura dei sentimenti, che è impossibile praticare in classi stracolme. Stracolme per risparmiare sugli stipendi già esigui degli insegnanti, che in Italia guadagnano un terzo dei loro colleghi tedeschi. Senza considerare che un paese sempre più povero di mezzi culturali sarà anche più facile da governare, ma alla lunga regredisce nella scala delle eccellenze, diventando sempre più marginale rispetto agli altri paesi e alla fine più povero e dipendente. Ma siccome questi effetti negativi si vedono dopo uno o due decenni e i politici hanno lo sguardo corto che non oltrepassa i cinque anni di una legislatura, può davvero una simile politica arginare il degrado di una nazione e soprattutto essere preoccupata di questo degrado? Penso proprio di no. E allora (…), svilita dalle vecchie volpi in cattedra da quarant'anni, incominciamo dalla piccola politica che consiste nel far bene il proprio lavoro anche se nessuno si accorge e nessuno ce lo riconosce. In questo modo il nostro narcisismo è salvo perché possiamo rispecchiarci con orgoglio in quello che facciamo, e i ragazzi che ci sono affidati ne traggono giovamento (…). Perché solo dalle piccole politiche delle persone impegnate può nascere una grande politica i cui rappresentanti non pensano a se stessi, ma alla voglia di riscattare un paese triste e sfiduciato che più non crede in se stesso, per cui ciascuno pensa solo a sé.”
settembre 2011
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