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“The tree of life”.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Acquietato il “tarlo” del referendum, sono stato a vedere il magistrale lavoro di Terrence Malick "The tree of life”.
Avevo letto l’interessante riflessione che ne aveva fatto su “il Fatto Quotidiano” la scrittrice Evelina Santangelo col titolo “Il Dio impassibile di Malick”, riflessione stuzzicante ed intrigante assai che di seguito trascrivo in parte. Avevo del resto letto dell’altro. In questi casi, quando si è letto molto, il rischio che si corre è di non essere più “puliti” dentro, ovvero di non essere più un “brogliaccio” intonso sul quale ancora non siano state vergate parole altrui ad esprimere pensieri, sentimenti e sensazioni altrui. Il rischio in verità si corre sempre, ma vale la pena correrlo; la lettura è l’ossigeno del cervello, e ad essa mi aggrappo per sfuggire alla condizione di anaerobiosi cui la civiltà della comunicazione tenta di ricacciarci. Provo a dire la mia. L’opera cinematografica di Malick scorre soprattutto sui due binomi “immagini/visioni” e “armonia/disarmonia”. L’opera si regge magistralmente sulla virtù delle immagini, ché non potrebbe essere altrimenti per un’opera cinematografica. Ma le immagini assumono spesso lo spessore proprio delle visioni, di un qualcosa che financo l’occhio umano stenterebbe a immaginare ed a recepire se non accorresse in suo aiuto la maestria del grande regista. È come se il regista avesse scandagliato l’infinito mondo delle immagini possibili ed invisibili ad occhio umano per renderci quelle che, sfidando il sensibile della gente comune, potrebbero apparire inverosimili se non pura creazione della moderna arte della creazione digitale. Le Sue immagini/visioni sono quanto di più alto la cinematografia abbia mai potuto creare. Soprattutto nella prima parte dell’opera le immagini, con un abile lavoro di montaggio, sembrano ricreare la condizioni proprie di una proiezione per diapositive, con un susseguirsi di sequenze estremamente brevi, brevissime, che si succedono per come avviene nelle tipiche proiezioni di diapositive. È un abile gioco di riprese e di montaggio che nella seconda parte dell’opera si evolve in riprese che indugiano notevolmente sui primi piani a sostanziare quasi, con quella tecnica di ripresa, i sentimenti ed i tormenti dei protagonisti, soprattutto dei protagonisti adolescenti. Dicevo del binomio “armonia/disarmonia”. Esso gioca i suoi effetti nella contrapposizione che il regista deliberatamente indulge a creare tra le immagini di una natura di per se stessa in armonia con i suoi molteplici elementi e la vicenda degli umani che dentro di essa si muovono, vivono, lottano e soffrono indifferenti ad essa come essa risulta essere indifferente alle vicende loro. L’armonia della natura, anche nelle sue manifestazioni di “violenza” e di sconquassi epocali, ma pur sempre armonia, si contrappone alla disarmonia dei sentimenti, delle scelte e delle azioni di quegli esseri deboli ed indifesi che su di essa tentano di realizzare le loro vite. È certo che l’Autore abbia risentito di molto della lettura del biblico libro di Giobbe, citato all’inizio della opera Sua. Il film è un sovrapporsi continuo di piani diversi di creatività artistica spinta sino alla soglia di “un cinema veggente, un cinema visionario, sicuramente, e onirico” per come ne ha scritto abilmente Angelina Santangelo nella Sua riflessione. Ma nelle pieghe di quelle visioni, di quei sogni ad occhi aperti, scorre la vita di un’America temprata e forte nella sua idea dell’uomo bianco che deve riuscire nella vita, deve necessariamente sfondare nel lavoro e nella società in forza di una conquista economica e sociale non barattabile mai, anche a rischio di fagocitare sentimenti e passioni. È questo il piano pedagogico dell’opera di Malick che scandaglia, senza pietà, l’inevitabile contrapposizione che ne deriva tra una concezione rigida della vita e degli obblighi che essa impone ed il mondo dei sentimenti, delle paure, delle attese e delle speranze proprie delle giovanissime generazioni americane del tempo, intrappolate e frustrate in nome di quei codici familiari e sociali propri dell’uomo americano del ventesimo secolo. È qui che sopravviene una visione che definirei mistica dell’opera di Malick, ove ricorrente si fa l’invocazione Sua, con una voce fuori campo, affinché ci sia un dio che soccorra l’uomo nella sua ricerca e che lo guidi nella scelta delle risposte giuste, quelle che poi risultano essere anche le più umane.
