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“A casa mia…”.
Aldo Ettore Quagliozzi
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“(…) Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A quelle scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico”.
Dal discorso pronunciato da Piero Calamandrei il giorno 11 di febbraio dell’anno 1950 nel corso del III Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale.
Scriveva quel grande che è stato il professor Norberto Bobbio nel Suo saggio “Invito al colloquio”, saggio pubblicato nell’anno 1951:
“(…) Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. Di certezze – rivestite della fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura, degli improvvisatori, dei dilettanti, dei protagonisti interessati. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva. (…)”
A quegli uomini di “cultura” vera, non dogmatica, che si interroga di continuo, dovrebbe rivolgere il proprio pensiero, la propria attenzione e stima chi abbia ancor oggi a cuore le sorti democratiche del bel paese. A coloro i quali ancor oggi interessano la crescita democratica e culturale del bel paese. Non si può prestare ascolto agli illetterati, agli “improvvisatori”, ai “dilettanti”, ai tanti imbonitori di professione, ai saltimbanchi della politica, a coloro che hanno a cuore solamente una impostazione aziendalistica della società, della scuola e di quant’altro concorra a costituire la cosiddetta “società civile”, ai “protagonisti interessati” insomma, per dirla con le parole di quel grande. “Società civile”, per l’appunto. Società plurale, anche.
In questa situazione di “emergenza democratica”, che il bel paese vive in uno stato incredibile di ipnosi, come di atavica rassegnazione, ho trovato straordinaria la lettera pubblica, apparsa su “il Fatto Quotidiano”, a firma della scrittrice palermitana Evelina Santangelo, “La scuola, a casa mia”, che di seguito trascrivo nella sua interezza.
“A casa mia c’erano molti libri e non erano sugli scaffali come parte dell’arredamento per fare scena. Si leggevano. C’erano i libri dei miei genitori, i libri delle zie di mio padre e dei miei nonni paterni. Perché, a casa mia, si erano succedute generazioni di professori di ogni disciplina. E quasi tutte le mie zie e i miei zii – paterni e materni – hanno continuato a svolgere orgogliosamente quello che ritenevano un compito tra i più delicati.
A casa mia, quando si doveva fare un complimento a qualcuno, si diceva: «È una bella testa, una bella intelligenza». E se si faceva invece un apprezzamento che aveva a che vedere con la bellezza fisica si pronunciava sempre con garbo, per non offendere.
A casa mia, quando i miei volevano sapere com’era andata a scuola, non ci chiedevano «Quali competenze avete acquisito?», volevano sapere piuttosto cosa avevamo appreso, capito. Né era possibile esprimere un’opinione con arroganza, se si desiderava essere ascoltati.
A casa mia giravano molti ragazzi e molte ragazze tutt’altro che bacchettoni. Quando alcuni di essi li ho incontrati in seguito mi hanno detto che, studiando latino e greco, frequentando la mia casa avevano imparato qualcosa che aveva a che vedere anche con la dignità umana e la libertà. Eppure ho sentito spesso dire a mio padre: «Non giurare mai sulla parola dei maestri, discutila, anche se ti sembra infallibile, soprattutto se ti sembra infallibile».
A casa mia, quando è stato ritrovato il corpo di Aldo Moro è stato un giorno di lutto. Come in molte famiglie d’Italia, ritengo. Perché, anche se i miei genitori non erano democristiani, avevano rispetto per il profilo morale, umano e intellettuali di uomini come Aldo Moro.
A casa mia, non si raccontavano tante barzellette. Si preferiva l’ironia, ritenuta dai miei genitori una delle manifestazioni più sottili e alte dell’intelligenza, soprattutto se si era capaci di esercitarla su se stessi. Una buona prassi per non incorrere in tutte le forme più ridicole dell’amor proprio.
A casa mia, i miei, proprio perché erano professori, non pensavano che la scuola fosse perfetta. Anzi ritenevano che avesse ancora molti limiti: il fatto stesso ad esempio che non fossero contemplati nei programmi i dibattiti in corso nella letteratura, nella storia, nell’arte, nella fisica, nelle scienze applicate... o almeno l’eco di alcuni di quei dibattiti, pensavano costituisse un limite, non solo in termini di conoscenza, ma anche sotto il profilo politico e morale.
A casa mia, certo, non si è mai apprezzato chi confonde un paese con un’azienda. Per una questione di evidenti priorità, se non altro. Essendo le priorità di un’azienda i profitti, a discapito di tutto il resto, se è il caso. Mentre le priorità di un paese democratico e della scuola in un paese democratico attengono alla qualità della vita associata, alla piena esplicazione dei diritti e dei doveri civili, alla formazione di un’opinione pubblica capace di formulare giudizi, compiere scelte, sviluppare professionalità, cosa ben diversa dal plotone di esecutori di competenze che probabilmente andrebbero benissimo per selezionare il personale di un’azienda.
A casa mia, mio padre – ho scoperto in seguito – diceva a noi figli quello che diceva ai suoi studenti: «Tutto può essere messo in discussione tranne la propria e l’altrui dignità, tranne essere uomini liberi in un mondo libero».
Così, dunque, andavano le cose a casa mia dove i ruoli del professore e del genitore spesso si confondevano.
A casa sua, signor presidente del Consiglio, cosa le hanno trasmesso, mi chiedo? visto che coglie un tale abisso tra i valori su cui si fonda la scuola pubblica e i valori della famiglia, come se ogni famiglia non fosse «fatta a suo modo», nel bene e purtroppo anche nel male, nella felicità e nell’infelicità, direi, forzando il Tolstoj di Anna Karenina. Né, perciò, la famiglia (nemmeno quella che sta bene a lei, signor presidente) può mai farsi misura su cui modellare la scuola pensata per tutti.”
marzo 2011
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