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Fog Monk
A Mario Carbone (1953 – 1999)… e a nessun altro.
Giuseppe Martini
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Tra tutte, c’era anche la possibilità di non farci caso. E so anche che si potrà accusarmi di cialtroneria e sacrilegio, o peggio di visionarietà. E meglio che non si dica che il tutto possa essere riconducibile al sogno, anche se con il passare del tempo questa eventualità la potrei sentire molto più verosimile di allora.
….E allora, non so se si ha presente quel gomito d’acqua gelida a ridosso di uno strapiombo naturale di rocce formato dal lago della Posta. Un posto questo, che al viandante che vorrà alzare lo sguardo dalla riva lacustre, gli sembrerà per forza una cisti geologica.
Inutile anche ricordare che tanti anni fa in questa terra fatta di acqua e rocce e di misteriosi cunicoli sotterranei, i terremoti e gli smottamenti hanno segnato le storie e le vite di molti uomini e donne.
Acqua e roccia inghiottono e conservano, ma la storia documenta che il convento inghiottito in una notte di tempesta da questo braccio di lago, e il passaparola silenzioso che nei secoli gli abitanti di questo luogo hanno solennemente rispettato, è la pacificazione di una convivenza spirituale fatta di paure e di segreti, di sguardi e di silenzi.
E che di questo fantasmagorico evento se ne sappia la copia o una delle copie o addirittura l’originale, ci interessa poco. E chi fossero e a quale oscuro ordine appartenessero questi incappucciati sprofondati nelle viscere del sottosuolo, è una sfida per lo storico assente. Assente giustificato, è ovvio, come assente e giustificata è stata nei secoli in queste lande, la storia.
E’ noto che si cerchi, nello scorrere delle nostre vite, di non sprofondare in qualsiasi decomposta diceria, tantomeno in un mistero. E se consideriamo la irreversibilità delle nostre faccenducole quotidiane, si prenda questo come un invito a non sghignazzare su quello che accadde in una notte di luna grossa a me e a un poeta amico mio, benché fossimo marchiati e assolti già da tempo dall’accusa infamante di “esseri visionari”.
Per coloro che giudicano il fenomeno nebbioso di questa parte di mondo: un niente, o un bel niente, o un cattivo niente; la preghiera che qui gli si rivolge, è di soffiare a polmoni pieni sulla sedimentata taccagneria in cui hanno rinchiuso la loro povera immaginazione.
Si fa appello quindi anche ai “fedeli” e alla buona volontà che li distingue, e li si prega di tollerare noi “eretici” permettendoci ogni tanto di esercitare trasognanti funzioni profane, aprendo anche noi per una volta la bara dove riposa il nostro spazio fantastico.
Essendosi creata e basta, la natura in questa zona è melodiosamente arcigna. Assume profili e tratti surreali, ed è moglie (ma non amante) di una storia cruda di gesta miserevoli di gente lurida.
Era una notte normale quando lo strabiliante furore lunare sboccò dalle ultime rocce, là in alto, coprendo con un mantello di violacea saliva, le acque.
Appostati strategicamente e armati di quattro occhi nudi, io e il poeta amico mio, sgomenti nell’ammirare la coltre di bava nebbiosa appoggiata di un metro sul piano lacustre, si era increduli e focosi di tanta realtà corrotta; e ricordo che l’amico mio stava già per dirmi che tanto poteva bastare quando, voltandomi, lo scorsi di profilo in quella fioca luce viola che tendeva l’orecchio da qualche parte, in quel mondo. Ascolta, mi sussurrò. Ed io ascoltai. Ascoltai e sentii nella pelle una scheggia di ghiaccio in ogni poro.
Una litania recitata, come un sordo galoppo di cammelli, balbettava nella nebbia. La si avvertiva a momenti, nitida e spettrale, vomitata da quella foschia violacea e magnificata da un suo andamento medievale.
Apparirono subito dopo. Dondolavano nella penombra lunare in fila per due. Avanzavano verso di noi, incappucciati, e i loro sai tremolavano, mossi docilmente dal un soffio di vento gelido e da un lamento sotterraneo. Sfilarono in sonnacchiosa fila davanti ai nostri occhi indifesi, il mormorio agghiacciante del loro pregare veniva interrotto a intervalli regolari da un suono squillante di campanella proveniente per certo dal sottosuolo, una lanugine sorda, un rimbalzare pneumatico, una lama casta…… nelle teste.
Fu l’alba poi a bussare con autorevolezza e decisione. Monaci e nebbia sfumarono sotto la scorta dei primi bagli di luce, e la natura ricominciò il suo scorrere, e i suoi piccoli suoni a interdirci.
Fu questa la prima e unica notte dopo vari esercizi, ricerche e appostamenti, di cui io e il poeta amico mio, godemmo della visione di una immortalità esposta e nuda. Era quella la notte giusta, l’unica e sola notte per spiare, e gli antichi lo dicevano ma lo negavano anche, in preda a collassi di omertosa paura, che solo una, era la notte giusta. L’avrei sognata per anni ancora quella notte, e mi toccherà sognarla ancora e per l’eternità a venire, perché il tempo o la vita o chissà cosa, hanno voluto che il poeta amico mio se ne fosse andato via, e mai più potrà un’altra notte accompagnarmi violentandomi la ragione, ed aspirar violacea nebbia nei polmoni.
Che riposino. Tutti.
maggio 2011
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