“(…).Un cinema veggente, l’ha definito qualche critico. Un cinema visionario, sicuramente, e onirico, che non narra, ma preferisce suggerire piuttosto, attraverso analogie, assonanze, richiami emotivi, complice una musica portentosa, ora solenne come un requiem ora impalpabile come un richiamo fatto di puro spirito. Ed è proprio su quel che questo film suggerisce che vorrei soffermarmi, partendo da quel nocciolo umano, appunto, in cui è messo in scena un microcosmo familiare in un tempo preciso: l’America della middle class degli anni ’50 – con le sue grettezze, il suo pragmatismo omocentrico, il suo culto del focolare domestico. In questo microcosmo cresce Jack, diviso dolorosamente tra gli insegnamenti di un padre duro (Brad Pitt), o meglio indurito e frustrato, che pronuncia frasi come questa: - Ci vuole una volontà di ferro per farsi avanti in questo mondo -, e una madre che: - Se non ami, – dice, – la tua vita passerà in un lampo -. E, quando questa stessa madre (Jessica Chastain) suggerisce come affrontare l’esistenza, non contempla che due precise possibilità: - Ci sono due vie per affrontare la vita. La via della natura e la via della grazia. Sta a te scegliere quale delle due seguire -. (…). La via della natura è piuttosto quella dell’infanzia che Jack vive insieme ai fratelli in un intreccio di conflitti interiori, frustrazioni, rancori inespressi, desideri indicibili, piccole vendette cui fa da contraltare la mitezza angelica del fratello destinato al sacrificio inesplicabile della sua morte precoce. Un personaggio, quest’ultimo, che nei tratti fisici così come nei tratti umani è la quintessenza della grazia. La grazia di una creatura bambina, resa ancora più innocente dal sacrificio che l’attende. Quella stessa grazia di cui la madre è la manifestazione più sensuale ma non meno pura, di quella purezza e bellezza disadorna, spirituale, che ricorda la Venere del Botticelli. Né sembra ci possano essere dubbi che queste due figure così fortemente idealizzate, così estranee alle dinamiche dell’esistenza quotidiana (a ogni forma di miseria o mediocrità), perché non corrotte dalla vita, siano le creature che più si avvicinano a quell’integrità ideale cui non può che volgersi il desiderio dell’uomo nella ricerca di senso. - Un giorno cadremo e verseremo lacrime... E capiremo tutto. Ogni cosa -. - Guidaci sino alla fine del tempo -. Questo dice la voce fuori campo, mentre Jack (ormai adulto) affronta il labirinto che lo porterà alla spiaggia dei giusti. E infatti il Dio cui si rivolge l’uomo di Malick è proprio il Dio del Libro di Giobbe, il Dio abissale, dalla volontà insondabile, del Vecchio Testamento, che esige sacrifici umani e non conosce pietà, né ha mai sperimentato d’altro canto la miseria dell’essere uomo. (…). Quel che lascia davvero ammutoliti è proprio l’idea che il senso dell’umano si possa manifestare in creature angeliche o angelicate, in bambini efebici e donne ‘non con uman volto’; che il senso della vita si debba tornare a cercarlo in quell’Entità lì impenetrabile e distante, o ancora nell’espiazione di un sacrificio di cui non è dato chiedere conto... e non piuttosto nel cuore stesso dell’esistenza dove, proprio in quegli stessi anni ’50, una donna, un’afro-americana (Rosa Parks), si rifiutava di cedere il posto a un bianco in un autobus e un reverendo di nome Martin Luther King predicava la giustizia terrena pronunciando parole come queste: - Se avremo aiutato una sola persona a sperare, non saremo vissuti invano -, - la legge e l'ordine saranno rispettati solo quando si concederà la giustizia a tutti indistintamente -. È davvero quella proposta da Malick l’avventura impervia e radicale di questo nostro tempo? È davvero quell’Entità il Dio cui rivolgere le nostre domande di uomini che, credenti e non credenti o diversamente credenti, hanno conosciuto anche un altro Dio capace di farsi uomo tra gli uomini... O non è forse, quell’avventura spirituale mirabile, un modo altrettanto mirabile per mettere a posto le nostre coscienze?”
giugno 2011
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